venerdì 31 marzo 2023

"Il silenzio di mia madre", Lauren Westwood

 

Eilean Shiel (Highlands scozzesi), dicembre di un anno non precisato. Sono trascorsi quindici anni da quando Skye Turner ha lasciato la Scozia trasferendosi negli Stati Uniti per inseguire il sogno di sfondare con le sue canzoni. Non ha avuto il successo sperato, ma la musica country le ha permesso di mantenersi, di viaggiare, di fare esperienze, di condurre una vita tutto sommato piacevole, anche se sregolata, ma che non è mai diventata ciò che sognava da ragazza. Perché tutte quelle cose avrebbe dovuto farle con Ginny, la sua gemella. Fin da adolescenti avevano programmato di partire insieme, Ginny con la sua voce meravigliosa, Skye con la sua chitarra e i suoi testi. Invece sei settimane prima della partenza Ginny era morta, spazzata via da un'onda anomala in quel mare che non aveva mai restituito il suo corpo. Avevano diciannove anni e, se anche la vita era andata avanti, per Skye e per sua madre nulla era stato più lo stesso, a cominciare dal loro rapporto, via via sempre più flebile, e non solo a causa della distanza.
Ma adesso Skye è tornata a Eilean Shiel: la madre ha chiesto di lei dopo essersi fratturata una caviglia, o almeno questo è quello che le ha detto suo fratello Bill. Verità o bugia? Ma forse ci sono bugie ben più grandi legate alla scomparsa di Ginny.

Ecco un acquisto fortunato e del tutto casuale.
Lauren Westwood, californiana da anni trapiantata in Inghilterra, ha all'attivo diversi romanzi decisamente rosa, almeno a giudicare da copertine e titoli. "Il silenzio di mia madre", scritto nel 2019, è il solo ad essere stato tradotto in italiano e credo l'unico di genere diverso. Un genere che, secondo me, non è quello della narrativa femminile come viene classificato su Amazon né l'ancor più vaga narrativa contemporanea di IBS. Perché racconta sì del rapporto complesso fra una figlia e una madre, ma la storia ruota totalmente attorno al mistero su quanto accaduto la sera della morte di Ginny e sui fatti precedenti. E' un giallo? Forse. Di sicuro non un poliziesco e neppure un thriller vero e proprio.

Sia quel che sia, è senz'altro un libro che mi ha stupita, coinvolgendomi e piacendomi più di quanto mi aspettassi leggendo la trama e guardando la copertina, così simile a tante altre da essere anonima, nonostante la bellezza richiamata dal bosco autunnale che, per altro, non c'entra nulla con la storia.

Ho letto che gli editori fruiscono spesso di immagini come queste, dove una donna è ritratta di spalle, perché la posizione rimanda a un'idea di fuga attraverso la quale vogliono trasmettere ansia nel lettore già prima che inizi a leggere il libro e anche perché non mostrare il volto della persona permette a chi legge di personalizzarne l'aspetto.
Secondo me vogliono soltanto risparmiare, anche e soprattutto sulla fantasia.

Comunque sia la storia, pur non avendo nulla di particolarmente originale (c'è una ragazza morta in circostanze misteriose, un'altra che a causa di un incidente non ricorda quanto accaduto quella notte, il piccolo paese dove tutti si conoscono e si proteggono, una madre che non ha voluto cambiare nulla all'interno della stanza della figlia che non c'è più e altre situazioni sfruttate da molti autori), è ben costruita, con colpi di scena non colossali, ma ben scanditi che rendono il ritmo incalzante. Un libro che chiama.

Anche un libro piuttosto breve: 256 pagine e io avrei anche accorciato il finale, ma l'ho letto davvero volentieri.

E un altro libro, come "Un bel quartiere", dove l'ambientazione ha un ruolo centrale. Nei ringraziamenti la Westwood parla del suo amore per la regione di Lochaber, nelle Highlands scozzesi, a cui si è ispirata per l'immaginario paesino di Eilean Shiel, mentre per il faro ha preso spunto da quello di Ardnamurchan, che non mi sembra bellissimo come altri che mi è capitato di vedere (purtroppo mai dal vivo), ma che calza perfettamente con le descrizioni del libro.

Guardandolo, però, mi lasciano ancor più perplessa le attività che la Westwood fa svolgere ai suoi personaggi: la storia si sviluppa a novembre nel passato e a dicembre nel presente e questi si fanno un bagno in mare, si infrattano sul promontorio di notte e all'aperto, festeggiano capodanno sulla spiaggia... E poi ci sono io che guardo allibita i 14° che in questo momento mi segna l'applicazione meteo sul cellulare e penso che faccia ancora un freddo boia!

Reading Challenge 2023, traccia annuale di gennaio: libri a scelta, la somma delle pagine deve dare 2023 (questo ne ha 256)


mercoledì 29 marzo 2023

"Un bel quartiere", Therese Anne Fowler

 

North Carolina, maggio di un anno con Obama presidente. Quello di Oak Knoll è un quartiere verdeggiante dove tutti si conoscono e collaborano in armonia per il mantenimento del bene comune. Valerie Alston-Holt, 48 anni, ci vive da quasi venti. Ama la sua casa, ma soprattutto ama il suo rigoglioso giardino. Docente di silvicoltura presso l'università locale ed ecologista convinta, ha sopportato per mesi i rumori provenienti dal lotto confinante con il suo quando la casa preesistente è stata abbattuta e ha pianto calde lacrime quando ha visto tagliare tutti gli alberi del giardino. Al loro posto i nuovi proprietari hanno fatto mettere delle basse siepi di bosso che non servono a nulla: non fanno ombra, non forniscono privacy, non regalano alla Terra quell'ossigeno di cui ha sempre più bisogno.

"Chi abbatte gli alberi ammazza.
Gli alberi sono vita
."

Adesso Valerie dalle finestre vede una grande casa bianca dove anche le grondaie gridano lusso. Vede una piscina. E vede un minuscolo giardino.
Invece Xavier, suo figlio, vede Juniper, la figlia dei nuovi vicini.

Quando nel giugno 2021 il libro era uscito in Italia, mi aveva colpita per la copertina (adoro quella casa blu immersa nel verde ♥), non tanto per la trama. Davvero non mi aspettavo che sarei stata travolta da questa storia, come invece è successo.

"A Good Neighborhood" (2020) è la prima opera di narrativa contemporanea della Fowler, scrittrice americana di romanzi storici. Nei ringraziamenti, che leggiamo prima del libro, racconta della sua preoccupazione di non riuscire ad esprimere al meglio il punto di vista di Valerie e Xavier Alston-Holt che, a differenza sua, sono afroamericani e di come abbia studiato per poterlo fare. Leggendo questo passaggio avevo pensato che - per quanto noi (e con "noi" intendo chiunque non si sia mai trovato a sperimentare sulla propria pelle la discriminazione, in questo caso quella razziale) si possa fare sforzo di immedesimazione - non potremo mai davvero capire cosa significhi essere giudicati per il colore della propria pelle e lo penso ancora, ma dopo aver letto il libro penso anche che la Fowler sia stata capace di trasmettere il disagio dell'essere neri negli Stai Uniti, dove l'integrazione è ancora solo parziale.

Valerie, originaria del Michigan, racconta la sua paura nel trasferirsi nel North Carolina per via della sua pelle nera. Noi bianchi non ci pensiamo, probabilmente non lo faremmo mai, ma lei, madre nera, ha dovuto mettere in guardia il proprio figlio da possibili problemi con le forze dell'ordine.

"Era alto. Era nero. Valerie gli aveva ripetuto tante di quelle volte: «Se gli fai paura ti sparano» e aveva detestato doverlo fare, aveva detestato l’idea che il progresso verso il futuro post-razziale che lei e suo marito, e altri come loro, avevano coltivato con tanto fervore stesse segnando il passo. Perché non potevamo considerarci semplicemente esseri umani e aiutarci, santo Dio? Il pianeta stava morendo, mentre la gente litigava su chi era piú americano o su chi lo era e chi no."

La straordinaria voce narrante è quella degli altri abitanti del quartiere (una scelta molto originale e piacevole) che in prima persona plurale ci raccontano lo scontro fra Valerie Alston-Holt e il suo nuovo vicino, Brad Withman, emblema del maschio bianco arricchito, privilegiato, opportunista e maschilista.

"Una donna doveva essere discreta e pretendere poco, non avere ambizioni, essere grata al marito, sostenere le ambizioni e soddisfare le necessità di lui."

Gli abitanti di Oak Knoll ci dicono subito che durante l'estate ci sarà un funerale e per arrivarci leggiamo una storia crudele e ingiusta.

"Un bel quartiere" è un libro completo che parla d'amore e di passione, non solo fra esseri umani, ma anche per la natura, per la musica, per il proprio Stato, per il proprio lavoro, per la propria casa.

E' un libro che cattura per il mistero che sappiamo ci verrà svelato.

E' un libro che intenerisce e fa arrabbiare, impietosisce e fa trepidare, accultura e svaga, intriga e indispone.

E' un libro meraviglioso che i razzisti dovrebbero essere obbligati a leggere.
Ma probabilmente a loro non piacerebbe.

Reading Challenge 2023, tracce di marzo: un libro di un autore con tre nomi e con un edificio in copertina


domenica 26 marzo 2023

"Il gioco del male", Angela Marsons

 

Black Country, marzo 2015. Sono trascorsi pochi mesi dalla risoluzione del complicato caso dell'ex istituto Crestwood e quella di Kim Stone è diventata una vera squadra. Ma adesso il sergente Bryant non condivide l'opinione della detective riguardo alla dottoressa Alexandra Thorne. Mentre lui ne è rimasto affascinato, Kim non capisce come la psicologa, nonostante il gran numero di titoli e di riconoscimenti di cui si fregia, non si sia resa conto di quello che stava per succedere: Ruth Willis, una sua paziente, ha ucciso a coltellate l'uomo che cinque anni prima l'aveva brutalmente stuprata. Alex la aveva in cura da tre mesi, cioè da quando la ragazza, non riuscendo a sopportare la scarcerazione dell'uomo per buona condotta, aveva tentato il suicidio, diventando poi un'assassina vendicatrice nell'arco di poche settimane nonostante la terapia.
E quello di Ruth sarà solo il primo caso che porterà le strade delle due donne a incrociarsi.

Nell'estate del 2019 avevo letto con piacere "Urla nel silenzio", primo e celebre episodio della serie con protagonista la detective Kim Stone. L'anno successivo il mio entusiasmo si era un po' raffreddato con la lettura de "Il primo cadavere", che non mi aveva pienamente convinta e così sono passati due anni e mezzo prima che mi decidessi a riprendere in mano la serie, ma credo che i futuri intervalli saranno più brevi e sono contenta che la Marsons si sia smentita (nel 2020 aveva affermato che la sedicesima puntata sarebbe stata l'ultima, invece è già stato pubblicato il diciassettesimo libro).

"Il gioco del male" (scritto nel 2015, titolo originale "Evil Games") - ad eccezione di una deduzione finale di Kim riguardo a una brutta storia di pedofilia che costituisce una trama secondaria parallela a quella principale - mi ha coinvolta e appassionata, come ogni thriller dovrebbe fare e come, invece, raramente succede.

La vicenda che ha come protagonista la psicologa, per quanto (fortunatamente) improbabile, non è certo impossibile e la Marsons la costruisce bene, nonostante la mente malata della donna venga svelata subito, la rivelazione non penalizza gli sviluppi successivi né diminuisce la tensione.
Il passato di Kim diventa un elemento del contrasto che si crea fra lei e la terapeuta e questa è stata un'abile mossa dell'autrice, che ripercorre quanto patito dalla Stone durante l'infanzia senza farlo pesare, mentre in casi analoghi (vedi le vicende di Kate Burkholder della mia amata Linda Castillo) l'obbligo di dover raccontare il passato al lettore occasionale diventa pesantemente ripetitivo per quelli appassionati alla serie.

Curiosamente "Il gioco del male" mi ha riportata nelle Midlands Occidentali inglesi dove era ambientato anche "La babysitter perfetta".
Neanche la Marsons fa dei luoghi una parte rilevante del libro, ma mi sono gustata le immagini di diverse bellissime cittadine, in particolare le gallesi Chester e Llangollen.

Reading Challenge 2023, traccia di marzo: libri con un edificio in copertina



venerdì 24 marzo 2023

"Nelle profondità del lago", S.K. Tremayne

 

Huckerby Farm (Dartmoor, contea del Devon, Cornovaglia). E' la sera del 30 dicembre di un anno non precisato quando la macchina di Kath Redway affonda nel bacino idrico di Burrator. La donna, 37 anni, nonostante il buio e l'acqua gelida riesce a uscire dall'auto allagata e a mettersi in salvo nuotando fino a riva. Quando si risveglia in ospedale non ricorda nulla né dell'incidente, né dei quattro giorni che lo hanno preceduto. Un'amnesia temporanea dovuta al trauma cranico che non le permette di ribattere quando le viene detto che non si è trattato di un incidente, ma di un tentato suicidio. Questo spiegherebbe il distacco di Adam, suo marito. Kath è la prima a non riuscire a perdonarsi per aver rischiato di lasciare soli lui e Lyla, la loro bimba speciale. Ma non spiega perché adesso Lyla abbia paura del padre, al punto da non volerlo più in casa. E chi è quell'uomo che la bambina dice di aver visto mentre la guardava?

Scegliere di usare come pseudonimo il cognome di una nonna porta a scrivere libri brutti? Le letture di marzo mi spingerebbero a dare risposta affermativa! A una settimana di distanza da "La metà del cuore" di Viola Shipman, alias Wade Rouse, ho portato a termine anche la faticosa lettura di questo thriller che Sean Thomas, scrittore e giornalista inglese, ha firmato con lo pseudonimo S. K. Tremayne, che è quello che usa per i suoi thriller psicologici (ne ha un altro, Tom Knox, oltre a pubblicare anche con il suo vero nome).
"Nelle profondità del lago" (titolo originale "Just Before I Died"), pubblicato nel 2018, è il terzo romanzo di Tremayne. I due successivi, scritti nel 2019 e nel 2022, non sono ancora stati tradotti in italiano e, se succederà, dovranno avere una trama e delle recensioni veramente accattivanti per riuscire a convincermi a leggerli.
Dopo aver amato
 "La gemella scomparsa", ero rimasta abbastanza delusa da "Il bambino bugiardo" e con questo terzo titolo il mio disappunto è ulteriormente aumentato. Tremayne conferma la sua eccezionale bravura nel descrivere i paesaggi, anche questa volta (come nel secondo romanzo) ha giocato in casa ambientando la storia nel Devonshire di cui è nativo. Fa abitare la coppia protagonista in un casolare di granito del Seicento sperduto nella brughiera del Dartmoor e questo gli dà modo di portare chi legge in mezzo a una natura selvaggia, dove eriche e ginestre concedono spazio solo ai menhir, a qualche ponticello medievale e ad antiche costruzioni, spesso abbandonate. E ambientando la storia, già cupa di per sé, nel cuore dell'inverno trasmette sensazioni così inquietanti che al confronto la Cornovaglia della du Maurier sembra il magico mondo dei Little Pony!
"Nel Dartmoor ci sono lepri morte ovunque. Lepri morte, pony morti, pecore morte, conigli morti... la brughiera è specializzata nelle morti. Il Dartmoor sembra a volte una Mostra della Morte aperta tutto l’anno."
A proposito di pony, non sapevo che esistesse la razza specifica del Dartmoor, mentre non mi ha stupita leggere come l'uomo anche lì si ostini a interferire con la natura, abbattendo gli incroci per preservare la razza pura e salvare la brughiera dal sovrappascolo. Io credo che la natura sarebbe ben felice di salvarsi da sola...

E' un libro che porta a fare continue ricerche su Google. Oltre a scoprire la triste storia di Kitty Jay e della sua tomba, mi ha fatto vedere splendide immagini non solo della brughiera, ma anche di cittadine balneari come Totnes, Salcombe e Brixham che, se non fossero penalizzate dal clima, farebbero una bella concorrenza al nostro mare.

Ma purtroppo la storia raccontata non è allo stesso livello dell'ambientazione: Kath è la voce narrante per gran parte del libro e il lettore, come lei, ignora quanto sia realmente accaduto. Quello che succede diventa presto ripetitivo e non va meglio nelle parti scritte in terza persona che hanno come protagonisti Adam e gli altri personaggi. Verso il finale il ritmo innegabilmente cresce, ma man mano che i fatti vengono spiegati a Kath, e quindi a noi, aumenta anche l'imbarazzo di fronte a dinamiche inverosimili che mi hanno fatto sbottare in un secco ed esasperato: ma dai!!

Reading Challenge 2023, traccia di marzo: libri di autori con tre nomi


domenica 19 marzo 2023

"Le notti senza sonno", Gian Andrea Cerone

 

Milano, venerdì 21 febbraio 2020. Il commissario Mario Mandelli - 55 anni e un amore sconfinato per sua moglie Marisa (Isa), per il suo mestiere e per la sua città - non sa che quel Covid-19, di cui tanto si parla, sta per arrivare anche in Europa, proprio in Italia, proprio in Lombardia, proprio a due passi da Milano.
Quel venerdì di febbraio Mandelli e la sua squadra hanno ben altro a cui pensare: all'alba tre addetti alla nettezza urbana hanno rinvenuto in un cassonetto una mano tranciata di netto e un bulbo oculare. L'esame autoptico rileva che appartengono a una donna caucasica sui trent'anni e che era ancora viva quando ha subito le mutilazioni. Alle difficoltà di un caso del genere, che fa subito pensare ai serial killer così comuni nelle serie tv americane (ma fortunatamente così rari nella realtà), il mattino dopo si aggiunge l'omicidio di Pierluigi Panizza, gioielliere settantaduenne appartenente all'alta borghesia milanese, picchiato a sangue e poi freddato da due malviventi nella propria casa. Nel caveau erano custoditi quasi ottantotto milioni di euro fra diamanti, gioielli e oro.
"Praticamente mi stai dicendo che dobbiamo dare la caccia a uno psicopatico che mozza le mani e strappa gli occhi alle vittime mentre un’epidemia mortale si sta diffondendo intorno a noi. Vorrei davvero conoscere lo stronzo che ha scritto questa sceneggiatura."
Simpatico il Cerone a darsi dello stronzo da solo ^^ A fine gennaio è uscito il suo secondo romanzo che ha sempre come protagonista il commissario Mandelli e la squadra investigativa dell’U­nità di Analisi del Crimine Violento di Milano: a colpirmi de "Il trattamento del silenzio" è stata la copertina e cercando altri libri dell'autore, per me sconosciuto, ho trovato "Le notti senza sonno" (pubblicato nell'aprile dello scorso anno) e ho visto che Cerone - classe 1964 e milanese d'adozione - è nato a Savona, città che mi sta tanto a cuore, quasi quanto la mia Genova. E' per il mio campanilismo, questa volta esteso alla regione, che ho inserito i suoi titoli in wish list, seppur con un paio di timori. Intanto non avevo voglia di leggere un libro che mi riportasse in piena pandemia: non è successo, la storia inizia venerdì 21 febbraio e si conclude il venerdì successivo, quindi nove giorni prima dell'inizio del lockdown e di tutto il resto. Si respira una certa ansietà, ma il Covid è ancora qualcosa di sconosciuto e vi si accenna così superficialmente da rendermi incomprensibile la scelta di sviluppare la storia proprio in quei giorni, ma forse Cerone lo ha scritto in quel periodo e non poteva ignorare quanto stava accadendo. L'altro aspetto che mi preoccupava erano le 576 pagine del libro: non sono un'amante dei tomi, libri con più di quattrocento pagine per me sono già dei libroni di tutto rispetto e raramente leggo quelli che ne hanno più di cinquecento, ma dopo questo le 592 de "Il trattamento del silenzio" non mi spaventano affatto, anzi. Perché ieri mi è dispiaciuto tantissimo aver finito "Le notti senza sonno" e, pervasa da un senso di vuoto, pensavo a come lo stato d'animo che proviamo dopo aver letto l'ultima parola dell'ultimo capitolo - dispiacere o sollievo, con tutte le possibili vie di mezzo - rappresenti al meglio il nostro giudizio, alla faccia delle stelline di Amazon! Ne "Le notti senza sonno" non c'è niente di semplice e non è un libro perfetto. Mi sembra improbabile che dei crimini così diversi finiscano alla stessa Unità e, soprattutto, alla stessa squadra. Cerone ha esagerato, ci ha messo dentro davvero di tutto e non scendo nei dettagli di quel "tutto" per il solito motivo (evitare gli spoiler), e se anche alla fine è stato bravo a spiegarlo quel "tutto" - senza perdere collegamenti, motivazioni, cronologia dei fatti, eccetera - pensando al "tutto" risulta difficile non associarlo a un'idea di mappazzone letterario... E' esageratamente descrittivo, a 576 pagine ci è arrivato anche raccontando la vita di personaggi estremamente marginali che compaiono solo in un capitolo (ad esempio i tre netturbini del tragico ritrovamento all'inizio del libro) e questo potrebbe infastidire chi, a differenza mia, non ama gli scrittori che si perdono in particolari irrilevanti. Viceversa non ho amato i tanti cliché. Quelli territoriali li sfrutta tutti: fra toscani, marchigiani, campani, sardi, laziali, ma anche senegalesi, venezuelani, serbi e russi, viene da chiedersi se a Milano viva ancora qualche milanese, oltre a Mandelli (a essere nato a Milano c'è anche mio suocero ed è stata una clamorosa coincidenza che l'11 di via Bottego, teatro di una delle scene principali del libro, si trovi a due passi dalla palazzina dove viveva da bambino, prima del trasferimento della famiglia in Riviera).
Curiosamente mancano proprio i liguri!

Ma al di là di questi difetti, che potrebbero anche generare una sonora stroncatura, per me è stata una lettura piacevole e coinvolgente. Non sono d'accordo con Guanda, questo libro non è un noir, né tantomeno un hard-boiled, come lo ha classificato Amazon. Ci ha preso IBS infilandolo nei gialli, anche se secondo me è semplicemente un poliziesco, grazie al suo protagonista (che è un bel personaggio), alle indagini, ai pedinamenti, alle sparatorie e a tutto quanto il resto.
Ed è un bel poliziesco.

"Sembra una cazzata, ma quando giri la boa dei cinquanta realizzi davvero che gli anni che hai alle spalle sono più di quelli che avrai davanti, prima manco ci pensi."

Reading Challenge 2023, traccia annuale di marzo: un libro con un detective protagonista



venerdì 17 marzo 2023

"La metà del cuore", Viola Shipman

 

Scoops, lago Lost Land (Michigan), 4 luglio 1953. E' sera e Lolly è seduta sul molo di fianco alla madre. Aspettano l'esplosione dei fuochi d'artificio: da dieci anni i Lindsey non festeggiano soltanto l'Indipendenza americana, ma anche il compleanno di Lolly. Quel giorno ne compie dieci e come ogni anno la madre le ha regalato un ciondolo d'argento per il suo bracciale. E' un cuore diviso in due, una metà per Lolly e una per lei: unendoli compare la scritta madre e figlia. La donna sa che l'anno prossimo non sarà più sul molo con la sua bambina: il cancro che la affligge le concede ancora soltanto pochi mesi di vita.
Maggio 2014. Sono anni che Arden non torna a Scoops. Era troppo imbarazzante per lei continuare a vivere in quella minuscola cittadina all'ombra dell'eccentrica madre. Non che a Chicago sia più felice: un matrimonio fallito alle spalle, la figlia Lauren ormai al college e un lavoro alla rivista "Paparazzi" che è ben lontano da suo sogno di diventare scrittrice.
Ha ragione sua figlia, un paio di settimane di vacanza in riva al lago sono quello di cui hanno bisogno entrambe e forse anche Lolly, sua madre.

E questo è il secondo dei libri brutti che ho letto contemporaneamente a "Il libro degli specchi".
Fra i due credo che il peggiore sia "La babysitter perfetta", ma solo perché è un thriller e i thriller mi piacciono, ne leggo tanti e so valutarne meglio pregi e difetti.
Invece "La metà del cuore" è finito nel calderone della narrativa contemporanea solo perché non può definirsi un romanzo rosa, non avendo per protagonista una coppia (cosa che non risparmia al lettore scemenze come 
"Oddio, speriamo che non senta il mio cuore battere attraverso la pelle"), ma incarna alla perfezione la mia idea di romanzetto di basso livello, finto e stucchevole.

Lo statunitense Wade Rouse lo ha scritto nel 2016 usando come pseudonimo il nome della nonna. Ed è al suo amore per le nonne (e per il Michigan) che ha dedicato il romanzo.

E' finito fra le mie letture perché una traccia della Reading Challenge richiedeva un libro con un personaggio nostro omonimo. Durante la lettura mi sono pentita decine di volte per non essermi buttata su una biografia della Bertè!
Visto lo scarso utilizzo che viene fatto di Loredana (non solo in letteratura, ma anche nella realtà, cosa di cui non mi capacito: per me è un nome bellissimo), ho ripiegato su Lolly: è così che vengo chiamata in famiglia e dagli amici di vecchia data. E con Lolly avevo trovato tre opzioni: "Lolly Willowes", "Alla fine di una caramella al limone" e questo. Dopo aver escluso il primo perché un classico (altro pentimento), fra gli altri due ho semplicemente scelto il meno caro.

Già dalla sinossi sapevo che il libro non mi avrebbe conquistata, ma non pensavo di ritrovarmi a leggere 319 pagine di quello che sembra uno spot perfetto per Pandora! 
Titolo originale "The Charm Bracelet", Rouse ha diviso la storia in undici parti (più prologo ed ed epilogo), ognuna dedicata a uno dei ciondoli del braccialetto che Lolly indossa fin da bambina, tradizione familiare iniziata dalla nonna Mary, proseguita dalla madre Vi, quindi da lei, che l'ha poi tramandata alla figlia e successivamente alla nipote.

I braccialetti tintinnano quasi in ogni pagina del libro e ogni ciondolo ha la sua storia, che Lolly racconta alle discendenti, partendo dal 1901 - quando a sua nonna, da poco immigrata dall'Irlanda, venne regalato quello a forma di macchina da cucire - per arrivare al presente con quello a forma di diadema, vinto da Lauren in un concorso di bellezza e prontamente ceduto alla nonna Lolly. In mezzo ci sono una mongolfiera (per una vita avventurosa), una libellula (per una vita fortunata), un fiocco di neve (per una vita con mille sfaccettature) e tanti altri.

L'autore ha reso un bel servizio al suo Michigan: Scoops, che credo sia una cittadina di fantasia, sembra essere un posticino davvero incantevole, con le sue casette da bambola, i suoi laghetti, i suoi ponticelli, i suoi parchi e i suoi fiori dai mille colori. Ancor più folkloristico è l'angolo di paradiso in cui vive Lolly, nell'ultimo chalet di una fila di sette lungo la sponda del lago dove flora e fauna sono il centro del mondo.

Invece con nonna Lolly non è stato altrettanto bravo: quello che vuole presentare è una settantunenne allegra e divertente, saggia e positiva, ottimista e fiduciosa, che non si è fatta intristire dai lutti precoci che l'hanno colpita privandola prima della madre quando era ancora bambina e poi del marito quando a essere ancora una bambina era sua figlia Arden.
Ma se non ci si lascia incantare dall'esagerazione di frasi ad effetto (come "Se ami quello che fai, non sarà mai un lavoro"), quello che rimane sono una figlia (over quaranta che si comporta come una ragazzina insicura e un po' scema) e a una nipote (che ne ha almeno diciotto, ma che sembra una bambina) che da anni non vanno a trovare Lolly facendo di lei un'anziana tristemente sola.


Reading Challenge 2023, traccia annuale di febbraio: un libro dove uno dei personaggio ha il tuo nome o soprannome (Lolly)


martedì 14 marzo 2023

"La babysitter perfetta", Sheryl Browne

 

Contea di Herefordshire (Inghilterra), marzo di un anno non precisato. Melissa e Mark Cain sono una coppia felice. Non è stato facile per loro riuscire a superare la perdita del loro primo bambino, morto appena nato otto anni prima, e la grave depressione che aveva colpito Mel dopo il tragico evento. Ma l'anno successivo era nata Poppy e adesso hanno anche Evie, di appena sei settimane. Vivono tutti insieme in un cottage di campagna, Mark è ispettore investigativo e Mel cerca di affermarsi come scultrice, cosa non facile essendo molto impegnata con le bambine e tutto il resto.
Così, quando una notte brucia il cottage di fronte al loro lasciando senza casa la ragazza che lo aveva appena acquistato, a Mel basta un'ora per trasformare l'offerta di ospitalità momentanea in un'assunzione come ragazza alla pari. Jude afferma di essere puericultrice, ma è così brava con le bambine che Mel e Mark si dimenticano di controllare diploma e referenze.
Jude è perfetta ed è stata una fortuna trovarla perché all'improvviso la famiglia Cain, che sembrava altrettanto perfetta, comincia a non esserlo più.

Ecco uno dei due libri brutti che avevo citato in fondo alla recensione de "Il libro degli specchi".

"La babysitter perfetta", che nel titolo originale è privo di aggettivo, scritto nel 2018, è (per fortuna) l'unico thriller a essere stato tradotto in italiano dei sedici scritti dall'inglese Sheryl Browne. E' quello con cui ha raggiunto il successo internazionale: mi domando come siano gli altri.

Come unico pregio avrebbe potuto avere l'ambientazione, la magia della campagna inglese con i suoi magnifici cottage: invece no, perché l'autrice non concede nessuna descrizione e non si capisce perché abbia preferito la campagna alla città, dove almeno avrebbe avuto senso piazzare una strada a luci rosse e altri dettagli che nei villaggi di campagna inglesi - così come li ho sempre visti nelle puntate de "L'ispettore Barnaby" e nelle trasmissioni immobiliari dove la gente abbandona la città per comprare idilliache casette immerse nel verde, con tetti bassi, finestre piccole e coloratissimi giardini - ci azzeccano come un abete nel deserto.

Purtroppo per i Cain (e per i lettori) la tapparella nel loro cottage non è l'unica assurdità del libro e qui mi piacerebbe elencarle tutte, cosa che non posso fare perché sarebbero tutti spoiler.

Mi limito a dire che dopo il prologo e il terzo capitolo si capisce già tutto, chi è Jude e quali sono le sue intenzioni. Non credo possa esserci cosa peggiore in un romanzo che dovrebbe fare del mistero e della suspense la sua classificazione di genere.

L'ottusità dei personaggi è direttamente proporzionale al rilievo che hanno nelle vicende, ma il vincitore è indubbiamente Mark, non fosse altro per l'aggravante del mestiere che fa (ispettore investigativo).

Le dinamiche si alternano fra l'inverosimile e il paradossale. Accadono delle cose che poi non vengono riprese, ne succedono altre che non servono allo sviluppo della vicenda e a un certo punto a Mark viene anche attribuita la capacità di riuscire a immaginare situazioni reali attraverso odori percepiti in sogno!

Il tutto viene raccontato con uno stile stucchevole e sdolcinato (
"La dolcezza dei suoi tristi occhi color cioccolato le procurò un istantaneo tuffo al cuore e dovette alzarsi subito in piedi, per non sciogliersi davanti a lui."), che sarebbe irritante in un brutto Harmony, figurarsi in un thriller dove quello che si cerca è la tensione, con espressioni da deficienti ("Hai bevuto un paio di whiskini") e ripetizioni continue di concetti e di aggettivi, con un'infarcitura di occhioni e sorrisi radiosi o raggianti che, di nuovo, penalizzerebbero anche un romanzetto rosa di bassa lega. E poi c'è un turpiloquio inaspettato, le imprecazioni sono così eccessive (le ricerche fatte sul Kindle parlano chiaro: Mark, Mel e Jude sbottano quarantasei volte dicendo "merda", trentaquattro con "cazzo", sette dando della "troia" a qualcuno, eccetera) da arrivare a infastidire anche a me che, là dove non mi devo trattenere, adotto un linguaggio piuttosto colorito.

Per ultimo una curiosità sulla sinossi italiana: praticamente racconta un altro libro!

Reading Challenge 2023, traccia di marzo: libri con il titolo scritto in maiuscolo



sabato 11 marzo 2023

"Il libro degli specchi", Eugen Ovidiu Chirovici

 

New York, gennaio 2015. Quando Peter Katz legge i primi capitoli de "Il libro degli specchi" capisce subito che il lavoro potrebbe interessare a più di una casa editrice. Come agente letterario sa bene che i cold case attraggono molti lettori e in questo caso l'autore, Richard Flynn, assicura che il suo libro chiarirà il mistero di un caso insoluto, quello di Joseph Wieder, docente a Princeton ucciso barbaramente nella notte fra il 21 e il 22 dicembre del 1987.
Richard Flynn, al tempo considerato il principale indiziato, sostiene di aver scoperto soltanto tre mesi prima la verità su quanto accaduto quella notte e di averla raccontata nel libro che adesso propone a Katz.
Ma quando l'agente lo contatta al recapito allegato alla lettera di accompagnamento scopre che l'uomo è ormai entrato nella fase terminale del cancro che di lì a pochi giorni metterà fine alla sua esistenza, senza che abbia modo di svelare dove ha messo il resto del manoscritto.
Katz, pensando che valga la pena di investire sulla vicenda, incarica il giornalista investigativo John Keller di fare qualche ricerca sulla morte del professore e questi prende contatto con Roy Freeman, il detective che aveva seguito il caso nel 1987.

E. O. Chirovici, nato in Transilvania nel 1964 e residente in Inghilterra da diversi anni, aveva già all'attivo una quindicina di polizieschi scritti in rumeno quando, nel 2017, ha pubblicato "The Book of Mirrors", la sua prima opera scritta in inglese. Non so quanto questo abbia influito sullo stile di scrittura, valido, ma piuttosto antiquato, come lo è la caratterizzazione dei personaggi, aspetto che lo penalizza, pur restando un giallo apprezzabile e anche piuttosto originale.

La storia viene raccontata attraverso un prologo, tre parti e un epilogo. Katz è la voce narrante di prologo ed epilogo, Flynn lo è della prima parte, Keller della seconda e Freeman della terza. Il particolare più curioso è che i sei capitoli della prima parte corrispondono ai primi sei de "Il libro degli specchi" che Flynn ha scritto e che propone all'agente letterario.

Ci sono naturalmente altri personaggi, non moltissimi, ma abbastanza da rendere necessario prendere qualche appunto per ricordare successivamente chi ha detto o fatto cosa (ma questo serve soprattutto a chi, come me, tende a confondersi davanti a nomi stranieri).

E' una storia che, quando alla fine si scopre quanto davvero accaduto nel 1987, risulta meno ingarbugliata di quello che sembra mentre la si legge. C'è qualche inutile tortuosità e un paio di punti avrebbero potuto essere sviluppati in modo migliore, in particolare non viene data una motivazione valida per l'interruzione delle indagini all'epoca dei fatti (la polizia sospetta di Flynn, poi succede qualcosa che distoglie l'attenzione da lui, ma quando questo qualcosa si rivela scollegato dalla morte del professore non succede altro, né riprendono in esame la posizione di Flynn né vengono seguite altre piste: non ha senso), però il ritmo è coinvolgente.

Raramente finisco un libro di più di trecento pagine in quattro giorni, ma gli altri due che sto leggendo sono così brutti che questo mi chiamava come se fosse stato un capolavoro!

Reading Challenge 2023, tracce di marzo: un libro con il titolo scritto in maiuscolo e da un autore con tre nomi

mercoledì 8 marzo 2023

"Ho fatto la spia", Joyce Carol Oates

 

South Niagara (Stato di New York), 2 novembre 1991. Lula e Jerome Kerrigan ci hanno dato dentro nello sfornare figli: Jerome Jr., Miriam, Lionel, Les, Katie, Rick e infine Violet Rue, che con i suoi 12 anni è la piccola di casa e proprio per questo la più amata dal padre, pur essendo una femmina. E Violet adora suo padre, così come venera i fratelli maggiori: un sentimento incondizionato che, unito all'età, le impedisce di vedere i loro eccessi, la loro rabbia sempre pronta a scatenarsi, magari per una birra di troppo.
Finché quel sabato qualcosa vede: Jerome Jr. e Lionel in cucina, a notte fonda, a parlottare, con le mani sporche di... ruggine? E poi in giardino, a lavare sotto alla canna dell'acqua un oggetto... una mazza da baseball?
Un comportamento inspiegabile che inizia ad assumere una logica quando il lunedì successivo la cittadina viene scossa dalla notizia della brutale aggressione avvenuta due giorni prima ai danni di Hadrien Johnson, un diciassettenne di colore benvoluto da tutti.
Il ragazzo muore dopo nove giorni di agonia senza mai riprendere conoscenza e Violet ha paura, non avrebbe dovuto spiare i fratelli e ora non sa cosa fare con quel segreto più grande di lei. Così grande che le sfugge di bocca: una frase detta per sbaglio all'insegnante, una risposta di troppo data al preside e tutto quello che ha visto raccontato alla polizia.
Adesso i Kerrigan hanno due figli assassini e una figlia che ha fatto la spia ed è da quest'ultima che prenderanno le distanze.
"My Life as a Rat", scritto nel 2019, è una delle opere più recenti della Oates, un'altra meraviglia che dimostra come l'autrice riesca a raggiungere vette altissime attraverso le vicende delle famiglie che crea, con i rapporti dei padri con i figli (con le figlie in particolare), dove ciò che viene vissuto come normale dai personaggi è in realtà profondamente sbagliato e ingiusto. "Topo" è l'appellativo usato dalla madre, dal padre e dai fratelli per riferirsi a Violet, la bambina spiona e traditrice, dopo averla allontanata definitivamente da casa.
"Violet come hai potuto! Rovinarci la vita. Non c’è posto per te a casa. E non azzardarti a piangere! Te la sei voluta tu."
Un'indignazione, la loro, che ne genera altrettanta in chi legge. Io non so quanto sarei omertosa in una situazione del genere, per fortuna mia sorella non ha mai fracassato a colpi di mazza la testa di nessuno, ma questi due genitori - che accusano la figlia (una bambina o poco più, spaventata, minacciata e aggredita) di essere la causa del problema, anziché riconoscere la responsabilità dei due figli maschi colpevoli dell'aggressione - hanno generato in me un'ira irrazionale, trattandosi di fiction. Ma é una finzione relativa, il mondo è pieno di famiglie disfunzionali e di uomini sciaguratamente capaci di riprodursi che creano con i figli un rapporto dove la paura viene confusa con il rispetto e/o generando altri rozzi individui simili a loro. Questo romanzo è saturo di discriminazione: fra marito e moglie, fra fratelli e sorelle, fra uomini e donne, fra chi ha il potere e la forza e chi li subisce. E fra chi ha la pelle bianca e chi la ha nera. La storia del libro ha in Violet l'assoluta protagonista. L'allontanamento dalla famiglia crea in lei pentimento e sensi di colpa, è troppo piccola e troppo spaventata per riuscire a capire di essere una vittima e la sua narrazione in prima persona fa di Hadrien Johnson, la vittima principale (perché è lui che muore), un personaggio di secondo piano, che ci viene fatto conoscere solo attraverso il necrologio e poco più.
Ma con la sua morte la Oates mette in luce la bieca ignoranza razzista di certi bianchi americani suscitando tanta altra rabbia.

"È solo perché sono bianchi, ragazzi bianchi.
Veniva quasi da pensare che fosse stato Hadrian Johnson ad aggredire loro."
Un romanzo bellissimo, quanto crudo e crudele, dove una piccola marmotta (e non dei genitori) riesce a far capire a una bambina quanta cattiveria c'è nel fratello maggiore:
"Violet aveva coraggiosamente indicato a Jerr la tana sbagliata."

Reading Challenge 2023, traccia annuale di gennaio: libri a scelta, la somma della pagine deve dare 2023 (questo ne ha 416)





lunedì 6 marzo 2023

"Funny girl", Nick Hornby

 

Blackpool (Lancashire, Inghilterra), luglio 1964. E' una giornata fredda e piovosa quando ai Bagni South Shore Barbara Parker viene eletta Miss Blackpool. La ragazza è sveglia e le basta poco per decidere di rinunciare a scettro e corona, rendendosi conto che quel titolo la obbligherebbe a rimanere nella cittadina natia almeno per un altro anno, presenziando a inaugurazioni di negozi o sponsorizzando attività locali, mentre il suo sogno è rappresentato da Londra, con tutto quello che solo la capitale può offrire a chi, come lei, aspira a una carriera nel mondo dello spettacolo.
E' giovane e rispecchia il canone di bellezza di quegli anni, con i suoi capelli biondi, il fisico formoso e il seno prosperoso, ma non vuole avere successo per la sua bellezza, non gli interessa essere amata per le sue curve: lei la gente vuole farla ridere.

Due anni dopo aver letto contemporaneamente "Febbre a 90°" e "Alta fedeltà", sono finalmente tornata su Nick Hornby. Scritto nel 2014, quindi ventidue e diciannove anni dopo rispetto agli altri due, in "Funny Girl" ho ritrovato tutto il brio dell'autore, davvero non sembra che sia trascorso l'intervallo di (quasi) una generazione.

Dopo il calcio e la musica, Hornby fa della televisione di intrattenimento il tema portante della storia, ma questa volta vengono toccati argomenti rilevanti e qui sì che emerge la maturità di chi scrive.

E' bravissimo a ricreare l'atmosfera degli anni Sessanta, attraverso descrizioni legate alla moda e al design dell'epoca, ma anche facendo immergere chi legge nel modo di parlare, di pensare e di comportarsi che avevano le persone di allora, con tutte le diversificazioni dovute a sesso, ceto sociale, titolo di studio, professione ed età.

Pur limitandosi spesso a situazioni solamente accennate, fa ben capire come l'emancipazione femminile fosse ancora qualcosa per cui dover lottare.

Barbara Parker, che sullo schermo assumerà il nome d'arte di Sophie Straw, è l'indiscussa protagonista del libro, la trama si sviluppa attorno a lei e ne segue la sua crescita professionale dal '64 al '68, ma l'anno di pubblicazione - quel 2014 che ha visto la legalizzazione in Inghilterra, Galles e Scozia dei matrimoni fra persone dello stesso sesso - mi fa pensare che Hornby abbia scritto il libro soprattutto per raccontare attraverso i personaggi di Bill e Tony - entrambi gay, il primo dichiarato, il secondo che non riesce a essere sincero neppure con sé stesso, sposandosi e riproducendosi - 
quanto fosse difficile vivere la propria omosessualità quando ancora veniva considerata una menomazione di cui si poteva essere affetti, oltre a costituire un reato vero e proprio per il quale si finiva in galera.

Sono citati svariati personaggi televisivi, radiofonici, teatrali britannici dell'epoca, pochi dei quali (come al solito) a me noti, ma che senza dubbio devono essere piacevolissimi da ritrovare per amanti o nostalgici di quella Swinging London, di cui mi sono dovuta far spiegare il significato da mio marito.

Il difetto del libro è quello di essere esageratamente lungo (384 pagine) per quello che racconta: dopo un inizio brillante, alcune parti vengono trascinate con un po' di stanchezza perdendo quella freschezza di cui Hornby dà una spiegazione perfetta:

"E' una qualità che per definizione non può resistere"

Un centinaio di pagine in meno e il romanzo sarebbe risultato fresco dall'inizio alla fine.

Reading Challenge 2023, traccia annuale di febbraio: un libro ambientato nel tuo decennio di nascita (sono nata nel 1969)

sabato 4 marzo 2023

"Vinto, visto, vissuto", Marco Benvenuto

 

La traccia annuale di febbraio della Reading Challenge si chiama My Self e prevede la lettura di cinque libri corrispondenti a cinque diverse categorie. Una di queste è: un libro con in copertina il tuo colore preferito. Il mio è assolutamente il blu.

E poi c'è il blucerchiato...

Il vocabolario Treccani fornisce questa definizione: s. m. (f. –a) [comp. di blu e cerchiato]. – Nelle cronache sportive, giocatore della squadra di calcio Sampdoria, di Genova, in quanto indossa una maglia azzurra cinta orizzontalmente da una fascia a quattro strisce (in successione, bianca, rossa, nera e bianca). Per estens., anche i sostenitori della squadra della Sampdoria. In funzione di agg.: maglia, vittoria blucerchiata.

L'U.C. Sampdoria nasce nell'agosto del 1946 dalla fusione di altre due squadre genovesi, la Sampierdarenese e l'Andrea Doria, e anche la maglia (che è la più bella del mondo e questo non lo diciamo noi, è il risultato di sondaggi internazionali) è il frutto di quella unione.

Il 10 marzo 2019, in occasione del 120° anniversario di fondazione della Sampierdarenese, la  Samp giocò contro l'Atalanta indossando quella che era la maglia della squadra del mio quartiere.


E il 6 dicembre 2020 durante Samp-Milan toccò ai 120 anni dell'Andrea Doria.


(In entrambe le occasioni le maglie indossate dai giocatori vennero successivamente vendute in aste di beneficenza.)

In questo momento siamo all'ultimo posto nella classifica della serie A, con appena 11 punti all'attivo, che sono pochi come le speranze di poterci salvare (anche se io sono una di quelli che ci crederà fino alla fine). La retrocessione sarebbe anche il male minore a confronto con lo spettro del fallimento. Una situazione che ha come responsabili Massimo Ferrero e chi gli ha regalato la squadra il 12 giugno 2014: Edoardo Garrone.

Una scelta dettata dal risentimento e frutto di una superba ignoranza, l'ennesimo esempio che intelligenza, capacità e dignità non si ereditano dal proprio padre come succede con soldi e cognome.

Da quando la mia Samp ha vinto il suo unico scudetto sono passati 32 anni. Un'enormità.
Ma un'inezia a confronto dei 99 trascorsi dall'ultimo vinto dai bicolori.


Il vinto, visto, vissuto -  che non dà solo il titolo a questo libro, ma che dal 19 maggio 1991 è un nostro motto, riportato su bandiere, striscioni, tatuaggi, adesivi, magliette, muri e altro - era nato proprio per sottolineare questo abisso, perché noi non solo lo scudetto lo abbiamo vinto (ed era un campionato a 18 squadre, non a 4!), ma lo abbiamo anche visto e vissuto, mentre già nel '91 ben pochi genoani potevano replicare "anch'io" riferendosi all'ultima loro vittoria risalente al 1924!


Questo librino (95 pagine) raccoglie il ricordo di quel giorno di maggio di quasi duecento tifosi, alcuni noti perché esponenti del tifo organizzato (Ultrà e non) o perché giornalisti locali, ma anche di tanti tifosi comuni, immagino amici dell'autore (diversi anche miei).

C'è chi ha limitato il ricordo a cinque parole ("Un anno di gioia sfrenata") e chi ha iniziato il suo racconto dalla prima partita della Samp vista quando aveva sei anni, nel '67. C'è chi quel giorno era solo un bambino e purtroppo non ci sono tante persone che avrebbero avuto ben più cose da dire, ma che oggi non ci sono più. 

C'è chi (tanti) ricordano Genova rivestita di blucerchiato ("Non era mai stata così bella"), i cortei, i festeggiamenti, gli abbracci, le sbornie. La mia Sampierdarena viene citata più e più volte e non poteva essere altrimenti, ogni palazzo, ogni monumento era blucerchiato. A ogni angolo che svoltavi ti sembrava di essere in mezzo alla gradinata Sud!


C'è chi, la maggior parte, lega lo scudetto non al 19 maggio (Samp-Lecce 3-0 e vittoria matematica), ma a due domeniche prima, quando il 5 maggio battemmo l'Inter (la diretta concorrente) per 2-0 a San Siro. Il momento preciso in cui capimmo che lo scudetto era nostro fu quello in cui Gianluca Pagliuca parò il rigore a Matthaus.


C'è chi il 19 maggio ha pensato a chi gli aveva trasmesso la fede calcistica (generalmente il proprio padre), ma che era morto prima di riuscire a vivere quella felicità. E' quello che è successo al mio prozio Livio, fratello di mia nonna materna, tifosissimo della Sampierdarenese prima e della Sampdoria dopo e morto tre mesi prima dello scudetto, un'assurda beffa del destino che mi fa venire il magone ogni volta che ci penso.

C'è chi, come Marco Ferrera, lega (giustamente) il ricordo della scudetto a Paolo Mantovani "che vinse contro tutto e contro tutti il tricolore più bello e più genuino degli ultimi trent'anni" (io direi di sempre).


Ci sono (e questo è il difetto del libro, insieme a quello di avere al suo interno solo foto in bianco e nero) un po' troppi tifosi "da poco", persone che quel 5 maggio a Milano hanno seguito per la prima (e forse unica) volta la Samp in trasferta, tanti non abbonati alle partite casalinghe, tanti che dopo la partita contro il Lecce sono corsi a casa per vedere "90° minuto"...

Io non me lo ricordo nemmeno a che ora sono tornata a casa quella notte! I miei (non) ricordi sono simili a quelli di Enzo Tirotta, storico capo degli Ultras Tito Cucchiaroni: "Buio totale. Venivamo da una settimana indimenticabile passata a mettere in piedi sempre nuove iniziative, a preparare bandiere e nuove coreografie per la grande festa che ci sarebbe stata. Arrivammo alla mattina della partita contro il Lecce cotti, ma motivatissimi. Alle nove del mattino eravamo già dentro allo stadio".


E io con lui, come lui. Quel giorno di maggio avevo 21 anni e mezzo. Noi nati negli anni Sessanta siamo stati i più fortunati, la nostra gioventù ha coinciso con gli anni della Samp d'Oro. Non eravamo bambini che festeggiavano la gioia riflessa dei genitori. Non eravamo ragazzini, che avevano ben chiara l'enormità di quello che stava succedendo, ma che non avevano la liberà di svincolarsi dal controllo dei genitori. Non eravamo ancora adulti, con le responsabilità e gli impedimenti che comporta l'essere genitori. E non eravamo over, con i limiti dati dall'età.
Eravamo ragazzi, già con qualche soldo per pagarci trasferte e altro, senza dover chiedere il permesso per seguire la Samp ovunque giocasse o per passare le serate nei club a preparare bandiere e striscioni o per festeggiare lo scudetto per tutta la notte. Per tutta l'estate. Per tutta la vita.

Ma oggi ricordando quel 19 maggio 1991 il pensiero va a chi ci ha lasciato lo scorso 6 gennaio, ma che continua a guardarci da "ogni angolo della città".


Ciao Gianluca, noi ti amiamo e ti adoriamo
Sempre con noi

Reading Challenge 2023, traccia annuale di febbraio: un libro con in copertina il tuo colore preferito, blu(cerchiato)

mercoledì 1 marzo 2023

Reading Challenge: le tracce di marzo

  


TRACCE DA COLLEGARE

A - Uno o più libri con il titolo scritto in  maiuscolo
B - Uno o più libri di autori con tre nomi
C - Uno o più libri con un edificio in copertina

A:
  • La babysitter perfetta, Sheryl Browne (3 punti)
A+B:
  • Il libro degli specchi, Eugen Ovidiu Chirovici (3 punti)
B:
  • Nelle profondità del lago. S. K. Tremayne (3 punti)
B+C:
  • Un bel quartiere, Therese Anne Fowler (3 punti)
C:
  • Il gioco del male, Angela Marsons (3 punti)


I miei punti di marzo = 15



   TRACCE STAGIONALI

Primavera:
  • Un libro dove c'è un giardiniere
  • Un libro dove c'è un fiorista
  • Un libro dove c'è un pasticciere
  • Un libro dove c'è un dottore


TRACCE ANNUALI

01. Libri a scelta, la somma delle pagine deve dare 2023
  • Breve storia della vita privata, Bill Bryson 
  • Mrs March. La moglie dello scrittore, Virginia Feito 
  • Non lasciarmi sola, Nancy Tucker
  • Ho fatto la spia, Joyce Carol Oates 
  • Il silenzio di mia madre, Lauren Westwood 

02. 
My Self: cinque libri, uno per ogni categoria
  • Un libro ambientato nel tuo decennio di nascita
    Funny girl, Nick Hornby
  • Un libro ambientato nella tua regione
  • Un libro con in copertina il tuo colore preferito: blu(cerchiato)
    Vinto Visto Vissuto, Marco Benvenuto 
  • Un libro dove uno dei personaggi ha il tuo nome o soprannome
    La metà del cuore, Viola Shipman 
  • Un libro che dedichi a una persona che ami

03. Arcobaleno Mini: cinque libri, uno per ogni categoria
  • Giallo: un libro con un detective protagonista (anche dilettante)
    Le notti senza sonno, Gian Andrea Cerone 
  • Rosa: un romanzo rosa
  • Verde: un libro d'avventura
  • Blu: un libro su favole o miti
  • Nero: un horror