mercoledì 30 marzo 2022

"Equivoci e bugie", Joanna Cannon

East Midlands (Inghilterra), estate 1976. The Avenue è un viale di periferia fiancheggiato da casette a schiera tutte più o meno simili. Eccetto quella dell'11. La casa è diversa dalle altre, più arretrata rispetto al viale e più vecchia di qualche decina d'anni, ha la porta dipinta di nero, delle grandi finestre ed è ricoperta di muschio, con dei grossi cedri che nascondono parzialmente la facciata al posto degli abituali graziosi giardini. Anche il proprietario, Walter Bishop, è diverso dagli altri abitanti del viale: un uomo solitario, taciturno, sporco. Nessuno tollera la sua presenza, sono nove anni che cercano di spingerlo ad andarsene... All'8 vivono, invece, i Creasy. Sposati da sei anni, senza figli, sono andati ad abitare nel viale dopo che lui ha ereditato la casa dalla madre. Finché la mattina del 21 giugno Margaret scompare. Una settimana più tardi, mentre tutto il vicinato è pervaso da uno stato d'animo più vicino alla curiosità che alla preoccupazione, Grace - residente al 4 - progetta un semplice piano coinvolgendo la sua amica Tilly: sarebbero andate di casa in casa a cercare la presenza di Dio. Dopo averlo trovato ci avrebbe pensato lui a salvare tutti, Mrs Creasy sarebbe tornata a casa e loro sarebbero diventate, a 10 anni, le eroine del quartiere.

Ho scelto questo libro per la singolare traccia "un libro che non hai mai voglia di leggere" (traccia che, tra l'altro, ha messo in moto un'approfondita analisi della mia infinita wish list con conseguente scrematura, perché se un titolo era lì da dieci anni o più senza che mi fossi mai decisa ad affrontarlo, non aveva più tanto senso lasciarcelo) perché temevo che fosse lento, e in effetti un po' lo è, ma è anche molto particolare. Classificato (giustamente) nel calderone della narrativa contemporanea, ha comunque dei risvolti gialli non indifferenti e almeno un paio di colpi di scena degni di un ottimo thriller. Le sue 396 pagine sono divise in molti capitoli di varia lunghezza, non numerati, ma contrassegnati dalla data e dal numero civico in cui si svolge interamente o principalmente quello che di volta in volta viene raccontato. Alcuni hanno come teatro l'immancabile pub e altri "la grondaia" e l'aiuola che la circonda: questa è la parte debole del libro, dal mio punto di vista assolutamente evitabile, ma se proprio la Cannon doveva trovare un posto dove far apparire Gesù avrebbe potuto trovare qualcosa di meglio di una macchia di creosoto (ma del resto io e la mia famiglia negli anni '80 vedevamo Eugenio Bersellini - all'epoca allenatore della Samp - in un giglio stilizzato della carta da parati del salotto, quindi ci può stare anche di immaginare l'apparizione divina in un composto chimico). Solo Grace ci parla in prima persona: lei e Tilly sono davvero adorabili con la loro ingenuità e la loro inconsapevole profondità ("A volte con gli adulti l'intervallo fra la tua domanda e la loro risposta è troppo lungo, e sembra sempre il posto migliore dove incastrare tutte le tue paure"), mentre pensieri e azioni degli altri personaggi ci vengono raccontati da un narratore esterno. Opera prima scritta nel 2016, ha come titolo originale "The trouble with goats and Sheep" che è molto più bello e sensato di quello scelto per l'edizione italiana perché rimanda al problema che le bambine riscontrano in Dio nei confronti "dei capri", bistrattati e allontanati rispetto alle pecore: in questi passaggi - come in quelli in cui emerge l'ignoranza tipica dei razzisti quando una famiglia di Birmingham, ma di origini indiane, si trasferisce al 14 - il libro diventa anche parecchio divertente. Ma è un testo ben più profondo di quanto possa sembrare se letto superficialmente. E anche parecchio triste.

"Il quartiere era sempre stato così, un corteo di persone unite dal tedio e dalla curiosità, che si passavano tra loro l’infelicità altrui come fosse un pacco."

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro che non hai mai voglia di leggere

 

martedì 29 marzo 2022

"Il piano infinito", Isabel Allende


Gregory Reeves nasce nel 1939 in un punto imprecisato degli Stati Uniti, fratello minore di Judy e figlio di Nora (madre anaffettiva di origini russe) e di Charles (australiano).
I Reeves erano nomadi, giravano per il Paese a bordo del loro camion fermandosi in piccoli centri dove Charles, Dottore in Scienze Divine, divulgava l'Unica Verità del Piano infinito: "Non minacciava castighi né prometteva salvezza eterna, si limitava a offrire soluzioni pratiche per migliorare la convivenza, placare l'angoscia e preservare le risorse del pianeta. Tutte le creature possono e debbono vivere in armonia".
Il girovagare termina con l'inizio della malattia del padre: i Reeves si accampano (letteralmente) a Los Angeles, in quella parte della città più messicana che americana. E' lì che Gregory va a scuola per la prima volta e inizia la sua crescita che lo porterà all'università di Berkeley, in Vietnam e poi di nuovo in California, a San Francisco.

Questo è uno di quei libri che dispiace finire. Dopo aver seguito la vita di Gregory per più di quarant'anni, arrivando quasi ai suoi cinquanta, avrei voluto accompagnarlo fino alla vecchiaia e sarebbe bello se Isabel Allende scrivesse il seguito, continuando a usare questo suo protagonista per raccontarci (soprattutto) l'America.

L'America razzista. I Reeves (ancora nomadi) danno un passaggio a un ragazzo di colore, King Benedict, e con questo pretesto la Allende scrive cose ovvie solo per chi non è affetto da ignoranti pregiudizi:

"Noi bianchi siamo una minoranza."
"Io vedo più bianchi che neri, mamma."
"Questo è solo un pezzo di mondo, Judy. In Africa ci sono più neri che bianchi. In Cina hanno la pelle gialla. Se noi vivessimo a sud del confine saremmo bestie rare, la gente per strada rimarrebbe sbalordita di fronte ai tuoi capelli così chiari. La pelle non conta niente."
Pochi autori hanno la capacità che ha la Allende nel descrivere la miseria e la discriminazione. Dei neri, degli indios, dei messicani. Usando parole sempre attuali per chi ancora oggi si ritrova a dover fuggire per fame e disperazione.

"Venivano da tutti i paesi a sud del confine in cerca di lavoro, senza altri averi che gli abiti che indossavano, un fagotto sulle spalle e la ferma intenzione di migliorare le proprie condizioni in quella Terra Promessa, dove si diceva che il denaro crescesse sugli alberi e chiunque avesse una certa abilità poteva diventare un capitano d'industria con una Cadillac e una bionda appesa al braccio. Non gli avevano detto, però, che per ogni fortunato ne restavano per strada cinquanta e altri cinquecento ritornavano sconfitti, e che non sarebbero stati loro i beneficiati, che il loro destino era aprire la strada per i figli e i nipoti che sarebbero nati in quella terra ostile. Non sospettavano le privazioni dell'esilio, che i padroni avrebbero profittato di loro e le autorità li avrebbero perseguitati, quanti sforzi sarebbe costato riunire la famiglia portare con sé i bimbi e i vecchi, il dolore di dire addio agli amici e di abbandonare i propri morti. Neppure li avevano avvertiti che ben presto avrebbero perduto le loro tradizioni e che il distruttivo logorarsi della memoria li avrebbe lasciati senza ricordi, né che sarebbero stati i più umiliati tra gli umili. Ma se anche lo avessero saputo, forse avrebbero comunque intrapreso il viaggio verso il nord."
Facendo crescere Gregory nella California meridionale - un tempo territorio messicano - dove è lui, biondissimo, a essere un emarginato, la Allende ci presenta un'America insolita, quella reale, perché "Il sogno americano non si realizza per tutti" e la discriminazione non risparmia nemmeno i bianchi, se poveri. 

Denuncia lo sfruttamento degli operai e ci parla del nascente femminismo e degli aborti clandestini, degli yippies, dei movimenti studenteschi, della "paura rossa".

Attraverso gli occhi di Nora descrive gli orrori della seconda Guerra mondiale, i campi di sterminio, le bombe atomiche sul Giappone.
"I giapponesi erano stati vinti dall'arma più potente della storia, che uccise in pochi minuti centotrentamila esseri umani e ne condannò altrettanti a una lenta agonia. La notizia dell'accaduto produsse un silenzio inorridito nel mondo, ma i vincitori sommersero la visione dei cadaveri ustionati e delle città ridotte in polvere con una gazzarra di bandiere, sfilate e bande musicali, anticipando il ritorno dei combattenti."
E poi arriva la terza parte (il romanzo si divide in quattro), quella sul Vietnam: il libro meriterebbe di essere letto anche solo per il modo in cui descrive la guerra, il suo non senso e, anche qui, la sua discriminazione.
"Questa è una guerra di neri e bianchi poveri, ragazzi di campagna, dei piccoli villaggi, dei quartieri più miseri, i signorini non stanno in prima linea, i loro padri trovano il modo di farli restare a casa o i loro zii colonnelli li mandano in un posto sicuro. Mia madre sostiene che la più grave perversità è il razzismo, Ciro diceva che è l'ingiustizia di classe, hanno ragione entrambi, penso, neppure al momento di andare in guerra siamo uguali."
Gran personaggio, Ciro...
"Ero venuto per colpa di Hemingway, in cerca della virilità, del mito del macho"
E si chiude con l'America del post Vietnam continuando a presentarne un aspetto più autentico di quello che molti voglio far credere e in cui altrettanti vogliono credere.
"Non si vedeva tanto egoismo, corruzione e arroganza dai tempi dell'Impero Romano"
La Allende alterna la prima e la terza persona spostandosi da un personaggio all'altro con una narrazione corale che crea una storia multi strutturata intrecciando le varie vicende nel modo che rende i suoi romanzi unici e piacevolissimi. Superiori.
"Il nemico non ha volto, non è umano, è un animale, un mostro, un demonio, se potessi crederlo nel profondo del cuore sarebbe più semplice, ma Ciro mi ha insegnato a mettere tutto in discussione, mi ha costretto a chiamare le cose col loro nome: uccidere, assassinare." 

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro di un editore letto il mese scorso (Feltrinelli)

 

venerdì 25 marzo 2022

"Ogni piccola bugia", Alice Feeney


"Mi chiamo Amber Raynolds. Ci sono tre cose che dovete sapere di me: sono in coma, mio marito non mi ama più, a volte dico bugie"

Londra, 26 dicembre 2016. Amber alterna momenti di buio assoluto ad altri in cui riesce a percepire quello che avviene attorno a lei. A poco a poco capisce di essere in un letto di ospedale, di essere intubata, di non potersi muovere. Percepisce accanto a sé la presenza del marito Paul, della sorella Claire, dei medici, delle infermiere. Sente quello che dicono, ha avuto un incidente d'auto, è in coma, non sanno se si riprenderà. Sente le infermiere parlare di lei definendola compassionevolmente "poveretta". E sente Paul e Claire litigare, loro due che sono sempre andati d'accordo. Sa che non si può fidare di loro, ma non ricorda perché. E sa che si deve svegliare e che deve farlo in fretta.

Avevo enormi aspettative su questo romanzo e questa volta non sono rimasta delusa.

Opera prima dell'inglese Alice Feeney risalente a cinque anni fa, titolo originale "Sometimes I lie", è uno di quei thriller psicologici basati sulla memoria che riaffiorando per gradi permette di ricostruire l'accaduto. I capitoli si sviluppano su tre piani temporali: abbiamo gli "adesso", che iniziano proprio dal 26 dicembre del 2016, quando Amber capisce di essere in ospedale; abbiamo i "prima", che ripercorrono la settimana precedente a partire dal 19 dicembre; e abbiamo anche gli "allora", che descrivono fatti accaduti nel passato più remoto, a partire dal 1991.

La storia, interamente narrata in prima persona, regala diversi colpi di scena, alcuni intuibili, altri meno. Una storia ricca di eventi, uno dei quali forse di troppo, il thriller sarebbe stato ugualmente adrenalinico anche senza quel personaggio "in più" (non approfondisco per non fare spoiler). C'è anche un evitabile ricorso a frasi fatte.

Ma è uno di quei thriller che vorresti continuare a leggere senza interruzioni (anche i capitoli brevi come sempre invogliano a non smettere) per raccogliere e sistemare tutte le tessere del puzzle e dove ogni particolare che viene sviluppato e/o capito crea stupore se inaspettato o soddisfazione se lo si era intuito.

In definitiva è uno dei migliori thriller letti negli ultimi anni.

Reading Challenge 2022, traccia bonus di marzo: libri dove in copertina titolo e nome dell'autore sono scritti in colori diversi fra loro

martedì 22 marzo 2022

"La scuola della carne", Yukio Mishima

 

Tokyo, immediato dopoguerra. Taeko, Sukuko e Nobuko sono tre amiche divorziate, agiate e indipendenti. La prima possiede una boutique di alta moda, la seconda un ristorante, la terza è critico cinematografico. Hanno l'abitudine di trascorrere insieme una serata al mese ed è durante l'incontro del 26 gennaio che Taeko nota il barman del locale gay dove si sta divertendo con le amiche. Senkichi è bellissimo, virile, seducente e non è gay, al massimo bisessuale, cosa irrilevante per Taeko, così come lo sono i 21 anni del ragazzo contro i suoi 39: con lui vuole solo un incontro, un'avventura, a letto i dislivelli anagrafici e socioculturali si appianano facilmente.
Ma il suo coinvolgimento sarà ben diverso...

Scritto nel 1963 e tradotto in italiano solo cinquant'anni dopo, questo romanzo è entrato nella mia wish list perché mi avevano colpita prima la copertina - con questo meraviglioso nudo di donna - e successivamente la trama. L'autore lo conoscevo vagamente solo di nome e se avessi letto la sua biografia prima del libro avrei lasciato perdere per le stesse ragioni per cui non leggo Gabriele D'Annunzio (e altri).

Leggere la biografia mi ha fatto capire che la distanza ideologica che avvertivo non era dovuta solo dal mio essere donna e lui uomo, né dal divario generazionale e culturale, ma dal suo essere fascista. Questo libro - diverso da tutti gli altri testi di autori giapponesi letti finora - mi ha trasmesso principalmente il disprezzo di chi lo ha scritto: verso l'emancipazione femminile e verso le donne in generale, verso gli omosessuali (scoprire che Mishima lo era è stata l'unica sorpresa della biografia), verso l'occidentalizzazione del Giappone, verso l'evolversi dei tempi.

Lo stile è bello e i capitoli brevi rendono particolarmente leggera la lettura (cosa non da poco per un romanzo giapponese!), la trama è intrigante e avrebbe meritato personaggi meno arroganti e pieni di sé, chi per un verso, chi per l'altro. Non mi è dispiaciuto neanche il finale.
Ma io e Mishima abbiamo solo una cosa in comune, una data: il 25 novembre. Io sono nata quel giorno del 1969, lui è morto esattamente un anno dopo, suicida, da nazionalista esaltato: le sue idee hanno caratterizzato e condizionato il romanzo, le mie hanno determinato il fastidio provato nel leggerlo.

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro di un autore asiatico

giovedì 17 marzo 2022

"Sei sospetti per un delitto", Raffaele Malavasi



Vedrai una città regale, addossata ad una collina
alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo
aspetto la indica signora del mare.
FRANCESCO PETRARCA


Questa è Genova. E' il 23 settembre 2017 e il Salone Nautico ha attratto come ogni anno un gran numero di appassionati e semplici curiosi. All'improvviso un'auto si lancia sulla folla in uscita. E' un attentato di matrice islamica che causa sette morti e ventotto feriti. Fra questi Riccardo Giustini della Squadra Mobile che è riuscito a salvare due bambini facendo scudo con il proprio corpo, atto che lo costringerà in ospedale per più di due mesi e che farà di lui un eroe.
Non è ancora rientrato in servizio quando, lunedì 11 dicembre, all'ispettore Manzi viene insolitamente assegnato un caso di scomparsa, un ordine è partito dall'alto: la persona da rintracciare è un ragazzo italiano di 24 anni, Gaetano "Nino" Barbieri, convertito all'islam e indagato sei mesi prima dalla Procura di Genova per il reato di arruolamento con finalità di terrorismo per essere fondatore e amministratore di un sito web con il presunto scopo di reclutare estremisti. Successivamente assolto dalla Corte d'Assise, non era però mai uscito dal mirino della Digos che ora vuole capire il perché della sua sparizione, senza però essere coinvolta direttamente.
E, invece, la vicenda finirà per coinvolgere tutti, compresi Red Spada e Orietta Costa.

Terzo capitolo della serie di Malavasi ambientata nella mia (e sua) città. Dopo "Tre cadaveri" e "Due omicidi diabolici" la Newton Compton continua a dare i numeri, questa volta un po' a sproposito perché "Sei sospetti per un delitto" risulta essere forzato per i sei sospetti e limitato per un solo delitto (a febbraio è uscito il nuovo libro e lì mi aspetto una strage: "Undici morti non bastano"!).

Questa nuova puntata è, come sempre, ricca della suspense degna di un thriller, ma la storia è più vicina a quella di un giallo, forse addirittura di un poliziesco. Ho trovato la dinamica dei fatti un po' troppo intricata e un po' troppo tirate le intuizioni che permettono la soluzione del caso, e deve essersene accorto anche Malavasi perché è ricorso al "metodo Barnaby" raggruppando tutte le persone interessate e facendo spiegare al suo risolutore i vari passaggi che lo hanno portato a capire il come, il quando, il chi e il perché: il sistema più facile per raccogliere tutti i fili e collegarli fra loro e, infatti, alla fine tutto torna.

Al di là di questo escamotage di comodo, è stata senz'altro una lettura appassionante, forse ancor più delle due precedenti, con il solito piacere che mi dà l'ambientazione genovese. Questa volta ci si sposta dal centro storico solo brevemente per andare alla Foce (dove si trova il polo fieristico) e nella centralissima zona di Santa Zita (dove abita Red Spada), più una sortita a Bolzaneto (quartiere dell'entroterra) e un'altra a Pra' (quartiere di fianco al mio).

L'ispettore Manzi finalmente non si lamenta per nessuna (ai suoi occhi romani) stranezza di noi genovesi e c'è il solito gioco di parole simili o uguali con cui l'autore lega un capitolo all'altro.

Come nei due libri precedenti, anche in questo si sviluppa la trama orizzontale che qui regala un colpo di scena bello grosso, mi ha fatto sfuggire un sonoro "Ah, però!" e quando un libro riesce a sorprendere in questo modo bisogna complimentarsi con chi lo ha scritto.

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro di un autore europeo

 

mercoledì 16 marzo 2022

"Candy Candy", Keiko Nagita

Prologo: Candy riceve una lettera in cui suor Lane la informa che Miss Pony (di cui solo adesso viene rivelato il nome: Paulina Giddings) si sta riprendendo. Candy osserva un quadretto appeso ai muri della sua casa, vi è raffigurata la casa di Pony, il piccolo orfanotrofio del Michigan dove il 6 maggio di più di trent'anni prima era stata abbandonata da neonata e dove poi era cresciuta. Candy sospira e iniziano i ricordi...

I suoi, ma anche i miei legati a lei: Candy Candy è stata la mia grande passione da bambina, mia e di tutte le mie compagne di scuola alle elementari. Eravamo bombardate da personaggi orfani (molte di noi - me compresa - dopo attente e serie riflessioni sull'argomento, si erano convinte di essere state adottate), ma Candy asfaltava tutti, solo Lady Oscar riusciva a farle un po' di concorrenza. Ma per me e la mia amichetta del cuore, mia omonima, esisteva solo Candy.
O forse sarebbe meglio dire che per l'altra Loredana esisteva solo Terence e per me solo Anthony ^^
Lui è stato indubbiamente il mio primo amore e anche il mio primo lutto: mia sorella - cuore di pietra (ne ho solo una, quindi è la stessa che a 7 anni mi leggeva Poe riempiendo le mie notti di incubi!) - se la ride ancora adesso ripensando a tutte le mie lacrime e ai miei singhiozzi!!

Come giusto risarcimento ho preteso che all'ultimo compleanno mi regalasse questo libro, un bel tomo di 497 pagine uscito nel 2020 all'esagerata cifra di 29€, ma che ha una bella copertina, una buona carta, un meraviglioso font e una splendida apertura a 180°. Se avesse avuto anche qualche illustrazione interna sarebbe stato perfetto. Edito dalla (a me sconosciuta) Kappalab di Bologna. L'oggetto libro mi è piaciuto così tanto che sono andata a cercare cos'altro hanno pubblicato, ma purtroppo non c'è proprio nulla che mi possa interessare.

Non ho apprezzato allo stesso modo il libro nel senso stretto di romanzo, ma questo non sminuisce il piacere che mi ha fatto leggerlo perché è stato comunque un tuffo nel passato che posso definire addirittura struggente.

La descrizione della morte di Anthony non mi ha fatto piangere come temevo, ma neppure commuovere e questo non solo perché non ricordavo che fosse morto durante una battuta di caccia alla volpe (se invece di montare a cavallo con un fucile fosse rimasto in mezzo alle sue amate rose al massimo si sarebbe punto un dito, eh!): "Candy Candy" è un libro per bambini, età consigliata di lettura 10 anni e in ogni pagina ho sentito il peso di averne ben 42 in più.

Lo stile è molto, molto semplice, votato all'ottimismo a ogni costo, al sacrificarsi sempre e comunque per il bene altrui, al non lamentarsi mai pensando che si è fortunati per quello che si ha. Un'incessante serie di buoni messaggi che è senz'altro bello cercare di trasmettere a dei bambini, ma il "porgi l'altra guancia" non mi è mai appartenuto, neppure da piccola, figurarsi adesso.

A proposito di schiaffi, non ricordavo che Candy se ne beccasse uno sia da Anthony che da Terence (non ricordavo nemmeno che lui venisse chiamato Terry: per una volta condivido l'odio per i diminutivi della mia amica Chiara!), pessima cosa da far leggere a un bambino, così come non mi è piaciuta la tiritera del poter superare ogni avversità grazie ai portafortuna.

Molto meglio l'esortazione a non giudicare gli altri dalle apparenze e belle alcune metafore, come quella sulla vita paragonata al mare, a volte calma, a volte in burrasca...

Ma in definitiva a non piacermi (proprio per niente) è stata la terza parte: la prima vede Candy negli Stati Uniti, all'orfanotrofio e poi a servizio dai Lagan. Nella seconda troviamo lei e gli altri a Londra. Ma la terza, di circa 130 pagine, è un epistolario, un'infinità di lettere (tutte intrise di un buonismo urticante), scritte e ricevute da Candy, tramite le quali l'autrice aggiorna il lettore sui fatti accaduti alla protagonista e agli altri personaggi una volta rientrati in America.
Fino al particolare finale che non viene svelato e lì ci sono rimasta malissimo.

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro con un fiore in copertina

 

martedì 15 marzo 2022

"1947". Elisabeth Asbrink


"1947, un'epoca in cui tutto sembrava possibile perché tutto era già successo"

Ogni anno meriterebbe un saggio come questo perché in tutti succede qualcosa degno di essere ricordato, nel male, ma anche nel bene. Ma se è vero (e lo è) che certe annate sono più importanti di altre, il 1947 è stato importantissimo per il mondo intero

Inizia la Guerra Fredda. La Palestina viene divisa in due Stati indipendenti, uno arabo e uno ebraico. L'islam si sviluppa in movimento politico. I Fratelli Mussulmani introducono l'uso del jihad. Pakistan e India diventano due nazioni separate e indipendenti. Nasce la CIA. Viene redatta la Carta dei diritti umani. L'URSS diventa una potenza nucleare e inizia a produrre i kalashnikov. Nasce l'idea di un'Europa Unita.

Elisabeth Asbrink è una scrittrice e giornalista svedese che si occupa di argomenti legati alla storia e al sociale. Racconta la vicenda del padre - ebreo ungherese che durante la guerra era un bambino di 10 anni - e condanna gli esponenti nazisti svedesi che nel dopoguerra si prodigarono per mettere in salvo i gerarchi del Reich.

Ma non dimentichiamoci che è proprio nel '47 che in Italia viene fondato l'MSI, basato sulle stesse idee e sugli stessi ideali del partito fascista di Mussolini. Ed è attorno all'MSI che cresce una rete che si estende a fascisti e nazisti, in Europa, nel Medio Oriente e in Sud America. Nazisti tedeschi, fascisti britannici, falangisti spagnoli, peronisti argentini, guardia di ferro rumena...

Mentre si svolgono i "processi di Norimberga" (anche se si è soliti parlarne al singolare non fu soltanto uno e non si tennero tutti a Norimberga, ma anche a Cracovia, Amburgo e Venezia) - dove per la prima volta in un tribunale si parla di genocidio per descrivere quello che i nazisti avevano fatto in Russia nel '41 con l'Operazione Barbarossa - gli inglesi hanno già perso interesse nel processare i nazisti e gli Stati Uniti vogliono una Germania che funzioni e che faccia da scudo al comunismo.

"Il piano Marshall trasforma la frattura fra est e ovest in un baratro"

Il libro punta il dito sul presidente Truman e sulla sua strategia antisovietica. Per appagare il loro bisogno di anticomunisti arrivarono a proteggere dalle autorità francesi Klaus Barbie, lo aiutarono a stabilirsi in Bolivia dove mise al servizio delle dittature militari del posto la sua esperienza di torture e uccisioni. E' solo un esempio (un altro libro che mi riprometto di leggere è quello di Eric Lichblau, "I nazisti della porta accanto. Come l'America divenne un porto sicuro per gli uomini di Hitler").
In nome dell'essere tutti anticomunisti il Pentagono arrivò a inviare gli auguri ai nazisti riuniti a Roma in conferenza nell'ottobre 1950.

"Forse tutto sarebbe potuto andare in modo diverso. Se la Prima guerra mondiale non fosse scoppiata. Se nel 1922 Mussolini non avesse preso il potere. Se nel 1925 Adolf Hitler non avesse scritto il Mein Kampf. Se nel 1928 al-Banna non avesse fondato i Fratelli musulmani."

E ricorda come l'antisemitismo non sia mai stato solo tedesco. Nel 1947 gli ebrei volevano lasciare l'Europa, ma nessuno li voleva, non gli Stati Uniti, non l'Inghilterra.
E così l'ONU creò lo Stato di Israele...

La Asbrink descrive molto bene anche le responsabilità degli inglesi che nel 1947 scelsero sir Cyril Radcliffe per tracciare i confini dell'India. Il giurista non c'era mai stato, arrivò l'8 luglio, visitò Calcutta e Lahore, poi si chiuse in una stanza con le sue carte geografiche decidendo il futuro di 88 milioni di persone.
Quando finì Pakistan e India erano due nazioni separate e indipendenti.
Il 22 ottobre scoppiò la prima guerra.

Nel libro trovano spazio anche altri generi di eventi successi nel corso del 1947: nascono la telefonia mobile, le Polaroid, i transistor.
L'aviatore Kenneth Arnold sostiene di aver avvistato degli ufo e nasce il termine "dischi volanti".
Viene infranto il muro del suono.
Vengono scritti "Se questo è un uomo", "1984" e "Doctor Faustus".  Tolkien presenta al suo editore "Il signore degli anelli".
In Svezia apre il primo negozio di H&M e la Asbrink ci racconta il 1947 di Simone de Beauvoir e di Thelonious Monk.

Ma il tema del saggio è indubbiamente storico-politico e non potrebbe essere altrimenti. Un anno tanto importante che ha dato l'impronta a quello che è stato il futuro, con le scelte che lo hanno condizionato.
Non so se autrice ed editore abbiano ragione nel dire che davanti a ogni bivio che i potenti si sono trovati davanti hanno scelto la direzione sbagliata. Non possiamo sapere come sarebbe stato altrimenti, ma quello che sappiamo è che in Europa c'è di nuovo una guerra.

"Molti fuggono da ciò che hanno patito.
Altri dalle conseguenze delle proprie azioni."

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro con un anno scritto nella sinossi

 

venerdì 11 marzo 2022

"Mi sa che fuori è primavera", Concita De Gregorio


Saint-Sulpice (Svizzera), 30 gennaio 2011. Sono il luogo e il giorno in cui Alessia e Livia Schepp, due gemelle di sei anni, vengono viste per l'ultima volta. Hanno trascorso il fine settimana con il padre, i genitori dall'agosto precedente non vivono più insieme e loro sono state affidate alla madre. Ma la donna alla fine di quella domenica al posto delle figlie trova un biglietto agghiacciante: "Le bambine riposano in pace, non hanno sofferto... Non le rivedrai mai più".
E infatti nessuno rivede più Alessia e Livia.
Qualcosa questa volta non funziona nell'osannata precisione Svizzera: la madre non trova nelle autorità qualcuno in grado di rendersi conto che la gravità della situazione richiede che venga fatto immediatamente qualcosa. Forse perché la Svizzera non è solo precisa, ma anche maschilista e un po' tanto piena di sé...
Quando la donna mostra il biglietto di addio si sente rispondere che serve una traduzione ufficiale perché è scritto in tedesco, mentre quella è la Svizzera francese: non importa se sia lei che loro il tedesco lo capiscono benissimo. E la sua preoccupazione viene liquidata così: "Tranquilla, signora. Suo marito è svizzero tedesco, non brasiliano. Tornerà"
Invece Mathias Shepp non torna: il 3 febbraio 2011 si suicida gettandosi sotto a un treno nella stazione di Cerignola. Delle bambine non c'è traccia.
Quattro anni dopo Irina Lucidi, la madre ascolana di Alessia e Livia, tramite un'amica comune riesce a contattare Concita De Gregorio e le racconta la sua storia. 

Da quell'incontro nasce questo piccolo libro (128 pagine), pubblicato nel 2015 e vincitore l'anno successivo del Premio Brancati per la narrativa. Perché la storia è vera, ma questo non è un reportage, non ha il taglio giornalistico che ci si potrebbe aspettare dall'autrice. E' un romanzo dove la De Gregorio fa di Irina la voce narrante ed è brava, davvero molto brava.
Mi piace la De Gregorio, mi piace come scrive (ma finora avevo solo letto i suoi articoli di giornalista politica) e mi piace come parla (anche se sulla 7 la vorrei più netta, come so che sa essere, ma probabilmente Cairo pone dei limiti...), ma qui è stata bravissima (lo sono state entrambe). Con una vicenda come questa è facile suscitare commozione e indignazione, ed è ancora più facile trascendere e alimentare quello che io chiamo "gossip macabro", tristemente comune a certe riviste e trasmissioni TV. Anche a certi libri.

Questo nasce con lo scopo di far conoscere Missing Children Switzerland, l'organizzazione fondata dalla Lucidi per fornire a chi ne dovesse aver bisogno quell'appoggio che a lei è totalmente mancato.

Dato quello di cui parla, sarebbe stato un libro angosciante anche se la storia fosse stata inventata, ma trattandosi di no fiction diventa un macigno. Ma riesce a essere anche tenero, una tenerezza che in chi legge si trasforma facilmente in compassione, un sentimento che a nessuno piace suscitare, ma che a volte - come in questo caso - è impossibile impedirsi di provare.

Non sono madre, ma non serve esserlo per sapere che non esiste dolore più grande di quello di sopravvivere ai propri figli. Non so cosa sia peggio fra il saperli morti o saperli probabilmente morti. Io non credo che lo scopo di Irina Lucidi fosse quello di spiegare come si riesca a sopravvivere a un dolore come questo, ma forse il libro le è servito anche per giustificarsi dell'essere ancora viva dopo la tragedia che l'ha colpita perché, come dice, c'è chi guardandola si chiede "Come puoi dimenticare, come puoi essere di nuovo felice, come puoi essere ancora viva e stare ancora nel mondo? Hai dimenticato le bambine?".
E questo, dico io, se lo possono chiedere le persone che si nutrono di gossip macabro. Ma questo libro è troppo per loro, continuino pure a leggere "Giallo" e "Cronaca vera"

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro con la parola primavera nel titolo

 

mercoledì 9 marzo 2022

"La vedova di Van Gogh", Camilo Sanchez


Johanna Bonger nacque ad Amsterdam il 4 ottobre 1862 e morì a Laren il 2 settembre 1925. Fu moglie di Theo Van Gogh che alla morte, successiva di appena sei mesi a quella di Vincent, le lasciò in eredità tutti i quadri, i disegni e le lettere del fratello.
Il contributo che Johanna diede alla fama di Van Gogh, incompreso e disprezzato in vita (il collegio dell’Académie Royale des Beaux Arts di Anversa aveva decretato all’unanimità che Van Gogh dovesse ripartire dalla classe dei principianti per le sue difficoltà nel disegno), fu fondamentale, grazie all'allestimento di mostre postume, ma anche alla pubblicazione, nel 1914, della corrispondenza intercorsa fra i due fratelli.
Seicentocinquantuno lettere scritte nell'arco di diciassette anni, in fiammingo, inglese o francese.

Il romanzo dell'argentino Camilo Sanchez è una sorta di narrativa biografica dei tre e la mia abissale ignoranza pittorica - determinata dal totale disinteresse verso quest'arte - mi ha reso più interessanti le parti del libro riguardanti Johanna.

Una donna rimasta vedova a 29 anni con un bimbo (omonimo del pittore) di appena uno, che - grazie all'indispensabile sostegno economico della famiglia di origine - è riuscita a tornare nel Paese natio e a rendersi indipendente aprendo una locanda, lavoro che le ha permesso di far conoscere le opere del cognato.

A spingerla non credo siano stati soltanto l'amore per l'arte o il desiderio di riscattare il nome di Van Gogh, le cui tele erano state definite dai critici dell'epoca addirittura terrificanti o stomachevoli ("Octave Maus ricorda una frase che ripeteva Toulouse-Lautrec: i critici sono come gli eunuchi, sanno come si fa, ma non sono capaci di farlo"). Olandesi: grandi commercianti: non penso di essere maliziosa nel ritenere che la vedova abbia investito anche per interesse personale e, nel caso, avrebbe fatto bene.

Ho questa idea perché Johanna e Vincent si sono incontrati un'unica volta, quando lui - due mesi prima di morire - aveva trascorso quattro giorni (partendo anticipatamente, rispetto alla settimana prevista) a casa del fratello e della cognata e perché il diario di lei - che era solita tenere da quando aveva 17 anni, scritti a cui Sanchez fa continuamente riferimento - evidenzia il fastidio che provava per i 150 franchi che Theo versava mensilmente a Vincent, di fatto mantenendolo, mentre non emerge una grande considerazione per il cognato, né prima della morte né nel periodo immediatamente successivo, quando in realtà Johanna era sopraffatta dalla preoccupazione per il marito, distrutto dal dolore e dal senso di colpa per la morte del fratello, stato d'animo che lo porterà sottoterra nell'arco di sei mesi.

Theo morì e venne sepolto nei Paesi Bassi, ma fu Johanna nel 1914 (guarda caso proprio l'anno in cui venne pubblicato "Lettere a Theo"...) a ricongiungere i due fratelli facendo spostare la bara del marito nel cimitero di Auvers-sur-Oise, a circa 30 km da Parigi.


Però è possibile, o forse probabile, che l'opinione di Johanna sul cognato sia cambiata leggendo le sue lettere. Scriveva davvero bene, Van Gogh: se non ho i mezzi per poter apprezzare le sue doti di pittore, ho sicuramente gradito gli stralci delle sue lettere riportati da Sanchez.

L'autore offre anche un interessante spaccato della vita dell'epoca. In principio quella di una Parigi che oltre a Van Gogh accoglie Verlaine, Toulouse-Lautrec, ecc, all'indomani dell'Esposizione Universale del 1889, con la torre Eiffel che continua a svettare non essendo stata demolita al termine dell'Expo (come invece era previsto), con i primi lampioni a gas a illuminare le strade e con la derisione per la comparsa dei primi water-closet, di invenzione britannica.

Anche questa volta ho riscontrato un errore su una data di riferimento. Nel secondo capitolo André, fratello di Johanna, parlando dell'Elysée, un bordello di Pigalle, dice che "ha perduto le sue attrazioni principali. (...) Sono passati al servizio del nuovo locale di moda, il Moulin Rouge". Questa conversazione avviene nell'autunno 1890, ma Wikipedia mi dice che il Moulin Rouge venne inaugurato il 6 ottobre 1891, esattamente un anno dopo...

Nella seconda parte abbiamo i Paesi Bassi che vediamo (purtroppo molto superficialmente) attraverso gli occhi di una Johanna che in breve tempo raggiunge un grado di emancipazione inimmaginabile per una donna dell'epoca. Indubbiamente l'aiuto economico ricevuto dalla famiglia ha fatto la differenza, ma il movimento femminista di cui faceva parte rende l'idea di che tipo di persona fosse.

Grazie a lei il libro, che nella prima metà è permeato di una tristezza angosciante, diventa più brioso e, per me, più interessante. Ma è un bel libro, che chi ama Van Gogh o la pittura in generale deve assolutamente leggere.

"Toorop aveva annotato sui suoi quaderni le varie tappe che aveva attraversato, senza fiato, la vita artistica di Van Gogh. Il gesso nero e il carboncino degli inizi, l’olio scuro dei mangiatori di patate, la china stemperata di Drenthe, gli acquarelli di Scheveningen, i disegni rustici di Anversa, la scoperta delle stampe giapponesi e tutte le scuole che aveva incontrato sotto la luce francese fino ad assomigliare soltanto a se stesso."

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro in cui compare un personaggio storico

 

martedì 8 marzo 2022

"Con te fino alla fine del mondo", Nicolas Barreau

Parigi, maggio di una quindicina di anni fa. Jean-Luc Champollion può dirsi soddisfatto della propria vita: 35 anni (o poco più), nato e cresciuto a Hyères, pittoresca cittadina affacciata sul Mediterraneo, si è ormai ben integrato nella capitale dove è proprietario della Galerie du Sud. Fra mostre e intrattenimenti vari, le sue giornate sono a dir poco sfavillanti. Accanto a lui il fedele Cézanne, un bel dalmata di tre anni, alcuni cari amici e molte donne, tutte bellissime.
E' un giovedì mattina quando trova nella cassetta della posta una busta azzurra recapitata e scritta a mano. Una lettera d'amore con uno stile d'altri tempi. Una lettera anonima, chi l'ha scritta si firma "Principessa" e lascia un indirizzo e-mail. Jean-Luc accetta la sfida: scoprire l'identità di questa donna che, a detta di lei, "lui conosce e non conosce".
Ci si può innamorare virtualmente? A qualcuno succede...

Quando si ha l'abitudine di leggere due o tre libri contemporaneamente - come io amo fare da alcuni anni - questi, oltre al giudizio singolo, si trovano a patire o a godere del confronto con gli altri. Con più letture in corso c'è sempre quella che chiama di più e in più di un'occasione mi era chiaro che la delusione data da un libro dipendeva anche dal fatto che gli preferivo quello che stavo leggendo nello stesso periodo.
Questo è un caso (raro) in cui è successo il contrario: se dal 2 al 7 marzo avessi letto soltanto "Con te fino alla fine del mondo" probabilmente adesso lo stroncherei senza pietà, invece è capitato che lo alternassi con altri tre libri che - per motivi diversi - mi attirassero meno facendo sì che fosse lui a chiamarmi di più. Incredibile.

Incredibile perché non è un libro adatto a me. I rosa non sono il mio genere preferito, ma non li disdegno e alcuni fra quelli che ho letto mi sono piaciuti molto, ma questo si può ben descrivere con una frase che rubo al libro stesso: "Che commediola romantica da quattro soldi".

L'unica cosa particolare è il mistero che si cela dietro a Nicolas Barreau: Wikipedia (e non solo) lo definisce uno scrittore immaginario inventato da una casa editrice tedesca per immettere sul mercato romanzi con quel tipo di ambientazione parigina tanto cara ai suoi lettori. Leggendo il libro ho pensato che potesse essere vero: le descrizioni di certi angoli della città sembrano proprio del genere per cui in Germania impazziscono, fra dettagli artistici e/o romantici. Per contro, però, non mancano autori dalla esistenza comprovata che hanno sfornato e sfornano romanzi e romanzetti simili a questo, per cui mi sfugge il senso di doversene inventare uno...
Feltrinelli - che lo pubblica in Italia - non mette in dubbio la sua reale esistenza.

Sia come sia, con la firma di Nicolas Barreau sono stati pubblicati nove romanzi, a occhio direi tutti simili a questo, che avevo comprato in combo con quello che gli ha dato la fama (sempre citando Wikipedia), cioè "Gli ingredienti segreti dell'amore", e che ora sono curiosa di leggere, sia perché la trama mi sembra più interessante, sia per capire quanto "Con te fino alla fine del mondo" abbia semplicemente goduto dell'essere il meno peggio del periodo.

Per quanto mi chiamasse, non posso non considerarlo un librino con lo spessore di un foglio di carta velina. Scritto (non importa da chi) nel 2008, è già fortemente anacronistico proprio per quello che è alla base della storia, i mezzi di comunicazione: Whatsapp non era ancora stato creato e non era nemmeno ancora possibile controllare le e-mail dal cellulare. Cosa sorprendente (del tutto inverosimile), Jean-Luc non ha la connessione a internet nella Galleria, ma solo a casa.
Tutto ciò allunga i tempi e crea un'attesa che probabilmente a molti (non a me) dispiace di aver perso, suscitandomi sensazioni molto simili a quelle che avevo provato leggendo "Le ho mai raccontato del vento del Nord", uscito due anni dopo (e pubblicato anch'esso da Feltrinelli).

Lo stile è garbato, in linea con la figura del protagonista, ma il volerne fare un personaggio elegante ha finito col renderlo antiquato, come il suo pigiama a righe bianco e azzurre...

E, infine, chi ha scritto non è stato capace di creare la necessaria suspense attorno alla vera identità di questa principessa: solo Jean-Luc si chiede (all'infinito!) chi possa essere. Chi legge lo capisce in fretta perché la scelta fra i personaggi femminili è scarsa, ma pazienza, dopo tutto questo non è un thriller.

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro collegabile all'Expo di Parigi del 1889 (per la torre Eiffel in copertina, che venne costruita per l'Expo)

 

domenica 6 marzo 2022

"La stanza degli ospiti", Dreda Say Mitchell


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Londra, 2018. Lisa ha 25 anni e si occupa di software per conto di una banca. L'ottimo stipendio le permette di prendere in affitto questa stanza in una casa vittoriana del 1878. Il prezzo è esorbitante e nell'annuncio non venivano citati i vari limiti: non poter ricevere ospiti, non poter consumare cibi e bevande in camera, non poter accedere al giardino, dover usare il piccolo bagno al piano terra mentre la stanza si trova al terzo... Non può nemmeno chiuderla a chiave! Ma Lisa la vuole a tutti i costi, è per questo che firma il contratto senza neppure leggerlo.
Il disagio subentra quando Lisa trova nascosta nella stanza la lettera di addio di un uomo: si è forse ucciso in quella camera? Ma se è così, perché Martha e Jack - la male assortita coppia di proprietari - sono così risoluti nell'affermare che lei è la loro prima inquilina?

Dedra Say Mitchell è lo pseudonimo di Louise Emma Joseph, giornalista televisiva e scrittrice inglese di origine caraibica. Su Wikipedia UK vedo che ha scritto diversi thriller divisi in quattro serie, mentre questo è uno dei suoi tre thriller psicologici autoconclusivi e l'unico ad essere stato tradotto in italiano insieme a "I segreti di Rachel Jordan", che non ho nessuna intenzione di leggere.

"La stanza degli ospiti" ha avuto il solo pregio di avere delle finestre in copertina rispondendo così a una delle tracce di marzo della challenge, ma - considerando tutti i bei libri che avevo in wish list con altre finestre - è stato soprattutto una perdita di tempo.

Non ho modo di sapere quanta parte della sua pochezza sia attribuibile alla traduzione Newton Compton. Devo decidermi a riprendere a sfoltire la mia corposa wish list dai loro titoli, perché se è vero che ci sono delle eccezioni - Marsons e Malavasi - è ancora più vero che non ho più voglia di imprecare dietro a passaggi di questo genere:

«Sei in grado di leggere questo?».
È una foto della riga scritta a matita in fondo alla lettera d’addio. Alex prende in mano il cellulare, corrucciando le sopracciglia mentre esamina la frase.
«È cirillico…».
«Cosa?». Mi scervello. Non ricordo di aver mai sentito parlare di un Paese di nome Cirillica o Cirillandia.»

La storia viene raccontata da Lisa in prima persona e questa protagonista è un altro aspetto negativo. E' una ragazza con grossi problemi psicologici, sappiamo che ha sofferto di disturbi alimentari, che assume antidepressivi, che ha vissuto un episodio poco chiaro nel recente passato e che si trascina dentro grandi ombre risalenti all'infanzia, ma man mano che vengono svelati i fatti si fa fatica a empatizzare con lei (personalmente non ci ho nemmeno voluto provare) che resta un personaggio odiosamente ansioso, paranoico ed esasperante.

E infine c'è la storia che è un azzardo troppo grosso, forse perché non viene raccontata bene o perché per gran parte delle 352 pagine la Mitchell cavalca gli scenari della casa maledetta dei film horror, dimenticando le regole del buon thriller e facendo diventare a tratti caos, a tratti esagerazione ciò che avrebbe dovuto essere suspense.

Però, se giusto una settimana fa con "Sorprendimi!" della Kinsella mi chiedevo se sono l'unica a bere il vino a gollate, oggi la Mitchell mi ha prontamente rassicurata:

Reading Challenge 2022, traccia di marzo: un libro con una finestra in copertina

 

mercoledì 2 marzo 2022

"Le tribolazioni di una cassiera", Anna Sam

"Il cliente ha sempre torto. Tragicomico resoconto di un'estate al bar" di Daniele Pastorino è un libro pubblicato nell'agosto 2019, ma introvabile: esiste solo la versione cartacea, su Amazon non è mai stato disponibile da quando l'ho scoperto, IBS e il Libraccio hanno addirittura cancellato la pagina, ma ciclicamente lo cerco sul sito del Libraccio, appunto, sperando prima o poi di trovarlo fra i libri usati.

A gennaio, per assonanza di titoli, nella pagina della ricerca mi è comparso "Il cliente non ha sempre ragione" di Anna Sam e l'ho comprato al volo insieme all'altro libro dell'autrice, "Le tribolazioni di una cassiera", scritto per primo (nel 2008) e a cui ho quindi dato la precedenza nella lettura.

L'autrice è una francese di Rennes, classe 1979. A vent'anni ha iniziato a lavorare come cassiera part-time in un grande supermercato per pagarsi gli studi. Nel 2002 si è laureata in letteratura contemporanea, ma non trovando lavoro nel settore ha continuato a fare la cassiera aumentando il monte ore, finchè nel 2007 si è licenziata: a permetterglielo è stato il successo ottenuto da questo libro, nato sulla scia del blog omonimo (ormai non più aggiornato da anni) dove raccoglieva gli aneddoti legati al suo lavoro.

Pare che in Francia il libro sia stato un caso editoriale, cosa che adesso che l'ho letto mi lascia abbastanza perplessa. Se prima di farlo pensavo che potesse interessare solo a chi lavora nel commercio, adesso tendo a escludere anche loro (noi) e mi domando chi possa averlo trovato "divertentissimo", come viene definito nella sinossi.

Si arriva alle 177 pagine grazie al font grande (e questo ai miei occhi non dispiace), alla grossa spaziatura e all'impaginazione dei capitoli che iniziano a metà della pagina e concludendosi (la maggior parte) con una pagina quasi vuota con solo poche righe di testo: eliminando tutte queste parti senza scritto il libro avrebbe avuto la metà delle pagine.

La brevità non è l'unica ragione per cui la lettura è veloce: purtroppo è anche parecchio povera. Peccato: chiunque abbia avuto a che fare con il pubblico, anche indirettamente (la mia amica Chiara dice spesso che passando del tempo con me in edicola e nel bar latteria di un'altra sua amica ha capito che pagine FB come quella del Cliente perplesso non inventano nulla), sa che la Ann dice il vero quando afferma "I clienti non smetteranno mai di sorprendervi", per cui mi ha stupito la pochezza di quello che racconta.

Certo il lavoro di cassiera è diverso dal mio di giornalaia, sapevo che non mi ci sarei ritrovata alla perfezione come mi era successo leggendo "Una vita da libraio", ma anche quando descrive situazioni che conosco bene lo fa male, con uno stile che forse poteva essere adatto a un blog di critica umoristica, ma insufficiente per soddisfare chi ha pagato per leggere un libro. Uno stile così forzatamente paradossale da avere un effetto boomerang che spesso pone la Ann e non il cliente nella parte del personaggio antipatico e/o maleducato.

"Ci sono i clienti facili e altri meno facili, i ricchi e i poveri, i complessati e gli sboroni, quelli che ti trattano come se fossi trasparente e quelli che ti dicono buongiorno, i fanatici che smaniano in attesa dell'apertura e quelli che sistematicamente aspettano l'ora di chiusura. Ci sono quelli che cercano di rimorchiare e altri che ti insultano."

Sì, tutto vero. I "piccoli incidenti quotidiani" che descrive sono capitati anche a me, il cliente che entra parlando al telefono e che non interrompe la conversazione, ma schiocca le dita per attirare l'attenzione limitandosi a indicare quello che vuole comprare; la madre che ricorre all'odiosissimo "Guarda che la signora ti sgrida" invece di insegnare al proprio figlio il comportamento corretto in un negozio (la maggior parte lo conosce, quindi se il vostro non vi dà retta e tocca tutto o peggio, mi spiace, ma non potete giustificarvi pensando "E' un bambino": state sbagliando qualcosa); il jogger o il ciclista che estrae da una tasca una banconota e te la porge bagnata del suo sudore come se fosse normale; la gente che puzza di sudore (e raramente si tratta del jogger o del ciclista); i ladri (sì, c'è chi ruba anche il Corriere della Sera)...

Ruotando attorno a un unico tema è senz'altro difficile tirarne fuori un libro, ma avendolo voluto fare avrebbe dovuto impegnarsi per andare più a fondo. E potuto, perchè vi assicuro che non è così raro chiedersi se si sta subendo uno scherzo da candid camera. Perchè interagendo ogni giorno con centinaia di persone è chiaro che la probabilità di incappare in "casi umani" si espande.

E naturalmente per ogni addetto alla vendita che deride o che si lamenta dei clienti ci saranno dieci clienti pronti a replicare ai danni della cassiera o della giornalaia. Ed è giusto, sicuramente ci saranno cassiere e giornalaie cafone, poco sveglie o altro, ma voi non dovete avere a che fare con centinaia di loro ogni giorno: la differenza è tutta lì.

Reading Challenge 2022, traccia bonus di marzo: libri dove in copertina titolo e nome dell'autore sono scritti in colori diversi fra loro

 

martedì 1 marzo 2022

Reading Challenge: le tracce di marzo

 


Primo gruppo (un solo libro per traccia):

  • Un libro collegabile all'Expo di Parigi del 1889
    "Con te fino alla fine del mondo", Nicolas Barreau (2 punti)
  • Un libro con un fiore in copertina
    "Candy Candy", Keiko Nagita (5 punti)
  • Un libro con un anno scritto nella sinossi
    "1947", Elisabeth Asbrink (3 punti)
  • Un libro con una finestra in copertina
    "La stanza degli ospiti", Dedra Say Mitchell (3 punti)
  • Un libro in cui compare un personaggio storico
    "La vedova di Van Gogh", Camilo Sanchez (2 punti + 1 punto foto)

Secondo gruppo (un solo libro per traccia, solo se si sono letti i cinque libri delle tracce del primo gruppo):

  • Un libro di un autore asiatico
    "La scuola della carne", Yukio Mishima (3 punti)
  • Un libro che non hai mai voglia di leggere
    "Equivoci e bugie", Joanna Cannon (5 punti)
  • Un libro con la parola "primavera" nel titolo
    "Mi sa che fuori è primavera", Concita De Gregorio (2 punti)
  • Un libro di un editore letto il mese scorso (Feltrinelli)
    "Il piano infinito", Isabel Allende (4 punti)
  • Un libro di un autore europeo
    "Sei sospetti per un delitto", Raffaele Malavasi (5 punti)


Traccia bonus (uno o più libri): 
libri dove in copertina titolo e nome dell'autore sono scritti in colori diversi fra loro

  • "Le tribolazioni di una cassiera", Anna Sam (1 punto)
  • "Ogni piccola bugia", Alice Feeney (3 punti)
 
I miei punti = 39


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Casata: L'ordine della fenice