mercoledì 29 giugno 2022

"L'estrema fortuna", Richard Ford

 

Oaxaca (Messico), fine anni '60. Harry Quinn, 31 anni, ex marines, era nel suo noioso Michigan quando aveva ricevuto una telefonata insperata da Rae, la sua ex fidanzata: suo fratello Sonny era nei guai, recluso in una prigione messicana per traffico di droga. Due giorni dopo Harry era già a Oaxaca, da solo in mezzo a una moltitudine di turisti, mendicanti e hippies.
"Rae aveva lasciato un vuoto che non riusciva più tanto a controllare. Ed era venuto quaggiù ad aiutare Sonny solamente per riprendersi Rae"
E Rae arriva quel pomeriggio...

"I libri di Richard Ford ricordano quelli di Kent Haruf": non ricordo se lo avevo sentito dire in qualche video su YouTube oppure se lo avevo letto in un gruppo FB, comunque sia questa affermazione aveva lanciato in orbita le aspettative che avevo su questo autore. Ho quindi aspettato di finire di completare la lettura di tutti i titoli dell'immenso Haruf per approcciarmi a Ford, partendo da "L'estrema fortuna", suo secondo romanzo scritto nel 1981 (il primo non è ancora stato tradotto in italiano), disponibile solo in versione cartacea. Se anziché comprare il libro on-line lo avessi preso in mano in libreria dando prima una sbirciata alle pagine, lo avrei lasciato lì. La mia versione è quella della collana Universale Economica di Feltrinelli, la stessa dell'immagine qui sopra. Quasi ogni volta in cui leggo un loro libro mi chiedo se da Feltrinelli lavorino solo dei falchi oppure se abbiano un accordo con gli ottici per cercare di affaticare il più possibile la vista dei loro lettori!

In questo caso il font oggettivamente piccolo (mi sono lamentata con tantissime persone e tutti mi hanno dato ragione) è reso ancora più ostico da uno stile di scrittura povero di dialoghi: molte pagine formano un rettangolo perfetto di parole, senza neppure un'andata a capo! Sono libri come questo che - per quanto concordi sul fascino inimitabile della carta - mi fanno pensare con infinito amore alla mia amica Margherita che ormai molti anni fa mi aveva convinta a dare una chance al Kindle.

Questo dettaglio ha contribuito non poco a rendermi pesante la lettura, che ha cominciato a prendermi solo nelle ultime cinquanta pagine (su 200 totali). Sulla base di quest'unico libro non me la sento di dare ragione a chi aveva paragonato Ford a Haruf: i due autori sono nati nella stessa epoca (1944 e 1943), uno in Mississippi e l'altro in Colorado e hanno scritto le loro opere negli stessi anni, ma la scrittura di Haruf, secondo me, è più particolare, più intima, nettamente più bella.

Richard Ford - di cui leggerò sicuramente altro - non mi ha fatto innamorare come invece mi è successo con ognuno dei libri di Haruf. Al mio distacco ha contribuito anche l'ambientazione messicana: il mio giudizio su questo Paese è, me ne rendo conto, fortemente condizionato dalle scene raccapriccianti viste nella serie TV "The Shield". Meravigliosa, l'ho adorata, ma contemporaneamente mi ha fatto passare la voglia di approcciarmi a qualsiasi cosa che abbia a che fare con il narcotraffico. Ormai non posso guardare un copertone di un camion senza pensare alla scena in cui ne usano uno per immobilizzare un uomo e gli danno fuoco!

Ford non arriva a simili descrizioni (ma ci va vicino quando fa esplodere una gelateria con un attentato terroristico), comunque porta il suo protagonista nella provincia messicana per cercare di far scarcerare il suo ex (quasi) cognato e ci mette dentro trafficanti di droga, avvocati e funzionari corrotti ("In Messico rispettare la legge significa evitarla. Se sono colpiti dei poliziotti, si accusano sempre i guerriglieri. Molti non sanno di essere guerriglieri finché non glielo dice la polizia. Ma poi, appena lo scoprono, cominciano a comportarsi da guerriglieri."), un carcere dove regna un "odore dolciastro di piscio" (questo ricorda Haruf?!? No, no e ancora no!), posti di blocco coi militari che puntano le mitragliatrici sulle auto, corpi crivellati di colpi, il tutto in un'atmosfera messicana polverosa e indolente.

"Il Messico era come il Vietnam o Los Angeles, solo ancor più deludente"
I due anni di stanza in Vietnam del protagonista ne fanno un uomo non devastato nel fisico e nella mente come tanti reduci, ma con tormenti interiori di una certa portata che costituiscono buona parte della storia rendendola inevitabilmente più pesante.

"Non aveva incubi di guerra con gli uomini che aveva ucciso che urlavano sott'acqua senza far rumore. Però si sentiva solo senza stare proprio male, come fosse nell'immagine residua di una catastrofe, anche se si era ormai convinto di essersi perfettamente abituato alle catastrofi senza andare in mille pezzi"
E poi c'è lei! Rae, la sua ex, una donna insopportabilmente ingenua e irriconoscente, insistente, inopportuna. L'ho detestata dalla prima apparizione e di conseguenza ho detestato anche Ford per averle cucito addosso quel ruolo da zavorra inutile e isterica che spesso viene (e soprattutto veniva) dato a noi donne sullo schermo e sulle pagine nelle scene di azione: intollerabile per la Lara Croft che è in me!

Reading Challenge 2022, traccia bonus di giugno: libri del proprio genere preferito (narrativa contemporanea)


martedì 28 giugno 2022

"L'ordine del giorno", Eric Vuillard

Austria, 12 marzo 1938. E' il giorno dell'Anschluss, l'annessione dell'Austria alla Germania nazista. Quella mattina "gli austriaci attesero l'arrivo dei nazisti febbrilmente, con un'allegria indecente. Su molti filmati del tempo si vede la gente affollarsi davanti ai chioschi e ai furgoni degli ambulanti per procurarsi una bandierina con la croce uncinata".
Nel referendum indetto da Hitler un mese dopo, il 10 aprile, per far apparire legale l'occupazione, il 99,75% degli austriaci votò a favore dell'annessione al Reich.
Austriaci tutti nazisti, quindi? No. Mentre i preti dal pulpito invitavano i fedeli a votare per i nazisti, gli oppositori venivano ridotti al silenzio. Chi non aveva la forza per battersi preferiva farla finita: solo nella settimana precedente al referendum più di millesettecento persone scelsero questa strada facendo diventare il suicidio un atto di resistenza.

Eric Vuillard - scrittore, regista e sceneggiatore lionese classe 1968 - in questo breve saggio (137 pagine) pubblicato nel 2017 e vincitore del premio Goncourt dello stesso anno, racconta quel giorno, ma soprattutto ripercorre gli avvenimenti precedenti che, di fatto, portarono all'ascesa del nazismo.

E inizia da un lunedì di cinque anni prima, quando il 20 febbraio 1933 ventiquattro industriali tedeschi si riunirono nel palazzo del presidente del Reichstag, a Berlino. Riporta l'elenco dei ventiquattro nomi, nomi che a noi italiani (forse anche a molti tedeschi) dicono poco, ma che si traducono in Bayer, Opel, Siemens, Allianz, Telfunken, Varta...
I ventiquattro sono tutti esponenti delle più alte sfere dell'industria e della finanza e quel lunedì si riuniscono per raccogliere i fondi richiesti dal partito nazista. A battere cassa c'è Hermann Goring, l'inventore della Gestapo, non uno qualunque...
C'è anche Hitler, che esorta i presenti all'impegno perché "bisogna farla finita con un regime debole, bisogna allontanare la minaccia comunista, sopprimere i sindacati e permettere a ogni padrone di essere un Fuhrer nella propria impresa".

Non sono necessarie grandi doti di affabulatore per convincerli: le guerre sono sempre redditizie per i potenti, questo non cambierà mai e loro lo sanno bene. Successivamente ognuno di loro poté usufruire di manodopera a costo zero attingendo a piene mani tra i condannati ai lavori forzati forniti dalle SS. Creavano campi di concentramento nei pressi delle loro fabbriche. Vuillard riporta un esempio scioccante: di un lotto di seicento deportati arrivati alle fabbriche Krupp nel 1943, un anno dopo i sopravvissuti erano appena venti! Uomini usa e getta.

Non sono dettagli da poco, non è storia vecchia.

"Quei nomi esistono ancora. I loro patrimoni sono immensi"

Il saggio mette in luce anche il poco che fecero le altre potenze straniere per ostacolare il nazismo, quando ancora forse si era in tempo per fare qualcosa. Si concentra soprattutto sull'Inghilterra, in particolare su colui che venne mandato in Germania per parlare di pace ai tedeschi, che vantavano pretese sull'Austria e su una parte della Cecoslovacchia. Il 17 novembre del 1937 Lord Halifax viene ricevuto da Hitler e nel riportare l'esito di questo incontro scrive:

"Il nazionalismo e il razzismo sono forze potenti, ma non le considero né immorali né contro natura"

E ancora:

"Non ho dubbi che queste persone odino davvero i comunisti. E le assicuro che se fossimo al loro posto proveremmo lo stesso sentimento"

Se tutti quelli che potevano fare qualcosa per ridimensionare l'ideologia nazista la pensavano così, non c'è da stupirsi se dieci anni dopo l'Europa si sia ritrovata in ginocchio a contare milioni di morti.

"Nessuno poteva ignorare i progetti dei nazisti, le loro intenzioni brutali. L'incendio del Reichstag, l'apertura di Dachau e la sterilizzazione dei malati di mente nel 1933, la Notte dei lunghi coltelli nel 1934, le leggi sulla tutela del sangue e dell'onore germanico e il censimento delle caratteristiche razziali nel 1935: era davvero parecchia roba."

E non dimentichiamo che anche l'Italia fascista ha beneficiato della politica di appeasement.

Tre mesi dopo l'incontro con Lord Halifax, il pressing di Hitler sull'Austria si fa via via più incalzante. Vuillard dà molto spazio all'inutilità/incapacità nel trattare del cancelliere Schunschnigg (che chiama spesso "piccolo despota austriaco"), spiega cosa Hitler chiedeva e la presa in giro della contropartita offerta (ad esempio rinunciare a qualsiasi intromissione nella politica interna dell'Austria quando fra le pretese c'era l'imposizione della nomina di una nazista a ministro dell'interno con pieni poteri).

E dopo un'invasione simulata si arriva a quella reale del 12 marzo 1938 che è il fulcro del saggio e che, a mio modo di pensare, finisce col penalizzarlo.

Perché l'invasione militare dei nazisti in Austria fu esattamente l'opposto di quello che ci si sarebbe aspettati da un esercito rapido e moderno: a Linz i panzer tedeschi andarono tutti in panne creando un ingorgo pazzesco che ostacolò non poco il passaggio dello stesso Hitler e, di conseguenza, la sua entrata trionfale a Vienna.

Tutto vero, si guastarono anche le moto! Ma la mia domanda è: e allora? Il 15 marzo Hitler venne comunque acclamato dagli austriaci consenzienti davanti al palazzo imperiale. Se anche tre giorni prima fecero una figuraccia, per quanto clamorosa, a cosa servì? A nulla, forse solo a dare a Vuillard un argomento per un suo saggio settantanove anni dopo. La parte bella, interessante, da non dimenticare è quella iniziale, relativa agli industriali che hanno aumentato le loro ricchezze grazie al nazismo senza mai pagarne le conseguenze
Sbeffeggiare i tedeschi (perché il tono usato dall'autore è proprio canzonatorio) per una fila di panzer fuori uso è come perdere una partita 5-1 e deridere gli avversari per quell'unico gol fatto. Ridicolo.

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro in cui si parla di un evento storico realmente accaduto



lunedì 27 giugno 2022

"L'avversario", Emmanuel Carrère

 

Ferney-Voltaire (regione Auvergne Rhone-Alpes, Francia), domenica 10 gennaio 1993. I netturbini si accorgono che una casa è in fiamme alle quattro del mattino. Quando i vigili del fuoco riescono a entrare trovano solo una persona ancora in vita, Jean-Claude Romand. Per sua moglie, Florence Crolet, e per i loro due bambini, Antoine e Caroline, rispettivamente di 5 e 7 anni, non c'è più niente da fare. Ma non sono morti a causa dell'incendio: la donna è stata uccisa con violenti colpi alla testa, mentre ai bambini hanno sparato.
Quando Jean-Claude esce dal coma dopo una settimana afferma che il colpevole è un estraneo introdottosi in casa durante la notte. Ma gli inquirenti hanno trovato il messaggio di addio dove si accusava dei delitti. Hanno anche trovato a Clairvaux-les-Lacs i cadaveri  dei genitori di Jean-Claude e del loro cane, tutti uccisi con armi da fuoco. E Corinne, la sua amante, ha testimoniato che ha cercato di strangolarla.
Si appella quindi al raptus di follia, non sapendo che mentre era incosciente l'immenso castello di menzogne che era la sua vita era già crollato: Jean-Claude Romand non si era mai laureato in medicina, non era un ricercatore, non lavorava all'OMS di Ginevra.
Era solo un truffatore e ora anche un assassino.
E questa è una storia vera.

La classificazione che ne fa Amazon mi permette di inserirlo nella traccia bonus di giugno, che prevede la lettura di libri del proprio genere preferito, e il mio è la narrativa contemporanea, ma questo a tutti gli effetti è un reportage e non solo per il taglio giornalistico che lo caratterizza.

Pubblicato nel 2000, viene considerato l'opera gemella de "La settimana bianca" (che ho letto a gennaio) e che Carrère scrisse mentre stava già lavorando a questo romanzo-verità.
Un'altra opera breve (169 pagine) che mi ha coinvolta molto di più rispetto all'altra e non poteva essere altrimenti: le cinque vittime (più il cane) di Romand sono reali, reale è il suo crimine, reale è la sentenza.

E reali sono le sue ricostruzioni: è questo che Carrère racconta basandosi non tanto sull'istruttoria e sugli atti processuali, ma principalmente su quanto raccontato da Romand e da alcuni testimoni, fra cui quello a cui nel libro viene dato il nome fittizio di Luc Ladmiral, il suo migliore amico dai tempi dell'università.

Attraverso le varie dichiarazioni Carrère spiega come abbia fatto Romand a fingere un percorso di studi, prima, e una carriera, poi, riuscendo a imbrogliare anche moglie e genitori, come sia riuscito a mantenere una netta separazione fra la vita privata e quella "lavorativa" e dove abbia attinto alle risorse economiche che hanno permesso, a lui e alla famiglia, di sostenere per oltre quindici anni un tenore di vita decisamente alto.

Analizza le motivazioni che lo hanno portato ad arrivare a costruire la sua falsa doppia vita, basandosi però su sue personali interpretazioni perché - a quanto ho capito facendomi prendere anche dalle ricerche in rete - Romand non ha mai fornito una spiegazione concreta, mentre ha dichiarato di non essersi limitato al suicidio (fallito, e anche qui c'è chi dubita delle sue reali intenzioni) perché non sopportava l'idea di farli soffrire.

Parlare dell'omicidio come atto d'amore per me è inconcepibile, sono molto in disaccordo con certe affermazioni di Carrère che vedeva "in lui non un uomo che ha fatto qualcosa di agghiacciante, ma un uomo al quale è accaduto qualcosa di agghiacciante, vittima sventurata di forze demoniache". E ancora:

"I giornalisti di fronte a lui, la presidente e i giurati a destra, il pubblico a sinistra, lo scrutavano impietriti.
«Non capita tutti i giorni di vedere il volto del diavolo»: così suonava l’attacco dell’articolo comparso il giorno dopo sul «Monde». Io, nel mio, parlavo di un dannato."
Mi trovo, invece, sulla stessa linea di pensiero del pubblico ministero che iniziò la sua requisitoria dicendo:
"Vi parleranno di compassione. Quanto a me, la riservo alle vittime"
Ogni caso è un caso a sé, ma tutto quello che ho letto nel libro e altrove su quest'uomo mi porta a pensare a lui come a un opportunista e a un vigliacco, capace anche di speculare sulle malattie, inventandosi un cancro per sé ed estorcendo (altri) 60.000 franchi a un parente della moglie in fase terminale per quattro pastiglie ancora in fase di sperimentazione all'OMS, ma a suo dire miracolose. Ovviamente inesistenti, come il suo lavoro, come tutta la sua vita, ad eccezione della famiglia che ha sterminato. Trattandosi di un fatto di cronaca, non faccio spoiler aggiungendo che nel giugno 2019, all'età di 65 anni e dopo averne scontato 26 in carcere, Jean-Claude Romand è stato scarcerato e trasferito all'abbazia di Fontgombault con l'obbligo di indossare giorno e notte il braccialetto elettronico per 24 mesi. Vale a dire che a partire da adesso lui - che nel 1996 era stato condannato all'ergastolo - è stato liberato anche dal bracciale. Per i prossimi dieci anni sarà sottoposto alla restrizione della libertà, dopodiché sarà definitivamente libero. Voglio sperare che non abbia passato neppure un giorno senza macerarsi nel rimorso per quello che ha fatto, ma alle sue vittime è andata peggio. Lui non mi fa pena.

Reading Challenge 2022, traccia bonus di giugno: libri del proprio genere preferito (narrativa contemporanea)



venerdì 24 giugno 2022

"La solitudine dei numeri primi", Paolo Giordano

 

Torino, 1991. Alice e Mattia hanno 15 anni quando le loro strade si incrociano. Frequentano la stessa scuola, in classi diverse, e non si sono mai parlati - forse neppure mai visti - fino al mattino in cui lei, per placare l'insistenza della bulla dell'istituto che le chiede di scegliere un ragazzo che le piace, punta il dito su di lui.
Una festa di compleanno, un bacio chiesto e non concesso, un'amicizia che nasce e che li accompagna durante la crescita fino all'età adulta. Un rapporto particolare fra due persone particolari, entrambe artefici e vittime di episodi accaduti durante l'infanzia che li hanno segnati per sempre, esternamente e interiormente.

Paolo Giordano, scrittore e fisico torinese, era partito col botto nel 2008 vincendo con questo suo primo romanzo quattro premi letterari nazionali, Strega, Campiello, Fiesole narrativa Under 40 e Merck Serono.
Avendo appena 26 anni fu anche il più giovane scrittore a vincere il Premio Strega, record ancora imbattuto (dal 2014 c'è anche il Premio Strega Giovani, che però ha il suo albo d'oro separato).
Il libro è  stato tradotto in ventidue paesi.

Io, oltre a non averlo letto prima, non lo avevo neppure in wish list e anche questa volta è stata una traccia della Reading Challenge a portarlo nel mio Kindle.

Sono contenta di averlo recuperato perché mi è piaciuto anche se tutto il palmarès sciorinato prima mi sembra eccessivo: l'ho trovato piacevole, ma non bellissimo; originale, ma non unico; scritto bene, ma non eccelso; toccante, ma non travolgente.
Il festival delle cose non dette.

Soprattutto l'ho trovato terribilmente triste. Sottotitolo perfetto: mai una gioia.

Ha il pregio di spingerti a guardare la tua vita con più magnanimità se hai la fortuna di avere poco o niente in comune con i due protagonisti.
E qui entra in gioco quello che, secondo me, è il punto debole della storia: Giordano, sotto all'ampio ombrello della solitudine, ha messo una moltitudine di macro argomenti (autolesionismo, disturbi alimentari, autismo, bullismo, omosessualità sono solo quelli principali) senza approfondirne nessuno. Forse 26 anni erano troppo pochi per poter trattare in modo convincente tutte queste tematiche.

Ma adesso voglio recuperare anche il film (nonostante l'antipatia che provo verso i due attori protagonisti) e dare un'occhiata alle trame degli altri tre romanzi dell'autore.

PS: anch'io ho sempre trovato meravigliosi i numeri primi!

Reading Challenge 2002, traccia di giugno: un libro dove il protagonista cresce



giovedì 23 giugno 2022

"Biancaneve", Donald Barthelme



"Dimenticate Walt Disney e i fratelli Grimm"

Così inizia la sinossi. Ma dimenticatela proprio: la Biancaneve di Barthelme ha 22 anni, dorme con un pigiama di latex nero, scrive poesie erotiche, beve vodka Martini e vive in una specie di comune.
Dimenticatevi anche dei simpatici nanetti: al posto di Brontolo, Pisolo, Eolo, Cucciolo, Mammolo, Dotto e Gongolo ci sono Bill, Kevin, Edward, Hurbert, Henry, Clem e Dan, uomini di altezza normale che non fanno i minatori, ma i lavavetri, oltre a produrre omogeneizzati.

Sono loro la voce narrante del romanzo e l'uso della prima persona plurale è una delle pochissime particolarità che sono riuscita ad apprezzare di queste 232 pagine divise in capitoli brevissimi non numerati che non hanno in comune una trama (perché di trama non ce n'è), ma un nonsense per me - che sono fatta come sono fatta - totalmente destabilizzante.

Donald Barthelme, nato a Philadelphia nel 1931, ma cresciuto a Houston, e morto di cancro nel 1989, giornalista al New Yorker per 25 anni e considerato uno dei più autorevoli scrittori del Novecento, ha pubblicato anche venti romanzi, dei quali al momento solo sei sono stati tradotti in italiano, ma io mi fermerò a questo.

Avevo inserito questo titolo nella mia wish-list sentendone parlare da Marco Cantoni in un suo vecchio video. Dalla sua descrizione mi era chiaro che non mi sarebbe piaciuto ("Per chi ama la letteratura postmoderna americana e per chi ama la letteratura di sperimentazione"), ma ne avevo preso nota proprio perché particolare, pensando che avrebbe potuto essermi utile se nella Reading Challenge fosse capitata una traccia su una rivisitazione. E infatti...

Nonostante credessi di essere preparata a una lettura d'avanguardia, in realtà non lo ero abbastanza e non è stato facile. Soprattutto all'inizio sono stata tentata più volte di abbandonare (cosa che non ho mai fatto), ma poi ho stretto i denti (precisiamo: questo non è certo un libro di basso livello, anzi. Ma io e questo genere di scrittura siamo compatibili come la maionese mescolata al caffè!) e sono andata avanti, anche per vedere fino a che punto si sarebbe spinto.

Spinto, parola che non uso a caso: speravo che lo fosse. Biancaneve, che neppure da bambina mi era simpatica, mi ha sempre dato l'idea di essere più adatta a un film porno che a un cartone animato, e invece Barthelme in questo mi ha proprio delusa perché - se anche la sua Biancaneve, nell'attesa di trovare il principe azzurro ai sette non fa il letto, ma ci va a letto ( e nella doccia) - questo aspetto viene lasciato all'immaginario. Peccato.

Il finale è riuscito a soddisfare la mia vena cinica, ma senza ripagarmi dallo smarrimento per questo vortice di parole.

"A cosa pensa Biancaneve? Nessuno lo sa. Oggi è entrata in cucina e ha chiesto un bicchier d’acqua. Henry le ha dato il bicchier d’acqua. «Non mi chiedi perché voglio questo bicchier d’acqua?», ha domandato. «Pensavo che lo volessi bere», ha detto Henry. «No, Henry», ha detto Biancaneve. «Non ho sete. Tu non fai attenzione, Henry. Non hai l’occhio sulla palla». «Allora perché vuoi il bicchier d’acqua, Biancaneve?» «Che cento fiori sboccino», ha detto Biancaneve. Poi è uscita, portando con sé il bicchier d’acqua. È entrato Kevin. «Ho visto Biancaneve nel corridoio, mi ha sorriso», ha detto Kevin. «Piantala, Kevin, piantala. Piantala e dimmi che cosa significa: che cento fiori sboccino». «Non lo so, Henry», ha detto Kevin. «So soltanto che è cinese». A cosa pensa Biancaneve? Nessuno lo sa."
Sicuramente io sono troppo tradizionale, troppo banale, troppo concreta per poter apprezzare passaggi come questo (avrei potuto trascrivere una pagina qualunque: il libro è tutto così), ma penso che in questo caso si vada molto oltre e che il libro sia adatto a una minoranza, non a lettori comuni. E queste tematiche (la controcultura degli anni '60 con il femminismo, il sesso libero, le "comuni" e gli allucinogeni) me le sarei godute di più se raccontate in modo lineare. Ma quello che mi ha davvero delusa è il non essermi riuscita a divertire come assicuravano Marco Cantoni nel suo video ("Un romanzo in cui si ride tantissimo, un umorismo sottile, ma incredibile"), Ivano Bariani nella sua prefazione ("Di base, c’è che Barthelme è mostruosamente, cervelloticamente divertente") e Fernanda Pivano nel suo "Libero chi legge" ("Assicuro che si ride, in maniera intelligente e non banale"). A me non ha divertito e le "indigeribili tecniche innovative di D.B." (cit. Bariani) le ho trovate proprio indigeste.

Reading Challeng 2022, traccia di giugno: un retelling



martedì 21 giugno 2022

"I segreti di mio marito", Liane Moriarty

 

Australia, lunedì 2 aprile 2012. Tre donne, tre scoperte, più di tre vite stravolte.
A Melburne è mattina quando la trentacinquenne Tess O'Learay viene informata da Will (suo marito) e da Felicity (la sua inseparabile cugina) che si sono perdutamente innamorati l'uno dell'altra.
A Sidney è primo pomeriggio quando la quarantaduenne Cecilia Fitzpatrick scorge una busta ingiallita fra le carte scivolate fuori dal raccoglitore che ha inavvertitamente scontrato in soffitta. Riconosce subito la calligrafia di suo marito John-Paul, c'è scritto "per Cecilia" e subito sotto "da aprirsi solo dopo la mia morte".
Poco distante è sera quando Rob avvisa la madre, la sessantottenne Rechel Crowley, che ad agosto lui e la moglie si trasferiranno a New York per due anni.
Mentre la prima ha già preso un aereo per tornare a Sidney con suo figlio e la seconda non sa se riuscirà a resistere alla tentazione di aprire quella lettera nonostante il  marito sia ancora vivo e vegeto, la terza precipita subito nella disperazione perché Rob e Lauren ovviamente porteranno in America anche Jacob, il loro bambino di due anni, colui che aveva ridato un senso alle giornate di Rachel dalla morte della figlia Janie, ventotto anni prima.

Giusto una settimana fa è uscito "Mai fidarsi delle apparenze", la versione italiana dell'ultimo romanzo di questa autrice che libro dopo libro mi piace sempre più, tanto da aver deciso di inserire i titoli che ancora devo leggere alla prima traccia utile della Reading Challenge.

"I segreti di mio marito" - il suo quinto romanzo (scritto nel 2013) e il terzo tradotto in italiano (spero che prima o poi recuperino anche i due mancanti) -  è fortemente penalizzato dal titolo (anche da quello originale, "The husband's secret", che però ha più senso: il segreto è uno solo) e dalla copertina (soprattutto da questa de I miti Mondadori) che fanno pensare a un banale chick lit.
Liane Moriarty non è Joyce Carol Oates, le sue storie si limitano a raccontare le esistenze dei suoi personaggi con quel giusto mix di gioie e dolori, svaghi e preoccupazioni, banalità e situazioni più difficili comuni alla vita di chiunque, senza mai affrontare macro tematiche e diventando così classificabili in letture di svago.

Ma sono letture di svago davvero piacevoli.

Questa volta rispetto a "Esprimi un desiderio, anzi tre" e a "In cerca di Alice" c'è anche una forte componente gialla che - seppur trattando un caso completamente diverso - mi ha ricordato la serie TV "Big little lies", tratta dal suo sesto romanzo, "Piccole grandi bugie", il prossimo che leggerò nonostante abbia già visto il telefilm (lo so, è un termine vecchio, ma non mi viene un altro sinonimo di serie TV e poi coi telefilm io ci sono cresciuta ^^).

E' ovvio che Cecilia leggerà la lettera (altrimenti non ci sarebbe stato nessun romanzo da leggere) e già dal titolo sappiamo che l'irreprensibile John-Paul ha un grosso scheletro nell'armadio. Ma la Moriarty riesce a sorprendere e coinvolgere rendendo difficile staccarsi dalla lettura in un crescendo di attesa e di drammaticità che non ci si aspetta.
Altro che chick lit (con tutto rispetto per il genere, che non disdegno affatto).

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro con un protagonista di mezza età

lunedì 20 giugno 2022

"La regina irriverente", Carla Maria Russo

 

Di Aliénor - duchessa d'Aquitania e di Guascogna e contessa di Poitiers, regina di Francia, prima, e d'Inghilterra, poi, nonché madre di due re - non si conosce l'anno di nascita: si diceva fra il 1120 e il 1122, ma studi recenti hanno appurato che aveva 13 anni nel momento in cui sposò Luigi, erede al trono di Francia, e non 15, come si credeva, dettaglio che fa slittare la sua nascita al 1124. La prima data certa che la riguarda è proprio quella del suo primo matrimonio, celebrato il 25 luglio 1137.

Carla Maria Russo, invece, inizia a raccontarci di lei immaginandola all'età di quattro anni seduta sulle ginocchia del nonno, Guglielmo il Trovatore: ed è solo la prima delle tante congetture di cui il testo è saturo.

Approcciandomi a questa lettura sapevo che non si trattava di una biografia (per altro parziale, arriva solo al momento in cui il matrimonio con Luigi VII viene annullato, quindi si ferma al 1152 ed Eleonora visse per altri cinquantadue anni), ma di un romanzo storico. Però, non avendone mai letti, mi aspettavo qualcosa di diverso. Qualcosa di serio.

Inevitabile il confronto con l'"Eleonora d'Aquitania" letto l'anno scorso. Ma cosa vogliamo confrontare? I due volumi sono agli antipodi: la biografia della Pernoud è un testo accurato, completo, veritiero, privo di fronzoli, arriverei a definirlo accademico.
Questo della Russo è un romanzo storico totalmente improntato sul romanticismo, con molte strizzate d'occhio all'erotismo soft, con protagonista e personaggi vari descritti senza tenere conto né delle loro caratteristiche né di ciò che all'epoca era vincolante riguardo a usi, rapporti, etichetta, ecc, con dialoghi che mi aspetterei di ascoltare in una puntata di "Uomini e donne", se solo guardassi quella trasmissione, e dove manca completamente un'ambientazione degna di questo grande periodo storico.

E' così che immagino i libretti della collana Harmony "Grandi romanzi storici" che vendo in edicola.

Pensavo che il livello fosse superiore. Personaggi realmente esistiti pretendono serietà, se si ama la storia. Se questo libro avesse raccontato le vite di figure di fantasia probabilmente non lo avrei letto, ma nel caso non avrei avuto nulla da ridire. Ma scegliendo di parlare di personaggi reali non si dovrebbero stravolgere i fatti, meno che mai infiocchettarli di orpelli melensi.

Questa lettura ha avuto un unico pregio, quello di farmi ricordare del sapone di Aleppo, che anni fa compravo abbastanza regolarmente e che poi, chissà perché, ho finito col dimenticare. Lo ricomprerò presto, sperando che il sapone non mi faccia tornare in mente a ogni utilizzo questa sciagurata lettura.

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro con dei nobili

domenica 19 giugno 2022

"Tua", Claudia Pineiro

 

Buenos Aires, martedì 30 giugno 1998. Inés ed Ernesto Pereyra hanno entrambi 39 anni e una figlia, Laura (Lali) di 17. E 17 sono anche gli anni di matrimonio che li lega: un matrimonio riparatore, sì, ma felice, solido, tradizionale.
Ernesto è un dirigente d'azienda affermato e porta a casa i soldi (non pochi) e Inés li amministra e li spende. Ernesto è uno di quegli uomini che "si occupano di una donna" e pazienza se ogni tanto si prende qualche distrazione, "una donna ha il dovere di comprendere".
Inés ne è convinta, ma quando si rende conto che sono due mesi che il marito non la cerca più sessualmente comincia a preoccuparsi, che l'amante di turno sia un po' troppo importante. Così una sera decide di seguirlo, sa che deve incontrarsi con lei. Da una distanza sicura lo osserva passeggiare lungo la sponda del lago Regatas de Bosques de Palermo, vede arrivare un taxi da cui scende una donna, la riconosce. Il taxi se ne va, la rivale si avvicina a Ernesto. Inés non sente quello che dicono, ma capisce che stanno litigando. All'improvviso Ernesto fa per allontanarsi, la donna cerca di trattenerlo, lui la strattona per liberarsi dalla presa, lei cade a terra, sbatte la testa contro un masso e non si muove più.
E' morta? Sì, sicuramente. Ma è stato un incidente e Inés farà di tutto per coprire il marito, salvare lui, il loro matrimonio e, soprattutto, le apparenze.
Perché la vita di Inés è così: molto borghese e molto finta, ma a lei piace e vuole che nulla cambi. 

Librino di appena 144 pagine davvero ricco e appagante. Classificato da Amazon nel genere thriller, io lo definirei più un giallo, anche se non mancano un certo grado di suspence e diversi colpi di scena.

Scritto nel 2005, è il quarto romanzo dell'autrice, ma il primo a essere stato tradotto in italiano nel 2011 da Feltrinelli, che successivamente ne ha pubblicato altri sei, che recupererò senz'altro.

Mi è piaciuto molto lo stile della Pineiro - scrittrice, giornalista, sceneggiatrice televisiva e drammaturga argentina classe 1960 - snello e calzante, brioso e diretto, spiccio e per certi versi divertente: lo è se si riesce a interpretare il personaggio di Inés per quello che è, la caricatura di una donna vuota, egoista, poco intelligente (ma convinta di esserlo molto), cinica e con lo spessore morale di un foglio di carta. Meglio non prenderla sul serio, altrimenti si finirebbe con l'odiarla precludendosi la vena umoristica del libro, presente in ogni sua mossa, in ogni suo pensiero e - quindi - in ogni pagina.

Bello anche il laghetto artificiale teatro della prima scena della storia:


Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro collegabile al dipinto "Spirite" di George Roux


giovedì 16 giugno 2022

"La variante Luneburg", Paolo Maurensig

 

Il cadavere di Dieter Frisch viene ritrovato la mattina di una domenica attorno agli anni '90 proprio al centro del labirinto vegetale che costituisce una delle maggiori particolarità del parco della sua villa settecentesca alle porte di Vienna. Accanto al corpo c'è la sua pistola munita di silenziatore e, nonostante non venga ritrovato un messaggio di addio, tutti pensano che si tratti di suicidio.
Frisch come ogni settimana era rientrato da Monaco nella tarda serata di venerdì, la cameriera racconta un comportamento insolito da parte sua per tutta la giornata del sabato, apatico e inappetente, ma nulla da far pensare a un epilogo simile. Eppure...
Per capire bisogna fare un passo indietro, a quel viaggio in treno Monaco-Vienna del venerdì sera. E da lì scavare in un passato ancora più remoto: retrocedere di oltre quarant'anni spostandosi in Bassa Sassonia, nel campo di concentramento di Bergen-Belsen.

Seconda opera di Maurensig, scritta nel 1993, e secondo suo romanzo che leggo. Quando l'ho scelto per la traccia della Reading Challenge "un libro dove avviene un suicidio o presunto tale" ero parecchio titubante, temevo di trovarmi rallentata dallo stile di scrittura antiquato come mi era successo lo scorso gennaio con "Il diavolo nel cassetto".
Con "La variante Luneburg" è stato ancora peggio perché all'angoscia derivante dal modo di scrivere dell'autore - sicuramente impeccabile, ma per me eccessivamente formale e pesante - si sono aggiunti un'ansietà e un disagio dovuti alla consapevolezza di non riuscire ad apprezzare un testo considerato da tutti un capolavoro.

Invece a me non è piaciuto: non provo neppure a infiocchettare il mio parere, per quanto impopolare possa essere.

La partenza era stata buona: al di là della lentezza e dell'anacronismo (ambientazione e personaggi sembrano usciti dagli anni '20), quello che si legge è una storia gialla ed è piuttosto intrigante. Ma quando parte la ricostruzione della vicenda con i vari flashback il rilievo dato al gioco degli scacchi mi ha fatta precipitare nel disinteresse assoluto. Anche sforzandomi di pensare che era solo un pretesto, un filo conduttore come un altro per creare l'architettura della storia e generare i collegamenti fra i personaggi coinvolti, non sono riuscita a non annoiarmi da morire. Non credo serva essere appassionati di scacchi per apprezzare il libro, ma di certo se il mio interesse per questo gioco fosse stato anche solo un filino maggiore dello zero assoluto che invece è, mi avrebbe aiutata non poco a superare la parte centrale.

Il libro è tornato a coinvolgermi quando ha svelato i ruoli dei personaggi: aspettavo da molte pagine (molte per modo di dire, il libro è breve) un chiarimento, una rivelazione. Non avevo letto la sinossi, non sapevo che fosse un libro sulla Shoah. A quel punto affermazioni precedenti come "Un uomo che ha giocato all'inferno" hanno assunto un significato ben diverso da quelle che mi erano sembrate delle esagerazioni sull'onda di un certo fanatismo verso il gioco degli scacchi.

Quindi il libro si è riscattato, sì, ma non abbastanza, anche a causa del finale deludente, incompiuto.

Se devo citare un capolavoro su questo tema la mia scelta cade su "Se questo è un uomo" di Primo Levi: non c'è paragone.

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro dove avviene un suicidio o presunto tale


lunedì 13 giugno 2022

"Una brava bambina", Seo Mi-ae


Seul (Corea del Sud), giugno di un anno vicino al 2010. Yi Seonkyeong, criminologa, ha appena terminato il suo primo corso come docente quando viene convocata nel carcere di massima sicurezza: Yi Byengdo - serial killer in attesa di essere giustiziato per avere ucciso tredici donne - ha chiesto di incontrarla. Possibile che abbia scelto proprio lei per confessare dove ha nascosto i corpi delle sue vittime?
Contemporaneamente una sera torna a casa e trova seduta sul suo divano una bambina che non conosce: è Hayeong, la figlia undicenne che suo marito ha avuto dalla prima moglie.
Solo adesso Jaeseong le dice che la madre della bambina era morta subito dopo il loro matrimonio, quasi un anno prima, e che Hayeong era rimasta a vivere con i nonni materni, morti anch'essi durante la notte in un incendio da cui si è salvata solo la bambina.
E adesso tocca a Seonkyeong decidere se accettare che la piccola vada a vivere con il padre, e quindi con lei.

Secondo dei sei romanzi scritti da Mi-ae, autrice sudcoreana classe 1965, fra il 2009 e il 2021. Questo, del 2010, è il primo a essere stato tradotto in italiano e non ci sarebbe da strapparsi i capelli se fosse anche l'ultimo.

Google mi traduce il titolo originale, "Jal jayo eomma", con "Buonanotte mamma", migliore di quello della versione italiana, anche se chiaramente Hayeong non è affatto una brava bambina.

All'inizio mi hanno preoccupata non poco 
 i nomi coreani di persone e luoghi (ma a me basta la presenza di un John e di un Jack nello stesso libro per farmi maledire l'autore per non aver scelto due nomi meno simili), ansia sfumata dopo i primi capitoli quando mi è risultato chiaro che i personaggi erano pochissimi e che, tolto il primo riferimento a un quartiere di Seul, non ve ne erano altri di geografici. Anche il fatto che la protagonista abbia lo stesso cognome del serial killer (Yi, il cognome coreano più diffuso, a livelli non paragonabili con il nostro Rossi) si è dimostrato presto irrilevante perché la Mi-ae per lei usa solo il nome proprio e per lui o il nome proprio o il nome completo, per cui non si rischia mai di fare confusione.

Più problematico è stato lo scontro culturale. Nei romanzi di autori orientali che ho letto (non tanti da potermi considerare un'esperta, ma abbastanza da farmi un'idea generale) ho quasi sempre avvertito un forte impatto per via delle differenze con il modo di ragionare e di interagire occidentali, non per forza migliori, ma meno condizionati da maschilismo e formalismo.
In questo caso mi ha sconcertata soprattutto il secondo aspetto, come questo padre
in due anni (uno di frequentazione e uno di matrimonio) non abbia fatto conoscere alla seconda moglie la figlia di primo letto (e non meno paradossale è la mancanza di interesse della donna), che non le abbia detto che la madre della bambina era morta, che non sappia come dirle che adesso la bambina dovrà vivere con lui, quindi con loro e anche che non fosse già successo dopo la morte della madre, vista la mancanza di impedimenti economici, logistici o di altro genere. Altro esempio: la bambina andando a vivere con loro cambia scuola ed è Seonkyeong ad accompagnarla decidendo di non raccontare alla maestra della situazione della bambina perché "non voleva che avesse dei preconcetti".
Certo io non sono una profiler esperta di psicologia come 
la protagonista, ma mi sembrano comportamenti privi di logica e per come vengono presentati, senza nessun tipo di elucubrazione, credo che l'autrice abbia semplicemente descritto situazioni abituali nella cultura orientale.

Ma i problemi del thriller, in quanto tale, sono ben altri. Composto da 33 capitoli divisi in quattro parti, non è scritto bene: è ripetitivo - sia nei concetti espressi (e questo è abbastanza tipico nella letteratura orientale), sia nei termini usati (e qui non è dato sapere se dipenda dall'autrice o dal traduttore), ed è povero, come stile, come idee, come contenuti, come tempistica.

Ad esempio nella sinossi viene dato risalto al fatto che 
Seonkyeong sia stata soprannominata Clarice dai suoi studenti del corso di criminologia: l'abbinamento profiler e serial killer crea un'aspettativa molto chiara e, soprattutto, alta, invece l'addestramento nell'FBI della coreana si riduce in un misero corso di dieci giorni e - se l'inesperienza non aveva impedito a Thomas Harris di creare un grande personaggio con la sua Clarice - di certo la Mi-ae non è stata in grado di fare altrettanto.

Tutta la parte (consistente) legata a 
Byengdo l'ho avvertita come di troppo. Lui viene raccontato in un modo che porta alla commozione, cosa che non crea dilemmi etici perché le tredici donne che ha ucciso restano solo un numero: la questione degli omicidi non viene minimamente approfondita. Avrei apprezzato di più il libro se la storia avesse riguardato solo la bambina perché è l'unica che riesce a creare un minimo di suspense da thriller (ma io ho dato un grosso aiuto all'autrice associandola un po' troppo e senza motivo, se non la descrizione dei lunghi capelli neri, a quella di "The ring"), ma basta averne letto un tot per capire da un particolare fornito nel primo capitolo quale sarà lo sviluppo del libro!

Se non lo si è già fatto, meglio dedicarsi ai romanzi di Harris, quelli sì che sono belli.

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro edito da Giunti



sabato 11 giugno 2022

"Il rogo di Berlino", Helga Schneider


"Adolf Hitler è solo un bohémien vanitoso che viene dalla strada. Che alcuni lo temano, ecco una cosa che va al di là della mia comprensione."

Così inizia il libro, con lo stralcio di un discorso pronunciato da Hindenburg, Presidente del Reich, il 4 febbraio 1931. La storia insegna come l'ascesa di Hitler sia stata sottovalutata e questo libro racconta gli effetti del nazismo da un punto di vista insolito, quello di Helga Schneider, che li visse da bambina, figlia di nazisti.

Nata il 17 novembre 1937 a Steinberg (l'attuale Jastrzebnik, all'epoca tedesca, oggi polacca) da genitori austriaci, ha quattro anni quando - nell'autunno del 1941 - la madre abbandona lei e il fratellino Peter di 19 mesi a casa della facoltosa zia paterna per arruolarsi nelle SS: questo aspetto della vita dell'autrice è il tema di un altro suo libro, "Lasciaci andare, madre", scritto nel 2001 e che senz'altro leggerò.

Ne "Il rogo di Berlino", scritto nel 1995, racconta la breve e infelice convivenza nella villa di zia Margarete e quella successiva e felice con la nonna paterna - arrivata dalla Polonia (cosa non da poco in tempo di guerra e in un'epoca in cui il solo spostarsi da un capo all'altro di una città medio-grande costituiva a tutti gli effetti un viaggio) alla notizia dell'arruolamento della nuora (da lei definita una Nazihure, una troia nazista), con l'intento di tornare subito indietro con i due nipotini (per non farli trasformare in due "manichini impettiti" dalla figlia), ma obbligata a restare con loro a Berlino per volere del figlio, impegnato al fronte.

Di lì a poco lui si risposa con una giovane donna, Ursula, che riuscirà a essere una madre a tutti gli effetti per Peter, ma non per Helga, arrivando a internarla prima in un posto che la Schneider definisce lager (e che descrive come "un deposito per fanciulli non desiderati o ritenuti indegni di appartenere alla razza ariana in quanto ciechi, sordomuti, storpi, paralizzati, nani, subnormali e così via") e successivamente in un altro centro dove la bambina riesce a trovare una certa tranquillità. Ma anche questa parentesi dura poco ed Helga si ritrova a Berlino con il fratellino, la matrigna e il padre di quest'ultima (lui e la nonna paterna sono le persone migliori).

Questo accade alla fine dell'estate del 1944 ed è qui che si arriva al nocciolo della narrazione.

Berlino, che dal 1940 era stata oggetto di bombardamenti occasionali e di scarsa intensità, nel 1943 era già un bersaglio quotidiano. I civili tedeschi cercavano riparo nelle cantine dei caseggiati, cosa che furono costretti a fare anche la Schneider e i suoi familiari.

Il suo stile di scrittura semplice e diretto riesce a descrivere le sensazioni e i pensieri di lei bambina per quelli che erano, puri, ed è così che le sue paure colpiscono duramente, perché prive di responsabilità.

"Ogni incursione aerea, inoltre, sembrava volermi confermare l’inimicizia assoluta del mondo, e io continuavo a chiedermi per quale colpa l’avessi meritata."

Le paure di Helga bambina saranno sicuramente state identiche a quelle provate da mia madre (classe 1939) nel rifugio di Sampierdarena durante i bombardamenti su Genova.

Perché, lo dico chiaro, leggere "Avevamo subito un'incursione notturna" è stato un affronto. Per me che provengo da una famiglia partigiana è intollerabile l'uso del verbo "subire" da parte di un tedesco, ma forse lo scopo del libro supera la storia personale e serve a evidenziare come anche fra di loro ci sia stato chi ha davvero subito le decisioni dei nazisti e le conseguenze derivanti, come gli attacchi aerei degli avversari, le successive rappresaglie, la fame, la sete, la perdita della dignità a fronte di situazioni inimmaginabili per chi non le ha dovute patire.

Nessuno a sette anni dovrebbe mai aver accumulato così tanta paura da arrivare al punto di desiderare "solo addormentarmi per non svegliarmi mai più" o di chiedersi: "Avrò il tempo di crescere?". Ma ha fatto bene la Schneider a rivolgere un pensiero a chi ha subito ancora più di lei/loro.

"Eravamo andati oltre il sopportabile, oltre il vivibile, oltre l'immaginabile, oltre le nostre forze, oltre l'umano. Eppure in seguito dovetti imparare che la nostra sofferenza non era stata nulla in paragone a quella che era toccata agli ebrei massacrati nei campi di concentramento."

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro con il nome di un luogo nel titolo


lunedì 6 giugno 2022

"La scrittrice del mistero", Alice Basso

 

Torino, 15 febbraio 2015. Il risveglio di Vani Sarca è molto diverso rispetto al solito: la sera prima c'è stata la cena tanto sospirata culminata nei baci tanto attesi che hanno decretato la nuova coppia. Ma non c'è tempo per crogiolarsi nella nuvoletta rosa dell'amore: Riccardo Randi, l'ex di Vani, è vittima di uno stalker che venti giorni prima gli ha fatto trovare un povero coniglio morto sullo zerbino di casa. Poi ha ricevuto un pacco con delle forbici insanguinate, quindi una penna (insanguinata anch'essa). Coniglio e oggetti erano accompagnati da messaggi minatori che manifestano un preoccupante crescendo di odio. Conviene indagare a fondo, e qui entra in gioco il commissario Berganza...
Contemporaneamente Enrico, il capo di Vani alla casa editrice L'Erica, le affida un nuovo incarico come ghostwriter: deve scrivere il primo di una nuova serie di libri ambientati in Italia che saranno firmati da uno dei re dei thriller americani, Henry Dark. Che in realtà si chiama Enrico D'Archino ed è un "banale" italiano della Brianza.

Un altro autore che mi sono decisa a riprendere: questa volta sono passati più di due anni dall'ultimo libro della Basso che avevo letto. Chiaramente questo mio intervallo di lettura è l'unica cosa che accomuna lei e Kent Haruf.

"La scrittrice del mistero" è il quarto romanzo della serie che ha come protagonista Vani Sarca e inizia dal giorno successivo alla conclusione del precedente: Alice Basso, a differenza di Alessia Gazzola e di tanti altri autori, è una che sta attenta alla cronologia degli eventi e non sbaglia le date, guadagnandosi la mia gratitudine. Ha anche il pregio di non dilungarsi nel riassumere le vicende personali dei personaggi, cosa che interpreto come una forma di rispetto per i lettori fedeli. Chi  inizia una serie dal quarto titolo merita di perdersi i passaggi della trama orizzontale.

Non che nella serie ci sia chissà quale costruzione. La sinossi recita: "La vita di una ghostwriter non ha nulla a che fare con un romanzo rosa". Ecco, invece questo è decisamente un romanzo (romanzetto) molto rosa, con una piccola sfumatura di giallo.
La Vani, che conosciamo come impermeabile a tutto, in amore diventa una mammoletta che si fa prendere dai crampi allo stomaco (ventitré volte in 320 pagine!) per frasi, sfioramenti, sguardi, ecc, che per la maggior parte dovrebbero generare questo effetto giusto su degli adolescenti.

Ma l'inizio della stagione calda e le prime giornate trascorse al mare sono state adatte a questa lettura tutto sommato piacevole, sicuramente scorrevole e anche divertente grazie a un umorismo in stile Littizzetto molto più presente in questo rispetto ai titoli precedenti.

Il finale aperto spinge fortemente verso la quinta (e credo ultima) puntata della serie: lo sceglierò per la prima traccia utile perché sono senz'altro curiosa di leggerlo.

Reading Challenge 2022, traccia di giugno: un libro con una figura professionale nel titolo



sabato 4 giugno 2022

"La strada di casa", Kent Haruf

Holt (Colorado), inizio novembre 1985. E' un sabato pomeriggio inoltrato quando una Cadillac parcheggia lungo Main Streat. Molti la notano: perché di Cadillac a Holt se ne sono viste circolare ben poche; perché è rossa fiammante; perché ha la targa della California; e perché l'uomo seduto al volante non scende dall'auto. Passa un'ora, ne passano due. Poi Ralph Bird, il proprietario del negozio di abbigliamento sull'altro lato della strada, si avvicina, osserva l'uomo enorme (alto quanto grasso) alla guida, non lo riconosce, ma poi all'improvviso capisce chi è: dopo otto anni Jack Burdette è tornato a Holt e Bird può fare soltanto una cosa, chiamare lo sceriffo Sealy, che a sua volta non ha scelta. E così ai polsi di Burdette scattano le manette.

Sono passati due anni da quando il romanzo è stato tradotto in italiano e sono passati due anni e un mese dall'ultima volta che avevo letto Haruf. Il libro mi chiamava, ma rimandavo, rimandavo e ancora rimandavo perché sapevo che "La strada di casa" mi avrebbe portata a Holt per l'ultima volta.
Ho letto ogni singola pagina con la consapevolezza che ognuna di esse era una pagina in meno e che dopo non avrei mai più avuto nulla di Haruf da leggere.
Scrivere così bene e pubblicare soltanto sei romanzi in settantuno anni di vita è crudele e delittuoso, ma questo ritmo lento e pacato rispecchia la sua penna.

Scritto nel 1990 - la sua seconda opera, ma l'ultima ad essere stata tradotta da noi - è diviso in due parti divise a loro volta equamente in cinque capitoli ciascuna. Solo il primo e l'ultimo si svolgono nel presente: gli otto capitoli che racchiudono sono flashback, la meravigliosa ricostruzione dei fatti che ci vengono raccontati da Pat Arbuckle.
Holt è la cittadina in cui tutti si conoscono, tutti sanno tutto di tutti, Pat un po' più degli altri essendo proprietario e direttore dell'Holt Mercury, il settimanale della città. Pat però non ci parla da giornalista: lui Jack lo conosce da sempre, se lo è trovato in classe già dalla prima elementare, ha fatto con lui tutto il percorso di studi, e poi... E poi.

Nel primo capitolo il ritorno a Holt di Burdette coinvolge chi legge in maniera relativa: ok, torna questo tizio a bordo del macchinone; ok, è un farabutto che ha fatto qualcosa di illegale (altrimenti lo sceriffo non lo avrebbe arrestato); ok, l'intera cittadinanza ce l'ha con lui. Ma chi legge non ha ancora nessuna opinione sul suo conto, si mette comodo e prosegue la lettura.

L'ultimo capitolo riparte dall'inizio: Haruf riporta chi legge a quel sabato pomeriggio di novembre, c'è di nuovo la Cadillac parcheggiata in Main Street, ma adesso si sa tutto di Jack Burdette e il suo arresto viene vissuto con assoluta partecipazione anche dal lettore.
Perché Haruf ha questa capacità di farti sentire uno di Holt - e ce ne vuole considerando che si tratta di un contesto assolutamente provinciale, benpensante e bigotto - e 
anche questa volta di lieto c'è ben poco, le situazioni che racconta sono quasi tutte drammatiche, quando non sono tragiche. Eppure...

Mi mancherà Holt. Mi mancherà Kent Haruf. Beati voi, se ancora non lo avete letto.

"Vincoli. Alle origini di Holt"
"Canto della pianura"
"Crepuscolo"
"Benedizione"
"Le nostre anime di notte"

Reading Challenge 2022, traccia bonus di giugno: libri del proprio genere preferito (narrativa contemporanea)


mercoledì 1 giugno 2022

Reading Challenge: le tracce di giugno

  


Primo gruppo (un solo libro per traccia):

  • Un libro con una figura professionale nel titolo
    "La scrittrice del mistero", Alica Basso (3 punti)
  • Un libro con il nome di un luogo nel titolo
    "Il rogo di Berlino", Helga Schneider (2 punti)

  • Un libro dove avviene un suicidio o presunto tale
    "La variante Luneburg", Paolo Maurensig (1 punto)

  • Un libro edito da Giunti
    "Una brava bambina", Seo Mi-ae (3 punti)
  • Un libro collegabile al dipinto "Spirite" di George Roux
    "Tua", Claudia Pineiro (1 punto)

Secondo gruppo (un solo libro per traccia, solo se si sono letti i cinque libri delle tracce del primo gruppo):

  • Un retelling
    "Biancaneve", Donald Barthelme (3 punti)
  • Un libro con dei nobili
    "La regina irriverente", Carla Maria Russo (5 punti)
  • Un libro dove il protagonista cresce
    "La solitudine dei numeri primi", Paolo Giordano (4 punti)
  • Un libro in cui si parla di un evento storico realmente accaduto
    "L'ordine del giorno", Eric Vuilard (2 punti)
  • Un libro con un protagonista di mezza età
    "I segreti di mio marito", Liane Moriarty (6 punti)


Traccia bonus (uno o più libri):  
libri del proprio genere preferito
  • "La strada di casa", Kent Haruf (2 punti)
  • "L'avversario", Emmanuel Carrère (1 punto)
  • "L'estrema fortuna", Richard Ford (2 punti)
 
 
I miei punti = 35


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Casata: L'ordine della fenice