venerdì 29 novembre 2019

"The sinner. La peccatrice", Petra Hammesfahr


Colonia, giorni nostri. Cora Bender ha 24 anni, è sposata da tre con Gereon e hanno un bambino di due. E’ luglio, fa molto caldo e la famigliola ha deciso di trascorrere la giornata al lago.
Lo stesso hanno fatto due giovani coppie di amici. Sono proprio di fianco ai Bender, ascoltano musica, una musica martellante che dà molto fastidio a Cora. Ma è quando Georg Frankemberg si sdraia sopra alla moglie, sposata appena tre settimane prima, che Cora si avventa su di lui e lo colpisce con il coltello con cui stava sbucciando una mela al figlio. Il primo fendente colpisce Georg alla nuca: lui ha il tempo di girarsi, di guardare Cora. Il gesto è stato talmente repentino che ha paralizzato tutti i presenti e prima che qualcuno riesca a riprendersi e a bloccare Cora lei è riuscita a infliggere talmente tante coltellate a Georg da ucciderlo.
Per il commissario Rudolph Grovian dovrebbe essere un caso facile, ci sono decine e decine di testimoni e la donna ha confessato. Ma fin dal primo interrogatorio Grovian ha l’impressione che sia troppo semplice archiviare il caso come raptus di follia e che Cora abbia molte cose da spiegare, ad esempio come si è procurata quella grossa cicatrice sulla fronte e cosa sono quei segni nell’incavo delle braccia…

Era dall’anno scorso che rimandavo la lettura di questo romanzo, ma è giunta l’ora di liberare spazio nel mio My Sky, quindi prima dovevo leggere il libro e poi guardare le due stagioni della serie TV.
Rimandavo perché sapevo che avrei mal sopportato il tema trattato, quel fanatismo religioso intollerabile per me e per chiunque, tranne per chi ne è vittima.
In effetti credo sia il thriller psicologico più angosciante che abbia mai letto ed è indubbiamente un ottimo thriller, originale e complesso.

Lo schema è semplice: tutto si sviluppa attraverso i ripetuti interrogatori del commissario. Cora parla, parla tanto. Racconta un sacco di cose, anche molte bugie. I tasselli sono tanti e il lettore si trova a doverli sistemare nel giusto ordine insieme a Grovian, ricostruendo tutto più volte man mano che si capisce cosa va scartato e cosa invece è successo realmente, come e quando.

Bisogna fare molta attenzione, altrimenti la storia può sembrare confusionaria, cosa che non è, anche se forse la Hammesfahr si è dilungata ripetendo il meccanismo un po’ troppe volte, due o tre passaggi/ricostruzioni in meno non avrebbero penalizzato il racconto, anzi.

Resta un libro da leggere senza distrazioni.

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "Il sogno della macchina da cucire" perchè le autrici sono entrambe donne


mercoledì 27 novembre 2019

"Genova e il mare nel Medioevo", Antonio Musarra


"...vedrai una città regale, addossata a una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la mostra essere la signora del mare”: perché Genova, la mia Genova, vista dal mare riesce a togliere il fiato ancora oggi, nonostante tutto quel cemento che l’ha trasformata in un città verticale.
Non riesco neppure ad immaginare quanto dovesse essere bella quando venne descritta con queste parole, quando c’era una lussureggiante vegetazione a fare da sfondo alle sue torri medievali, tante delle quali ancora esistenti, maestose e forti (a differenza di quello che è stato costruito negli ultimi decenni e che si sta sbriciolando senza pietà): Embriaci, san Marcellino, Grimaldina, Maruffo, Morchi, Piccamiglio, ecc...

E Genova nel Medioevo non era solo bella: era una potenza. A cominciare dalla prima crociata, autentico motore della sua espansione nel Mediterraneo. Fu papa Urbano II a chiedere espressamente l’intervento dei genovesi, che si mossero per fini economici, non tanto religiosi. 
 
Già allora spesso venivamo additati come “diversi”, i romani cercavano di evitare di venire in Liguria, la chiamavano la terra dei lupi… 

Nei secoli centrali del Medioevo Genova era potentissima, ben governata, prestigiosa e temuta: dominava incontrastata da Gibilterra al mar Nero con un sistema di torri che comunicavano a vista su tutto il Mediterraneo.
Gli inglesi pagavano alla Repubblica Genovese la protezione dai pirati e tanti chiedevano l’intervento navale dei genovesi, che in cambio ricevevano vantaggi per la propria politica commerciale.

Scaltri mercanti, grandi navigatori e potenti guerrieri: perché c’è stata un’epoca in cui Genova economicamente era ben più forte di Milano e di Firenze, quando i suoi commerci arrivavano anche alle Fiandre e all’Inghilterra, lasciando il segno a Barcellona, Siviglia, Cadice, Lisbona, Southampton, Londra, Bruges e Anversa.

Questo saggio, il cui autore è storico e ricercatore, racconta con grande precisione quei secoli di gloria: un’accuratezza di dettagli che indubbiamente ne fanno un’opera completa, di pregio, ma una minuziosità che per le mie modeste risorse si è trasformata in un “difetto” rallentandomi tantissimo la lettura, ho impiegato quasi due mesi per leggerlo, in parte anche a causa del font molto piccolo, ma soprattutto per lo stile nient’affatto divulgativo. Centinaia di nomi e di date, con il riporto di compensi, terre conquistate, passaggi di potere, ecc… Mi sarebbe piaciuta una narrazione alla Alberto Angela, per capirci, con una bella descrizione dei personaggi e delle varie situazioni, scenari che invece mancano completamente.

Questa lettura mi ha lasciato il piacere di qualche descrizione dell’epoca della mia città e dei miei antenati, quello di ritrovare i cognomi delle nostre famiglie storiche, i Doria, gli Spinola, i Grimaldi, i Fieschi, gli Embriaci, ecc, e soprattutto la scoperta di cose che non sapevo, ad esempio che Caffaro fu il primo autore laico a scrivere la storia di una città o che Genova con Guglielmo Boccanegra fu la prima città ad avere un governo popolare o ancora che fummo noi a disegnare la prima carta nautica nel 1270…

Alla fine sono contenta di averlo letto, ma felice di averlo finito e di tornare alla mia vecchia e cara narrativa.

Saaihalle: la targa a ricordo della loggia dei mercanti genovesi a Bruges:


Reading Challenge 2019: per questo testo uso il bonus casata che noi Lost in Austen ci siamo aggiudicate a ottobre


martedì 26 novembre 2019

"Luna di Luxor", Stefania Bertola


Toscana, Costa Azzurra e Scozia, giorni nostri. Miranda McTeague ha 23 anni, è magra, bionda, benestante di famiglia e da quattro anni è fidanzata con l’affascinante pianista di fama internazionale Aldo Serpieri, di cui sopporta con noncuranza i costanti tradimenti. E ha un sogno, quello di poter lavorare in una rivista di gossip.
Sogno che forse riuscirà a realizzare grazie alla spinta di Claudia Rambaldi, “amica”, scrittrice esordiente e redattrice di “Charme”: per essere assunta dalla rivista, Miranda dovrà fingersi bibliotecaria e farsi assumere dai principi Beneaccorsi. Una volta insediata nella villa, oltre a mettere ordine fra le migliaia di tomi antichi della biblioteca, dovrà soprattutto stare all’erta aspettando l’arrivo del Soggetto e a quel punto spiare, fotografare e scrivere il suo scoop…

Stefania Bertola è una delle mie scrittrici preferite: le sue storie scanzonate e il suo stile leggero mi rilassano, il suo umorismo torinese mi diverte. Ho letto, e continuo a leggere, i suoi romanzi in ordine cronologico, dopo questo me ne mancano quattro, gli ultimi che ha scritto.

Solo leggendo le note dell’autrice ho scoperto che “Luna di Luxor” è stato il suo esordio letterario: pubblicato per la prima volta da Longanesi nel 1989, è stato poi riproposto da Salani nel 2013 e quindi ristampato per la terza volta nella collana Best Tea, l’edizione che ho io.

Dopo averlo letto la mia straziante domanda è: perché? Perchè non lasciare a questo libro la dignità di nascondersi nella categoria dei fuori catalogo dove non avrebbe più fatto perdere tempo a nessuno?
L’unico valore che può avere è quello affettivo per l’autrice stessa, ma quando – sempre nelle note – afferma: “Non lo avevo mai riletto (…) poi però abbiamo deciso di ripubblicarlo, l’ho letto e mi è sembrato abbastanza bellino” scatta la sensazione di essere presa in giro perché se io, semplice fedele lettrice, so quanto di meglio Stefania Bertola abbia saputo scrivere dopo quest’opera prima, a maggior ragione deve saperlo lei.

"Abbastanza bellino”??? Da genovese mi viene spontaneo dire solo una cosa: che libro del belino!
Decisamente uno dei più stupidi che abbia mai letto: stupida la trama, stupidi i personaggi, stupidi i dialoghi, stupido tutto!
Con tutti i titoli validi ormai fuori catalogo, potevano risparmiarsi di ristampare (due volte!!) questa stupidaggine!

Guest star: Luna di Genova (infinitamente più bella di Luna di Luxor!!) 

Reading Challenge 2019: collegamento con la traccia musicale di novembre per la parola "luna" nel titolo



lunedì 25 novembre 2019

"...Che Dio perdona a tutti", Pif


Palermo, giorni nostri. Arturo ha 35 anni, è single, fa l’agente immobiliare, gioca in porta a calcetto nella squadretta composta da colleghi e amici ed è ghiotto di dolci, soprattutto di quelli con la ricotta. Flora, figlia di pasticciere nonché proprietaria di una nuova pasticceria, è proprio la sua donna ideale. Ma Flora è anche una fervente cattolica. Per salvarsi ad Arturo, cattolico nella media, non basta andare con lei a messa o impersonare Gesù Cristo nella via crucis: quando Flora si accorge che Arturo non conosce le parole esatte con cui bisogna rispondere al prete durante la funzione, il rapporto vive il primo momento di crisi. Che però non sarà nulla rispetto a quando Arturo deciderà di professare la parola di Dio per tre settimane: perché è facile dirsi cattolici, ma comportarsi da cattolici lo è un po’ meno.

E bravo Pif: dietro al racconto di una storiella d’amore condita con scenette di vita quotidiana fra colleghi, amici e parenti, scrivendo con leggerezza e cercando di far divertire (nel mio caso riuscendoci spesso, con tanto di imbarazzanti risate in faccia alla gente), punta inesorabilmente il dito contro l’ipocrisia di chi vive la religione con una permessività di comodo che certo non fa parte del cristianesimo, tanto meno del cattolicesimo.

Pif si definisce agnostico, io sono atea: l’ultima cosa che vorrei è l’integralismo religioso in Italia, ma sicuramente gradirei una maggior coerenza, ad esempio non sentirmi dare della buonista quando difendo posizioni che a onor di logica dovrebbero appartenere più ai cattolici con cui discuto che a me.

"Quando sta male un caro o stiamo male noi, ci ricordiamo di essere cristiani. Quando un presunto invasore rischia di mettere in discussione “le nostre radici cristiane” alloro lo diventiamo. Pratichiamo il cristianesimo quando ci è più comodo. Quando vogliamo divorziare no, quando dobbiamo imporre il crocifisso sì, quando dobbiamo accogliere no, quando giuriamo sul vangelo sì. Perchè di san Francesco ci piace che parlasse ai lupi e agli uccellini, ma dimentichiamo quello che potremmo fare anche noi: donare tutto ai poveri, ma basterebbe anche la metà. Trattare il prossimo come un nostro fratello, anche quando nostro fratello ci tratta male.

Reading Challenge 2019: questo testo risponde alla Traccia casata di novembre "un libro di genere commedia-satira"



domenica 24 novembre 2019

"Il sogno della macchina da cucire", Bianca Pitzorno


Cittadina di cui si sa solo l’iniziale, L, del centro o sud Italia. Anni a cavallo fra l’800 e il 900.
La protagonista, di cui non viene mai detto il nome, ha 16 anni e mezzo quando perde la nonna, l’unica sua parente ancora in vita.
La donna ha trasmesso alla nipote tutto quello che sapeva e che poteva, soprattutto le ha insegnato a cucire, facendo anche di lei una sartina a giornata in un’epoca in cui aristocratici e ricchi signori avevano nei loro lussuosi palazzi la stanza dedicata al cucito dove sarte e sartine a servizio confezionavano per loro biancheria e vestiti.

Altro libro finito nella mia wish list dopo le entusiastiche recensioni di Valeria del canale Read Vlog Repeat, entusiasmo che questa volta non mi sento di condividere.

Lo stile della Pitzorno (di cui non avevo mai letto nulla) è semplice, scorrevole, delicato, ma l’ambientazione e la storia che qui racconta sono davvero lontanissime dalla mia comfort zone.

Al di là del gusto soggettivo, trovo titolo e sinossi piuttosto ingannevoli: il libro non è quello che mi aspettavo leggendoli, vale a dire una vicenda incentrata su come il possesso di una macchina da cucire, a manovella prima e a pedali poi, potesse garantire alle donne quella libertà e quell’indipendenza economica che all’epoca erano tutt’altro che facili da raggiungere. Questo aspetto è purtroppo solo un dettaglio marginale in mezzo alla narrazione in prima persona delle “avventure” personali della giovane protagonista e di quelle delle signore e signorine d’alto rango per le quali cuce, dalla marchesina Ester che lascia il marito e torna a vivere col padre, a miss Lily Rose americana e anticonformista, dalle sorelle Provera vittime dell’avarizia del capostipite alla centenaria e sprezzante Licina Delsorbo, senza dimenticare l’orfanella Assuntina… 
 
Racconti che mi hanno fatto ricordare con orrore “La piccola Dorothy” e alcuni altri libri simili che le sorelle di mia nonna mi regalavano quando ero piccola, prima che mia sorella mi salvasse leggendomi Edgar Allan Poe: un bell’esempio di sliding doors fra l’innamorarsi o meno della lettura!

Dettagli trascurabili, ma che comunque mi hanno infastidita, sono l’assenza del nome della protagonista e la mancanza di una precisa collocazione geografica: solo tre città reali vengono citate (Torino, Parigi e New York), per il resto - oltre alla cittadina di L, dove si svolgono i fatti - abbiamo P, G, F… Una scelta che non ho capito, che non aggiunge niente al libro, anzi. Forse l’intento era quello di dare un tocco di originalità, invece è solo una stupidaggine.

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "La versione Fenoglio" perchè entrambi gli autori sono italiani

sabato 23 novembre 2019

"La versione Fenoglio", Gianrico Carofiglio


Bari, 2010. Pietro Fenoglio ha già 59 anni, gliene manca soltanto uno prima della pensione, ma non ha potuto rinviare oltre l’intervento per la ricostruzione dell’anca. Ed è durante le sedute di fisioterapia che conosce Giulio, un ragazzo vittima di un incidente stradale.
Fra i due, grazie alla passione comune per la lettura, si instaura un bel dialogo, potrebbero essere padre e figlio, ma proprio per questo riescono a darsi reciprocamente il diverso tipo di sicurezza di cui entrambi hanno bisogno.

La versione Fenoglio” è un manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo: così spiega la sinossi e riporto la frase perché è sufficiente a spiegare l’intero libro.

Carofiglio sfrutta questa nuova conoscenza per far raccontare al suo personaggio tutto quello che ha appreso e vissuto durante i lunghi anni di carriera, a partire dal come e dal perché a 22 anni ha partecipato al concorso per diventare vicebrigadiere dell’Arma, lui che sognava di poter vivere facendo tutt’altro, cioè scrivendo.

Un romanzo-manuale che, spiegando le regole di comportamento basilari per le forze dell’ordine, diventa anche un romanzo-denuncia attraverso il racconto di casi in cui c’è stato abuso di potere: da chi sfrutta il ruolo che ricopre per farsi offrire le consumazioni in bar e ristoranti a chi non segue la corretta procedura nelle scene del crimine contaminando le prove fino a quelli che incarnano il lato violento della legge.

"Il problema più serio è quando la violenza viene esercitata per chiarire i rapporti di forza: il delinquente deve capire chi comanda e secondo alcuni può capirlo solo così. Oppure per dare al soggetto un anticipo di punizione. Con l’eventuale aggravante che a taluni piace picchiare

Sicuramente alcuni, forse molti, non riconosceranno in questo atteggiamento un problema pensando che chi delinque merita di subire violenza, ma è l’ultima frase a dover far riflettere. E’ ovvio, come spiega Carofiglio, che in certe circostanze di pericolo polizia, carabinieri, ecc, debbano imporsi con la violenza, per difendere se stessi e/o altre persone, o anche semplicemente per riuscire a effettuare l’arresto.

Ma sono i casi come quello di Stefano Cucchi a dover far prendere le distanze da certe barbarie (non mi stupirei se l’idea della struttura del romanzo sia stata ispirata proprio dalle circostanze della morte di Stefano), soprattutto per il rispetto dovuto a chi esercita queste professioni con serietà, coraggio e osservazione delle regole.

Quello che trovo agghiacciante, non solo nel caso di Stefano Cucchi, è come anche chi per mestiere e preparazione dovrebbe saper gestire meglio di altri i propri istinti, possa cadere “vittima” dell’effetto branco.

Una singola persona che arriva (letteralmente) ad ammazzarne di botte un’altra personalmente mi raggela: non parliamo di uno schiaffo, di un paio di pugni, di un calcio nelle parti basse.

Parliamo di sfondare torace e cranio a forza di botte.

Ma che a mettere in pratica un pestaggio di questo tipo sia un gruppo di persone è… inconcepibile. Non abbiamo più un singolo individuo che, per ragioni più o meno comprensibili, ha perso la testa, ma più individui che traggono forza dall’effetto branco, appunto. Possibile che davanti al massacro di Stefano Cucchi nessuno dei presenti sia riuscito a dire: “basta!”? Caso limite? Non direi, da genovese non potrò mai dimenticare la “macelleria messicana” perpetrata nella scuola Diaz ai tempi del G8.

Non può esserci giustificazione, solo rabbia e vergogna. E rispetto per chiunque vesta una divisa con il riguardo che merita.

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "L'estate fredda" perchè entrambi ambientati a Bari


venerdì 22 novembre 2019

"L'estate fredda", Gianrico Carofiglio


Bari, 12 aprile 1992. E’ il giorno in cui inizia una sanguinosa guerra all’interno del più grosso clan mafioso della città con sparatorie, sparizioni, omicidi… Ma il momento più critico arriva quando a sparire è il piccolo Grimaldi, dieci anni, figlio di Nicola, il maggior esponente della mafia barese.
I carabinieri apprendono la notizia solo grazie a un informatore e intervengono nonostante l’omertà generale, compresa quella della famiglia del bambino.
All’improvviso la svolta: una telefonata anonima e il maggior sospettato del rapimento che decide di collaborare, confessando anche crimini che non gli erano stati attribuiti, ma giurando che lui non ha a che fare con il sequestro del bimbo…

Sono passati tre anni dalla vicenda raccontata in “Una mutevole verità”, Pietro Fenoglio ha adesso 41 anni, è diventato maresciallo maggiore e vive un momento personale difficile a causa della crisi coniugale con Serena (altra similitudine, non importante, ma evitabile, con Guerrieri).

Un romanzo particolare, lo definirei un saggio travestito da romanzo perché è grazie agli interrogatori di carabinieri e PM che Carofiglio racconta la mafia barese: attraverso quali passaggi è nata, com’è organizzata, quali sono le regole, i (demenziali) riti di iniziazione, ecc... 
 
Ho apprezzato la precisione, ma temo che comprando il libro pensando di leggere un semplice giallo si possa trovare questa parte troppo particolareggiata. Per contro il giallo c’è, è sviluppato benissimo, è crudo, obbliga a riflessioni intense, come succede sempre leggendo Carofiglio, che qui affronta dettagliatamente il cancro della mafia, come non aveva mai fatto nei romanzi di Guerrieri.

Un libro che è chiaramente un omaggio a Falcone, Borsellino e a tutte le altre persone uccise nei due attentati del ‘92, attentati che hanno colpito tutta l’Italia onesta, ma - per forza di cose - maggiormente chi ha lavorato per l’antimafia, come Carofiglio.

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "Una mutevole verità" perchè hanno lo stesso protagonista


giovedì 21 novembre 2019

"Una mutevole verità", Gianrico Carofiglio


Bari, 1989. La signora Cassano è una di quelle vicine di casa che non solo controllano tutto ciò che avviene nel caseggiato e nei dintorni, ma che lo fanno con l’arrogante convinzione di avere pieno diritto di impicciarsi dei fatti altrui. Fra le altre cose la signora annota le targhe di tutte le macchine parcheggiate nei pressi del condominio non di proprietà di chi ci abita e affronta gli estranei che incrocia per le scale chiedendo chi sono e perché si trovano lì.
E' così che la sua minuziosa testimonianza permette ai carabinieri di effettuare subito un fermo per l’omicidio di Sabino Frattosio, sgozzato nella sua cucina quel mattino. Per il 22enne Nicola non c’è scampo: la signora Cassano lo ha riconosciuto dopo averlo fronteggiato sulle scale e, non convinta della risposta ricevuta, lo ha anche spiato una volta uscito dal portone, ha visto quello che ha fatto, ha visto su quale auto è salito e ha preso il numero di targa.
Per il maresciallo Fenoglio sembrerebbe l’indagine perfetta, aperta e chiusa, se non fosse che manca il movente…

Pietro Fenoglio, torinese trapiantato a Bari, classe 1951, è il personaggio protagonista della seconda serie di romanzi di Gianrico Carofiglio e questo è il primo. Scritto nel 2014, quindi dopo i primi cinque della serie dell’avvocato Guerrieri (di cui questo mese è uscito il sesto), è stato però ambientato nell’89, vale a dire dieci anni prima dei fatti di “Testimone inconsapevole”.

Un giovane Guerrieri qui compare in un cammeo, una piccola citazione emozionante per chi, come me, ha tanto a cuore quel personaggio. Ma è bastato questo breve romanzo per farmi innamorare anche del maresciallo, indubbiamente un soggetto simile a quello di Guerrieri: entrambi sono il prodotto dei principi di Carofiglio ed essendo anche i miei era inevitabile che apprezzassi anche questa storia e i suoi contenuti.

La vicenda gialla questa volta viene vissuta non attraverso l’istruttoria, ma seguendo le indagini dei carabinieri. Un giallo semplice, ho intuito la soluzione prima di Fenoglio, indubbiamente un difetto se ci si limita ad un esame superficiale, crimine –> soluzione.

Ma Carofiglio è ben altro e, come con Guerrieri, sfrutta il suo personaggio per mettere in rilievo cosa è giusto e cosa non lo è, nel suo solito modo raffinato e intelligente, facendo osservazioni su cui sarebbe imbarazzante non essere d’accordo.

Fenoglio la odiava, la violenza. Ne aveva vista tanta, l’aveva anche usata qualche volta, quando era inevitabile, ma la trovava ripugnante. Divideva i colleghi in due categorie: quelli che si servivano della violenza solo se era necessario e quelli – li detestava – che picchiavano per il gusto di farlo

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "La verità sul caso Beth Taylor" perchè entrambi gli autori sono europei

mercoledì 20 novembre 2019

"La verità sul caso Beth Taylor", Erin Kelly


Capo Lizard (Cornovaglia), agosto 1999. Laura e Kit hanno poco più di vent’anni, lui è un cacciatore di eclissi, una passione ereditata dal padre, mentre per Laura quella a cui stanno per assistere sarà la sua prima eclissi totale. Ma l’emozione per l’esperienza verrà spazzata via subito dopo, quando lei sarà testimone di una scena tremenda: una ragazza distesa a faccia in giù sul terreno fangoso, un ragazzo sopra di lei. Violenza o rapporto consensuale? Lo stato della ragazza, sotto choc al punto da non riuscire a parlare e con il viso ricoperto di muco e di lacrime, lascia ben pochi dubbi sulle menzogne dell’uomo, che infatti verrà arrestato e processato.
Beth e Laura, in qualità di vittima e di testimone principale dell’accusa, non dovrebbero avere contatti, ma l’empatia verso Beth spinge Laura a darle il suo numero di cellulare. Da lì a ritrovarsela davanti all’ufficio e poi a casa, sempre più insistente e più invadente, sarà un attimo. E con la frequentazione emergono inquietanti particolari, tali da far venire a Laura il sospetto di essersi schierata dalla parte sbagliata.
Londra, marzo 2015. Kit e Laura sono sposati da 15 anni, lei è al settimo mese di gravidanza, aspettano due gemelli. Un momento che la donna non riesce a vivere con la giusta serenità, sempre perseguitata dalle paure di quel passato che li ha portati addirittura a cambiare nome e a cercare di rendersi invisibili nel mondo reale e in quello virtuale. E poi Kit sta per partire a caccia di un’altra eclissi…

Primo thriller che leggo di Erin Kelly, autrice che ho scoperto dopo aver visto una serie tv tratta da un suo precedente romanzo, “Broadchurch”. La serie non è imperdibile, ma è piacevole, di buon livello, anche se con un ritmo un po’ lento, tipico di molte serie inglesi. Anche questa storia si presta per una serie tv, che vedrei molto volentieri e sono convinta che mi piacerebbe più del libro (cosa rara).

Perchè la vicenda thriller è davvero molto bella con una suspense costante dall’inizio alla fine. L’alternanza di capitoli fra passato e presente crea il classico intrico di dettagli che vanno a posto man mano che si scopre cosa è successo davvero e cosa no, fino ad arrivare ad avere il quadro completo, con un ultimo colpo di scena che non definirei “grandioso da togliervi il fiato”, come a detta della sinossi pare abbiano fatto sul Sunday Mirror, ma che comunque dà una buona chiusura al libro.

Nonostante ciò non posso dire che mi sia piaciuto. La descrizione processuale è stata penalizzata dal confronto con quelle di Carofiglio. Per Laura ho provato antipatia fin dal principio, sentimento che un po’ per volta si è allargato anche a Kit. L’epilogo poteva essere sviluppato e raccontato molto meglio.

Ma il difetto principale del libro è il troppo spazio che viene dato alla faccenda delle eclissi: troppi dettagli, troppe descrizioni, troppi dati tecnici che mi hanno reso stancante la lettura, soprattutto nella prima metà. L’argomento non mi appassiona, da qui il fastidio che ho provato e che cresceva mentre andavo avanti e mi rendevo conto che tutto lo scenario delle eclissi era superfluo: l’atto sessuale a cui assiste Laura avrebbe potuto svolgersi in un posto qualsiasi e non sarebbe cambiato nulla, se non eliminare un centinaio di noiosissime pagine.

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "Destinatario sconosciuto" per il cognome Taylor (autrice/titolo)




sabato 9 novembre 2019

"Destinatario sconosciuto", Kressmann Taylor


Max Eisenstein e Martin Schulse, oltre ad essere soci in affari, sono soprattutto grandi amici. Nell’autunno del 1932 Martin torna a vivere a Monaco di Baviera con la sua famiglia e da quel momento fra i due uomini inizia una corrispondenza dove, in ogni lettera, non mancano mai di esprimere l'interesse e l'affetto reciproci.
Ma in breve si arriva al 30 gennaio 1933: Hitler viene nominato cancelliere del Reich, un evento che cambia la sorte di milioni di persone e anche quella dell’amicizia dei due protagonisti.

Romanzo epistolare che riporta la quindicina di lettere che Martin e Max si scambiarono fra il 12 novembre 1932 e il 3 marzo 1934: l’autrice disse che si trattava di una storia vera e che le lettere erano reali.

Una lettura veloce per numero di pagine (appena 77), ma con un peso enorme. Il maggior pugno nello stomaco me lo ha dato la prima data di pubblicazione, avvenuta negli Stati Uniti nel 1938. Cioè prima che la sorte della maggior parte dei milioni di persone sopra citate si traducesse in morte.

Pensando al nazismo è inevitabile chiedersi come questo regime totalitario sia riuscito ad azzerare la coscienza dei tedeschi (il “non lo sapevamo” di una parte di loro non è oggettivamente credibile) e questo librino lo spiega molto bene e molto semplicemente attraverso la conversione di Martin che nell’arco di pochi mesi passa dall’iniziare le sue lettere salutando il suo amico con un “mio caro e vecchio Max” al terrificante “heil Hitler”, dal chiedersi se quest’uomo sia sano di mente al parlare di lui come del “nostro amabile Fuhrer”.

Martin, che è sicuramente un uomo con una cultura e un’intelligenza, che nel 1932 si definisce un liberale e che riconosce in Max un amico fraterno, in una manciata di mesi prende le distanze da lui, ormai irrimediabilmente convinto della legittimità dei crimini contro gli ebrei.

Un lavaggio del cervello generale che il nazismo è riuscito a fare giocando sporco e facile, evidenziando il disagio comune (gli anni di estrema povertà patiti dalla Germania dopo la prima Guerra Mondiale), facendo leva sul grande amor patrio che da sempre li caratterizza e quindi indicando loro i colpevoli di questa situazione, gli ebrei (e non solo).

E’ storia. Tutti sappiamo com’è andata. Ce lo hanno raccontato i nostri nonni, i nostri genitori. Lo abbiamo studiato a scuola.

Ma lo sappiamo o lo sapevamo?

Un centrodestra serio dovrebbe prendere le distanze da un certo tipo di destra. Se avessi votato un politico e poi lo vedessi astenersi e rimanere seduto quando il Senato decide su temi come il razzismo e l’antisemitismo penso che due domande me le farei. Anche quattro.

"Il male è male, non importa nel nome di chi venga commesso

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "Heather, più di tutto" perchè entrambi gli autori sono statunitensi


giovedì 7 novembre 2019

"Heather, più di tutto", Matthew Weiner


New York, giorni nostri. Heather Breakstone e Robert (Bobby) Klasky hanno poco più di dieci anni di differenza ed esistenze opposte.
Lei è un’adolescente figlia di una ricca coppia borghese arrivata al matrimonio quando ormai entrambi erano prossimi ai 40 e sentivano l’urgenza di sposarsi. Passati dall’accontentarsi (soprattutto la donna) allo stare bene insieme, finendo con l’amarsi, anche con passione, per poi perdersi, anziché unirsi, vivendo in modo ossessivo (prima la donna e poi l’uomo) l’amore verso questa figlia capolavoro, bella, intelligente e buona.
Lui un giovane uomo nato e cresciuto nella periferia più degradata del New Jersey da una madre tossicodipendente, con una prospettiva di vita disastrosa da cui non è riuscito, né ha provato, a sottrarsi e con già un passato da galeotto quando la sua strada si incrocia con quella di Heather.
Ma non è una storia d’amore…

Matthew Weiner è il creatore e produttore di Mad Men, serie tv che non ho visto, nonché autore e produttore de I soprano, che non è stata la mia serie preferita in assoluto, ma che ho seguito con piacere.
Ero quindi curiosa di leggere questo suo primo romanzo e non sono rimasta delusa. Una storia che è commedia per un’abbondante prima metà e che poi si trasforma in un interessante noir.

Uno stile particolare, molto scorrevole nonostante anche i dialoghi vengano raccontati. Il punto debole sono i personaggi eccessivamente stereotipati: i due Breakstone adulti inconsapevoli di essere dei privilegiati e mai contenti del tanto che hanno e Bobby sbandato e delinquente senza possibilità di riscatto.

Uno scontro fra universi opposti che avrebbe meritato uno sviluppo più approfondito, ma forse Weiner voleva limitarsi a scrivere un romanzo breve.
Oppure nel suo di universo i Breakstone rappresentano una “famiglia come tante”, com’è scritto nella sinossi, mentre per lui è un assioma che uno nato povero con madre tossica debba essere per forza cattivo?

Reading Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di novembre. Lo collego a "Brother" perchè entrambi gli autori sono nordamericani

mercoledì 6 novembre 2019

"Brother", David Chariandy


Scarborough (Toronto), anni ‘90. Francis e Michael sono fratelli, hanno solo un anno di differenza, ma sembrano di più: Francis è (o finge di essere) quello sicuro, quello che ha gli amici giusti, quello che ha successo con le ragazze. Michael è quello timido e un po’ imbranato. Sono canadesi dalla pelle scura, figli di immigrati caraibici. Il padre è andato via di casa quando erano piccolissimi e la madre li ha cresciuti da sola, tirando avanti con lavori umili, a orari impossibili, raccomandando sempre ai figli di non sprecare le loro opportunità.
Sì, ma quali?

Michael è la voce narrante e attraverso i suoi ricordi ricostruiamo il passato, alcuni flashback di lui bambino, ma soprattutto scopriamo cos’è accaduto dieci anni prima e capiamo perché nel titolo manchi la “s” finale...

Secondo romanzo di David Chariandy, il primo a essere tradotto in italiano. Un perfetto esempio di come anche un romanzo breve (176 pagine) possa essere bello e lasciare un segno importante. Nato e cresciuto anche lui nei sobborghi di Toronto, con la stessa pelle scura di Michael e Francis, in questa storia di fantasia sicuramente descrive scenari reali: un quartiere difficile, la povertà, la discriminazione.

Le aspettative di chi è scappato dalla miseria e che spera in un futuro migliore per i propri figli, come tutti i genitori del mondo: atroce che per molti sia difficile capire un concetto così semplice e umano. 
 
Reading Challenge 2019: questo testo risponde alla Traccia di novembre "l'ultimo libro che hai aggiunto alla tua whis list"

martedì 5 novembre 2019

"Io sono leggenda", Richard Matheson


Stati Uniti, gennaio 1976. Un batterio, il bacillo vampiris, ha infettato l’umanità e adesso la Terra è popolata da vampiri che, come leggenda vuole, nelle ore diurne si nascondono per evitare l’esposizione alla luce solare e di notte vivono nelle tenebre. Alcuni di essi, quelli che si aggirano nei dintorni di una non citata cittadina californiana, hanno uno scopo ben preciso: perseguitare Robert Neville, l’ultimo uomo del pianeta.
E lui deve fare l’esatto contrario: di notte rinchiudersi nella sua villetta, che ha trasformato in un fortino, mentre di giorno può spingersi fin dove lo porta la sua giardinetta per recuperare non solo mezzi di sostentamento, ma anche libri.
Perchè lui, nonostante i lutti, la solitudine e la palese mancanza di speranze, vuole capire cosa sia davvero successo al genere umano…

Io non abbandono mai un libro iniziato. Potrei anche farlo, ma non voglio: come mi è già capitato di scrivere, caratterialmente vivrei peggio il fastidio per aver lasciato una cosa incompiuta rispetto a quello che posso provare durante la fase di lettura. E faccio bene visto che capita, e non di rado, che un libro parta “male” e poi mi prenda.

Se Matheson avesse citato il bacillo vampiris nella prima riga, come ho fatto io buttando giù questo abbozzo di trama, avrei sicuramente rimosso il libro dal mio Kindle all’istante. Perchè io i vampiri proprio non li sopporto, né quelli classici né quelli moderni. Idem la fantascienza: non so perché, ma quando ho scelto di leggere questo libro ero convinta che fosse un horror. E non avevo letto la sinossi per timore di grossi spoiler, trattandosi di un classico noto a tutti (eccetto me, che non ho visto neppure i tre film).
Di conseguenza, quando ho capito di avere a che fare con un’opera che rientra nei due generi che più disdegno (fantascienza e classici, appunto) e che associati possono solo uccidermi il piacere della lettura, avevo già superato la prima riga, non di molto, ma abbastanza da dover proseguire per principio.

E tutto sommato sono contenta di averlo fatto: non posso dire che il libro mi sia piaciuto, oltre alle storie di vampiri non sono per niente attratta dal post apocalittico e – non avendo mai avuto interesse per libri, film e serie TV a tema – non sono in grado di attribuire all’autore il merito dell’invenzione degli zombie, come mi ha spiegato mio marito (anche perché se nessuno li avesse creati non ne avrei mai sentito la mancanza ^^).
Sinceramente non ho neppure trovato il libro così profondo da spingermi a grandi riflessioni su cosa sia la normalità o su chi sia il vero nemico di Neville…

Però, come in "Io sono Helen Driscoll", ho apprezzato lo stile semplice di Matheson, mi è piaciuto il modo in cui con i flashback ricostruisce il passato del protagonista spiegando così il perchè dei vampiri, ma soprattutto mi è piaciuto il quattordicesimo capitolo, quello dove i ricordi di Robert lo portano a riflettere sul peso avuto dal fanatismo religioso e dalla disinformazione di certa stampa durante la fase di contagio. Il coinvolgimento per un singolo capitolo non riesce a rendermi soddisfatta per l'intero libro, ma è sufficiente a farmi sentire contenta per averlo letto.

Reading Challenge 2019: collegamento con la traccia musicale di novembre per la parola "sono" nel titolo




domenica 3 novembre 2019

"Poirot a Styles Court", Agatha Christie


Essex (Inghilterra), estate del 1916. E’ il 5 luglio quando un giovane colonnello, Arthur Hastings, accetta l’invito di John Cavedish a trascorrere nel maniero della sua famiglia la convalescenza dopo una ferita riportata in guerra. La matrigna di John ha ereditato dal padre di questi la bella magione dove vi risiedono diverse persone, anche estranee alla famiglia, fra cui Alfred, il secondo marito dell’anziana signora, più giovane della moglie di una ventina d’anni, malvisto da tutti, domestici e dipendenti compresi.
Sarà quindi il principale sospettato quando la moglie muore per avvelenamento nella notte fra il 16 e il 17 luglio.
Il colonnello Hastings si farà da tramite coinvolgendo nel caso un suo vecchio conoscente recentemente incontrato in zona durante una passeggiata, un ex funzionario della polizia belga, rifugiatosi in Inghilterra dopo l’invasione del Belgio da parte della Germania nel 1914: Hercule Poirot, che risolverà brillantemente “il caso Styles”.

Primo romanzo giallo scritto da Agatha Christie nel 1920 e prima apparizione di Poirot. Quarto romanzo che leggo dell’autrice e potrei limitarmi a copiare parola per parola ciò che avevo scritto dopo aver letto “Dieci piccoli indiani”: il giallo anacronistico non fa per me.

Anche questa volta non trovo difetti, lo stile è scorrevole, i personaggi sono ben delineati, la trama è ben costruita e c’è un buon colpo di scena finale.

Ma continuo a non riuscire ad appassionarmi al genere, nemmeno un poco. E il tanto amato Poirot… io proprio non lo sopporto, né sulla carta, né tanto meno sullo schermo. Più antipatico di lui trovo solo la signora Fletcher… detto tutto.

Reading Challenge 2019: questo testo è una traccia gold del mese di novembre