venerdì 15 marzo 2024

"I ricchi", Joyce Carol Oates

 

Fernwood (Stati Uniti), gennaio 1960. Un auto parcheggia davanti a una villa. E' una Cadillac gialla, lussuosa e chiassosa come i suoi proprietari, gli Everett, che stanno per visitare... la nona? L'undicesima? Forse la quattordicesima casa in appena due giorni. Richard, 10 anni, ha perso il conto.
La madre - la bellissima Natashya, che vorrebbe essere chiamata Nadia dal figlio, nome che lui da piccolo non riusciva a pronunciare trasformandolo definitivamente nel più semplice Nada - ha trent'anni, è una scrittrice di nicchia e ha respinto tutte le precedenti proposte dell'agente immobiliare.
Il padre, Elwood, è un dirigente d'azienda ricco di famiglia, quel genere di ricchezza che dà l'illusione di comprare anche i sentimenti della propria moglie.
Ma non la sua fedeltà.

Scritto nel 1968, è il terzo romanzo dell'autrice e il secondo (di quattro) di quella che viene definita "la grande epopea americana", di cui l'anno scorso avevo letto il primo titolo, "Il giardino delle delizie".

"I ricchi" mi respingeva a causa della donna impellicciata in copertina. Per altro avrebbero potuto fare lo sforzo di cercare l'immagine di una donna dai "capelli molto scuri, quasi neri" come quelli di Natashya...

Se questo è un dettaglio per odiosi precisini come me, ben peggiore è l'aver scritto nella sinossi "l'America che (la Oates) ha già raccontato in Una famiglia americana", come se quel romanzo fosse precedente a questo, mentre è vero il contrario. Non solo: va considerato anche che fra le due opere passano ben 28 anni e che il primo è stato scritto da una autrice trentenne semi esordiente, il secondo da una quasi sessantenne che aveva già pubblicato ventiquattro romanzi e innumerevoli altri titoli fra saggi, racconti, poesie e opere teatrali, con premi e onorificenze varie.
Non si può definire "I ricchi" un'opera acerba, perché anche qui la scrittura della Oates raggiunge un livello a cui la maggior parte dei suoi colleghi non arriva neppure a fine carriera, ma qualche differenza c'è.

"Ero un assassino bambino"

La voce narrante è quella del piccolo Richard, ormai cresciuto, ed è così che inizia il romanzo, un monologo in cui si rivolge spesso ai lettori.

"Leggere della mia sofferenza farà bene alle vostre anime. Vorrete sapere quando ebbe luogo il mio crimine, e dove."

Una promessa che crea grandi aspettative, ma che nel corso della lettura viene quasi dimenticata mentre ci si abbandona ai ricordi e alle ricostruzioni di Richard, di quando era piccolo fino ai suoi undici anni, cresciuto patendo la carenza di considerazione da parte di un padre che sembra essere interessato solo a ciò che può comprare ("I suoi vestiti erano costosi perché non aveva idea che fossero disponibili vestiti più economici") e di una madre che prende le distanze da lui ("Ma, mamma" dissi. "Per favore, non chiamarmi così" disse lei), in quel sobborgo dove tutto è ricco, i vicini, gli amici, la scuola.

"Fu una lunga, meravigliosa passeggiata. Ah, la primavera a Fernwood! Tutto, tutto è meraviglioso a Fernwood! Raccontarvi dei pendii erbosi, delle file di sempreverdi (piantati in piena crescita), del verde di giardini e cortili, dei vialetti ovali; raccontarvi dei sontuosi piaceri delle loro case squadrate, degli stagni per i pesci, delle cameriere di colore visibili attraverso le finestre, occupate a lavare vetri già perfettamente puliti; raccontarvi di queste cose sarebbe come scrivere un altro Paradiso, ma, come ben sapete, noi scrittori siamo più preparati a parlare dell’Inferno e del Purgatorio. Di fronte alle rare meraviglie dell’America ricca uno scrittore può fare ben poco: le sue «critiche» sono solo frutto dell’invidia, lo sanno tutti."

Richard, un bambino invisibile per occhi ricchi e superficiali, genitori e non solo, persone per le quali il bisogno di apparire assume un'importanza spropositata, che scavalca tutto, anche il buon senso. E, aneddoto dopo aneddoto (dove c'è spazio per citare anche la mia Riviera Ligure), ci porta a dare un senso alla frase di apertura.

E lì il romanzo raggiunge il massimo livello della sua drammaticità e della sua beltà.

Reading Challenge 2024, traccia di marzo: libri con protagonista ricca/o

martedì 12 marzo 2024

"Amabili resti", Alice Sebold

 

Norristown (Pennsylvania), 6 dicembre 1973. Susie Salmon ha 14 anni e per tornare a casa da scuola ha scelto di tagliare per il campo di granoturco. E' lì che incrocia il signor Harvey, il vicino strambo che abita nella casa verde. Ed è per curiosità, ma anche per educazione, che accetta di entrare con lui nel nascondiglio che ha costruito nel campo: vuole proprio vedere come ha fatto a scavare una tana a dimensione umana senza far crollare la terra attorno. Non sa ancora che George Harvey è un serial killer e che lei sarà la sua prossima vittima.
Lo scoprirà quando, dopo la morte, salirà nel suo Cielo. Da lassù vedrà tutto quello che succede sulla Terra, alla sua famiglia, al suo cane, al ragazzino a cui aveva appena dato il suo primo bacio, ai suoi amici e al suo assassino.
E ci racconterà tutto.

Alice Sebold, nata in Winsconsin nel 1963, ha all'attivo soltanto tre romanzi. Nel 2019 avevo letto il primo, "Lucky", l'autobiografia in cui racconta lo stupro subito quando aveva 18 anni. Quindi avevo subito comprato, "Amabili resti", certa che lo avrei letto in tempi brevi, e invece sono trascorsi quasi cinque anni: è senza dubbio il libro che ho preso più spesso in considerazione collegandolo a una delle tracce della Challenge finendo ogni volta per preferirgli un altro titolo.

La storia che racconta è famosissima e, immaginandolo carico di una tristezza indicibile, l'ho evitato più o meno consapevolmente.
E triste lo è, ma in maniera diversa da quello che mi aspettavo. Susie racconta la sua uccisione con un certo distacco e il suo ritrovarsi in un'altra dimensione, potendo usufruire di una certa continuità, rende la morte un passaggio, non l'evento definitivo che invece è.

"Ghost" è uno dei miei film preferiti e ho guardato tutte le stagioni di "Ghost Whisperer", ma - come mio marito si è visto "The Walking Dead" senza arrivare a credere all'esistenza degli zombie - la tematica dei fantasmi non ha mai fatto vacillare la mia convinzione che dopo la morte non ci sia assolutamente nulla.

Anche per questo trovo ridicola la frase con cui E/O ha chiuso la sinossi: "E Susie aiuterà tutti, i lettori per primi, a riconciliarsi con il dolore del mondo". Ma non scherziamo. Non riescono a essere convincenti credenze millenarie, figurarsi la favoletta inventata per un libro, dove ogni defunto fluttua in un suo personalissimo Cielo in cui basta desiderare una cosa per ottenerla, senza perdere di vista le persone amate o chiunque si voglia osservare.

Di religioso la Sebold si è limitata a piazzare una (evitabilissima) statua di San Francesco all'ingresso di questo aldilà, ma il suo Cielo ha troppi punti in comune con quel Paradiso a cui non credo.

Il meccanismo narrativo è comunque particolare e accattivante. Mi aspettavo, e avrei voluto, una maggiore rilevanza della vicenda criminale vera e propria, ma questo è un libro di narrativa, non un giallo, che punta sui legami ed è nella figura del padre che si concentra la grande sofferenza della storia, mentre il personaggio della madre di Susie ha molti punti in comune con quella dell'autrice, da lei descritta in "Lucky" e c'è ben poco di positivo nelle due donne.

In definitiva, dopo averlo tenuto a distanza per tanti anni, il libro ha deluso le mie aspettative perché non mi ha fatta stare male come temevo.
Ma soprattutto per le esagerazioni dei capitoli finali.


In "Ghost" la Goldberg riesce a far ridere espellendo dal suo corpo l'anima di un defunto durante l'affollata seduta spiritica ed è potente quando permette a Swayze di impossessarsi di lei per fargli riabbracciare la Moore, ma Susie che prende in prestito il corpo di Ruth è un eccesso che forse un animo romantico può apprezzare, mentre ai miei occhi rappresenta un finale macchiettistico per un libro che avrebbe meritato una conclusione più profonda e concreta.

Reading Challenge 2024, traccia stagionale crucipuzzle, inverno: pinguino nel testo

venerdì 8 marzo 2024

"La signora in tweed", Charles Exbrayat

 

Londra, anni Cinquanta. Imogene McCarthery - prossima ai cinquant'anni, un metro e settantotto centimetri di altezza, muscolosa come tanti uomini possono solo sognare di essere, soprannominata red bull dalle colleghe (non è chiaro se per la chioma rosso fuoco o se per il suo caratterino ancora più incandescente) - da vent'anni lavora come dattilografa negli uffici dell'Ammiragliato. Da altrettanti anni, proprio a causa del lavoro, ha dovuto lasciare le Highlands e trasferirsi a Londra, sopportando la convivenza con gli inglesi.
Cosa non facile "
dal momento che per miss McCarthery si iniziava a essere stranieri a partire da Glasgow".
Ma adesso deve tornare a casa, non per una vacanza, ma per lavoro: sir David Woolish, direttore dell'Ammiragliato, nonché capo dell'Intelligence Department, l'ha arruolata affidandole il delicato incarico di portare dei documenti segreti a un funzionario governativo momentaneamente alloggiato proprio a Callender, perla della contea di Perth e cittadina natia di Miss McCarthery, che parte immediatamente prendendo la sua missione molto (molto) sul serio, certa di sbaragliare il nemico come fece Robert Bruce con gli inglesi il 24 giugno 1314 a Bannockburn!

Curioso che un personaggio come Imogene McCarthery sia venuto in mente a un francese. Charles Exbrayat, nato e morto a Saint-Etienne (1906 - 1989), ha scritto moltissimi romanzi. Questo - il primo a essere stato tradotto in italiano - è anche il primo di sette della serie che ha come protagonista questa indomita scozzese: sebbene la storia sia ben lontana dal XIII secolo e non sfiori nessuna battaglia, è quasi impossibile leggerne le imprese senza pensare a William Wallace.

Se a distanza di quasi trent'anni dall'uscita "Braveheart" continua a essere il mio film preferito, "La signora in tweed" non si avvicina neppure alla lista dei libri più amati, ma è stata ugualmente una letturina piacevole e divertente, che mi lascia la speranza di veder tradotti anche i successivi sei titoli della serie.

Avevo letto di un paragone fra Exbrayat e Paul Gallico ed effettivamente delle similitudini nei loro lavori ci sono: due protagoniste atipiche che si mettono in moto per portare a compimento una missione, con tenacia e cipiglio. 
E' probabile che il francese per il suo libro (pubblicato nel 1959, quindi un anno dopo rispetto a "La signora Harris") abbia preso spunto dall'idea del collega americano, ma Imogene McCarthery e Ada Harris sono particolari in modo diverso, come sono diverse le avventure che si trovano a vivere.

"La signora in tweed" ha una partenza folgorante, un primo capitolo eccezionale e un secondo molto piacevole, dove vengono raccontati passato e presente della vita di Imogene e descritto il suo temperamento, reso particolare dal fervente amore per la Scozia, attaccamento tramandatole dal defunto padre, che genera durante le 192 pagine, ma soprattutto all'inizio, situazioni esilaranti, in particolare per gli 
attacchi ai Windsor, usurpatori dei Tudor.

Chissà cosa direbbe Imogene sapendo che gli storici negli ultimi anni hanno stabilito una connessione fra i Windsor  e i Tudor: Elisabetta II, infatti, sarebbe stata una discendente di Margherita di Scozia, sorella di Enrico VIII e nonna di Maria Stuarda, regina di Scozia, davanti alla cui statua conservata nell'abbazia di Westminster Imogene si inginocchia chiedendo "
la pazienza e il coraggio necessari per vivere un giorno in più tra gli inglesi".

Dal terzo capitolo la storia ha perso parte della sua attrattiva, ma questo a causa della mia personale avversione verso spionaggio e inseguimenti: "La signora in tweed" è e resta un romanzo divertente, ma se Imogene parte dicendosi "pronta a morire per la Corona!", in realtà è lei quella che finisce per mietere cadaveri in un incessante susseguirsi di equivoci e situazioni strampalate.

Ed ecco la piccola Callander, meno di tremila abitanti, comunemente considerata la porta di accesso alle Highlands:


Reading Challenge 2024, traccia stagionale crucipuzzle, inverno: freddo nel testo

martedì 5 marzo 2024

"Omicidio fuori stagione", Arwin J. Seaman

 

Isola (immaginaria) di Liten (Svezia), 1° febbraio di un anno recente. Henning Olsson, ispettore della Scientifica di Malmö, non può tirarsi indietro, deve tornare a Liten: il cadavere di una ragazzina di 16 anni, Erika Lundström, è stato recuperato fra le acque ghiacciate del lago Okänd, con le mani e i piedi legati in modo tale da obbligare il corpo ad assumere una posizione a stella. Serve qualcuno capace di raccogliere le prove, per lo meno quelle che possono essere rimaste dopo che i membri del numeroso clan degli Andersson hanno tirato Erika fuori dal lago senza curarsi di comprometterle.
Così Henning sbarca a Liten dopo quattro anni, l'intervallo di tempo trascorso dalla fine della sua relazione con Annelie Lindahl, una rottura mai superata e causata proprio dall'isola e dalla decisione di Annelie di lasciare la polizia di Malmö per diventare un agente di Liten.

La fascetta gialla che abbraccia il libro recita "Il primo giallo nordico di un grande scrittore italiano in incognito".
Non sono in grado di fare confronti perché non amo particolarmente la letteratura scandinava, la trovo cupa e pesante, ma basandomi sui pochi libri letti (non solo gialli) direi che l'imitazione è riuscita, proprio grazie alle atmosfere tetre e ai personaggi chiusi e poco loquaci. L'ambientazione mi ha ricordato (non solo per via del lago) "La ragazza del lago" di Karin Fossum, ma anche "La ragazza nella nebbia" di Donato Carrisi.

Ci si potrebbe chiedere che bisogno ci fosse di far scrivere a un italiano un libro in stile nordeuropeo (se serviva gente cupa e diffidente sarebbe bastato ambientarlo qui in Liguria, almeno il clima sarebbe stato migliore ^^), ma la risposta è palese, una pura operazione di marketing che tutto sommato non fa male a nessuno e che deve aver venduto bene visto che a breve uscirà il secondo romanzo della serie, "Un giorno di calma apparente".

Una seconda puntata che leggerò molto volentieri: "Omicidio fuori stagione" non lo ricorderò come un libro particolarmente amato, ma - tolta la difficoltà che ho avuto nel ricordare i nomi dei personaggi e dei posti, più una brutta partenza a causa di un "carinissima" usato per definire l'isola di Liten (superlativo che già non sopporto in bocca alla mia amica Chiara, che da un pezzo ha superato i 12 anni, figurarsi trovarmelo dopo aver letto appena l'1,3% di un libro!!) - è stata una lettura coinvolgente con un finale inaspettato.

Quello che manca è una spiegazione del perché Annelie - brillante giovane agente - quattro anni prima abbia scelto di lasciare il lavoro in città per la piccola realtà dell'isola, precludendosi di fatto la possibilità di lavorare a casi interessanti e di far carriera. La storia avrebbe retto benissimo senza tutto il siparietto secondario della relazione naufragata fra lei e l'ispettore, ma immagino che questo progetto sia stato preventivamente ben studiato a tavolino e che la trama orizzontale - più ancora delle singole vicende gialle - sia già ben delineata nella mente dell'autore e del suo editore.

Certo aver scelto di ambientare una serie su un'isola così piccola è un bell'azzardo, non amo i luoghi stile Clerville di Diabolik, posti minuscoli in cui fanno inverosimilmente succedere di tutto, e a "Seaman" è stato sufficiente un libro per parlarci di ogni abitante di Liten!

Isola immaginaria che hanno posto fra la Svezia e la Danimarca, collegandola a Malmö dal traghetto: particolare che mi ha fatto rivivere la traghettata andata e ritorno fatta quando nel settembre 1989 andai in treno fino a Bergen per vedere la mia Samp impegnata in Coppa delle Coppe, 2-0 per noi con gol di Vialli e Mancini.
Ricordi lontani, ma l'importante è averli vissuti.

Reading Challenge 2024, traccia stagionale crucipuzzle, inverno: stivali nel testo

domenica 3 marzo 2024

"Nella tana", Michaela Kastel

 

"Lo chiamiamo Varco del Sole, il buco nero tra le rupi nel quale ci getta papà quando non facciamo i bravi"

Sankt Nikola an der Donau (Alta Austria), autunno di un anno non precisato. La detective Sarah Wiesinger ha finalmente una traccia: un berretto rosso da bambina abbandonato lungo le rotaie che attraversano quel "buco sperduto", poco più di ottocento abitanti, circondato da boschi che sembrano non finire mai. Il test del DNA su un capello rimasto impigliato nella lana conferma che Lola - 12 anni, rapita dieci giorni prima - lo ha indossato. E' soltanto l'ultima bambina scomparsa nella zona, ma adesso è Sarah a occuparsi del caso e vuole trovarla a ogni costo, non sapendo che la piccola ha già sperimentato il Varco del Sole, una fossa profonda cinque metri che finisce in uno spazio freddo e buio. Il castigo che l'uomo usa per piegare i bambini alla sua volontà.
Pochi sono sopravvissuti, fra questi Ronja e Jannik, ma quanto c'è ancora di sano in loro dopo aver vissuto per più di dieci anni con quell'uomo?

Scritto nel 2018, titolo originale "So dunkel der Wald" (La foresta è così buia), "Nella tana" (vincitore del premio Viktor Crime Award nell'anno di pubblicazione) è il terzo romanzo dei dieci scritti da Michaela Kastel, viennese classe 1987, l'unico a essere stato tradotto in italiano.

Il posto che l'autrice definisce "buco sperduto" si trova a sessanta chilometri scarsi da Linz e sorge sulle sponde del Danubio (un fiume che sento un po' mio avendolo incrociato diverse volte negli anni delle mie vacanze tedesche) ed è questo:


Per quanto non baratterei mai il mio mare con i boschi, non mi sembra affatto male, ma di certo la storia che la Kastel vi ha ambientato priva di ogni beltà quelle distese di alberi trasformandole in trappole cupe e insormontabili.

"Sarah detesta i boschi. Sono sempre umidi e bui, e al loro interno spariscono troppi bambini"

Il romanzo, piuttosto breve (235 pagine), trasmette fin dal primo capitolo ansia, angoscia, oppressione.

"Qui la sofferenza altrui è l'unica gioia che ti rimane"

Nella maggior parte dei capitoli è Ronja la voce narrante, mentre quelli che riguardano Sarah sono scritti in terza persona. Una sproporzione che penalizza il libro perché nei boschi succedono cose brutte, ma anche ripetitive. Avrei preferito l'inverso, una maggiore attenzione, e quindi più capitoli, dedicati all'investigazione, ma allora sarebbe stato un altro libro, mentre è chiara la volontà della Kastel di dare voce alle vittime.
Vittime che sono tali da così tanto tempo da non riuscire a concepire un'esistenza diversa da quella cui sono abituati.

"Una libertà infinita in una gigantesca gabbia vuota"

Questa è la parte difficile della storia: riuscire ad accettare comportamenti e scelte che noi non prenderemmo mai in considerazione, fino a rendersi conto che questo è un thriller veramente psicologico, che mette in atto meccanismi della psiche difficili da capire e facili da condannare senza avere competenze specifiche in materia di abusi.

Ci sono poi alcune parti scritte in corsivo tratte dal diario di "qualcuno": di chi si tratta lo si capisce avanzando con la lettura e sono loro a fornire il colpo di scena principale del libro.

Reading Challenge 2024, traccia vagabonda marzo: Austria

venerdì 1 marzo 2024

Reading Challenge: le tracce di marzo

   

TRACCE MENSILI

Libere:
  • libri a sorte fra quelli che aspettano di essere letti
  • libri LGBTQ+
  • libri con protagonista ricca/o
    I ricchi, Joyce Carol Oates (3 punti)

Traccia gioco di società: L'allegro chirurgo, libri dove il protagonista è un medico o una persona malata


Traccia vagabonda:
  • Austria: Nella tana, Michaela Kastel (2 punti)


Traccia stagionale crucipuzzle, inverno:
  • Omicidio fuori stagione, Arwin J. Seaman (3 punti)
  • La signora in tweed, Charles Exbrayat (2 punti)
  • Amabili resti, Alice Sebold (3 punti)

I miei punti di marzo: 13


mercoledì 28 febbraio 2024

"La curiosa vicenda dei gemelli Bonino. Ovvero, quando non è tutto oro quel che luccica", Renzo Bistolfi

 

Sestri Ponente (Genova), 3 giugno 1950. Paolo Bonino compie 25 anni e li festeggia con la madre. Vive ancora con lei, nel bell'appartamento che si trova proprio di fianco al lussuoso negozio di famiglia. Ne hanno fatta di strada, i Bonino: dal bisnonno analfabeta, che faceva il materassaio ambulante, al nonno e al padre di Paolo, che avevano prosperato grazie all'importazione di stoffe inglesi, e infine a lui, che dopo la morte del padre aveva ampliato il commercio avviando un laboratorio di cappelli.
C'era un'unica macchia sulla famiglia Bonino: Pietro, il gemello di Paolo, la pecora nera della famiglia. Da quattro anni espatriato in Argentina dopo un breve soggiorno nel carcere di Marassi, Pietro aveva cercato il fratello soltanto due volte e in entrambi i casi per battere cassa.
Strani gemelli i Bonino: identici esternamente, opposti interiormente. Paolo calmo e affidabile, Pietro irrequieto e prepotente.
Probabilmente è una fortuna che Pietro si trovi dall'altra parte dell'oceano, Paolo ne è consapevole e per questo rimane sconvolto quando riceve la lettera in cui il fratello gli annuncia il prossimo ritorno dicendogli, tanto per cambiare, di essere nei guai e di avere bisogno di aiuto.

L'ottavo romanzo del mio concittadino è quello che mi è piaciuto meno. Nelle note lui stesso dice di rendersi conto che questa storia è diversa dalle altre.

"E' un racconto piuttosto drammatico, a tinte scure, privo di quell'ironia che contraddistingue i miei personaggi. Qui c'è poco da sorridere."

Vero, anche se io ho sorriso ritrovando la mia Sampierdarena (il mio quartiere di nascita) e anche Pegli (quello in cui vivo). Pegli negli anni Cinquanta era stazione termale...


Un glorioso passato di cui i pegliesi si beano ancora oggi con la loro tipica spocchia, mal sopportata, oltre che da me, anche da Bistolfi, direi:

"Quella pretesa di lusso in versione balneare gli urtò i nervi, gli parve inutile e volgare"

Purtroppo, però, il libro non è un giallo come gli altri: c'è sì un mistero (anche più di uno), ma credo che un giallo per definirsi tale necessiti di un crimine e della conseguente investigazione.
Qui, invece, abbiamo un dramma che, ricostruendo il passato dei Bonino e dei Sanguineti (la famiglia di origine della madre dei gemelli), ha anche un po' il sapore della saga familiare (aspetto che ho apprezzato moltissimo), ma se anche compare un commissario di polizia (mi è mancato moltissimo il maresciallo Primo Galanti!) non ci sono i meccanismi dei bei gialli storici scritti precedentemente da Bistolfi.

Forse è stato il prologo a rovinarmi la lettura. Siamo all'inizio del novembre 1970, quindi quasi vent'anni dopo rispetto al successivo sviluppo del libro, e due donne si incontrano davanti alla tomba della famiglia Bonino. Fin dalle prime pagine ci viene quindi detto che Pietro è morto il 21 maggio 1952 e Paolo il 25 settembre 1970. Viene detto troppo in quel prologo: non solo la causa della morte di Pietro e il modo in cui è morto Paolo, ma le due ne commentano i caratteri opposti, la somiglianza fisica e fanno certe descrizioni che chiaramente non sono state messe lì per caso...

Tutto ciò fa capire subito la piega che prenderanno gli eventi rendendo facilmente intuibile il colpo di scena finale che, senza tutti quegli input seminati da Bistolfi all'inizio, sarebbe stato sorprendentemente bello.

Ma una cosa è verissima: non è tutto oro quel che luccica. Meno che mai quando di mezzo ci sono le palanche.

Reading Challenge 2024, traccia gioco di società febbraio, Affonda la flotta: libri ambientati in città di mare o su una nave

lunedì 26 febbraio 2024

"La signora nel furgone e le sue conseguenze", Alan Bennett

 

Londra, 1974. Come tanti scrittori, editori, giornalisti, registi e artisti di vario genere, anche Alan Bennett si era trasferito a Camden Town. Da cinque anni abitava in una casa del 1840 quando, stanco di vedere un vecchio e malandato furgone parcheggiato sulla strada proprio davanti alla finestra del suo studio, aveva proposto alla donna che ci viveva di spostare il mezzo nel suo vialetto.
Mary Shepherd aveva accettato, come se fosse stata lei a fare un favore a Bennett. Nessuno dei due avrebbe immaginato che ci sarebbe rimasta per i successivi quindici anni, fino al giorno della sua morte.

Miss Shepherd, anziana nomade stanziale, aveva quel genere di eccentricità tanto cara a Bennett, uno di quei personaggi "accanitamente originali che scardinano le certezze degli inglesi benpensanti", come nella prefazione del libro viene ricordato da Nicholas Hytner, regista, nonché amico dell'autore.

E Bennett Miss Shepherd l'ha sfruttata per bene: con questo librino (l'introduzione è quasi più lunga del racconto) pubblicato proprio nell'anno della morte della signora (1989), con la commedia teatrale (1999) e con il film (2015), diretto proprio da Hytner e che adesso voglio recuperare (in fondo al testo c'è anche la sceneggiatura del film). E' il regista a farci sapere che ai tempi delle riprese la casa era ancora di proprietà di Bennett e che nessun ambiente venne modificato.

Di Bennett avevo già letto "La sovrana lettrice" nel 2017 e, lo scorso anno, "Nudi e crudi". Anche con questo terzo racconto mi ha fatto divertire, senza arrivare a considerarlo esilarante, un aggettivo che a quanto pare viene sempre associato all'autore, secondo me esagerando, ma questa considerazione non sminuisce il mio apprezzamento per il suo intelligente humor.

Il libro è una sorta di diario attraverso il quale Bennett racconta in ordine cronologico le stramberie della signora. Spesso si tratta di aneddoti brevissimi (Febbraio 1983. A. mi telefona nello Yorkshire per dirmi che è esplosa la caldaia e la cantina si è allagata. Unico commento di Miss S.: «Che spreco di acqua...») e ce la descrive in maniera clownesca ("Stamattina è vestita così: gonna arancione fatta di tre o quattro stracci per la polvere formato maxi; giacca di raso azzurro a strisce; foulard verde; occhialini azzurri e berretto a punta color kaki; sulla punta un distintivo con Rambo e teschio e ossa incrociate.") con la goffaggine derivante dall'età e da suo spropositato metro e ottanta di altezza. Una fervente cattolica (suora mancata) e anticomunista, che scriveva con costanza a vescovi e cardinali elargendo consigli sul futuro papa da eleggere (che deve essere alto "perché anche l'altezza conta, ai fini della conoscenza") e a Margaret Thatcher (il cui operato non le era del tutto congeniale, cosa che la portò a fondare un proprio partito, il Fidelis Party: "Sarà un partito che si preoccuperà della Giustizia e quindi non ci sarà bisogno di un’opposizione").

Una donna che a tratti suscita tenerezza come farebbe un bambino (
Le chiedo se vuole una tazza di caffè. «Ma no, non si disturbi. Me ne basta mezza»), ma che il più delle volte esaspera e porta a chiedersi come Bennett abbia potuto sopportare la sua invadente e (letteralmente) invasiva presenza per quindici anni.

Ma fra le righe di questa storia c'è anche un carico di tristezza non indifferente. La signora del furgone non è un personaggio di fantasia, ma una povera donna che aveva svalvolato durante la seconda guerra mondiale, quando guidava le ambulanze, a causa di una bomba scoppiatale troppo vicino e che pare avesse anche ucciso il suo grande amore. Dopo il conflitto per lei - figlia della borghesia inglese con un promettente avvenire da pianista - c'erano, invece, stati solo ricoveri in ospedali psichiatrici e successivamente un'esistenza da barbona, nella carenza igienica - su cui Bennett torna a più riprese senza riuscire a renderla divertente - e svariate psicosi, vittima di atti di vandalismo e soggetta all'allontanamento generale.

Al suo funerale erano presenti soltanto l'autore, una coppia di residenti in 
Gloucester Crescent e l'infermiera dei servizi sociali che si occupava occasionalmente di lei.
Libro, spettacolo teatrale e film sono venuti dopo, con relativa fama, e probabilmente ancora oggi c'è chi va a farsi un selfie davanti al vialetto che ospitava il suo furgone. Le stesse persone che in vita si sarebbero allontanate da lei con disgusto.

Reading Challenge 2024, traccia stagionale crucipuzzle, inverno: cappello nel testo


sabato 24 febbraio 2024

"I giorni dell'abbandono", Elena Ferrante



Torino, inizio del nuovo millennio. Olga ha 38 anni, da quindici è sposata con Mario, da dieci è madre di Gianni e da sette anche di Ilaria. Casalinga aspirante scrittrice di un romanzo che non ha mai preso forma, impegnata com'era a seguire il marito nei vari spostamenti di lavoro, in Canada, in Spagna, in Grecia e da qualche anno a Torino. I figli da crescere, la casa da seguire e poi anche Otto, il cane lupo che Mario ha regalato ai bambini, ma soprattutto a se stesso. Un buon matrimonio, con una sola piccola crisi risalente a cinque anni prima, quando lui si era fatto prendere da un improvviso "vuoto di senso", finché...

"Un pomeriggio d'aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi."

Ed è in quel momento che per Olga iniziano i giorni dell'abbandono.

Scritto nel 2002, secondo romanzo dell'autrice, forma una sorta di trilogia con "L'amore molesto" (letto nel 2019) e "La figlia oscura", l'unica opera della Ferrante che mi manca da leggere. Erano quasi tre anni che non lo facevo ed è stato appagante reimmergermi nella sua scrittura.

Un romanzo breve (211 pagine), ma potentissimo, che descrive una situazione ("Lo sfacelo di una separazione unilaterale") che non ho mai sperimentato e che non so come vivrei. Spero non come Olga.

"A trentotto, adesso, ero ridotta a niente, non riuscivo nemmeno a comportarmi come mi pareva giusto. Senza lavoro, senza marito, rattrappita, spuntata."

Con la protagonista come voce narrante, la Ferrante fornisce un'unica versione dei fatti. Olga è una donna devastata che si annienta, diventa volgare, cattiva, litigiosa, insofferente, soprattutto nei confronti dei figli (e del povero Otto).

Non sono madre e i miei genitori sono stati separati solo dalla morte, ma non occorre l'esperienza diretta per sapere che si può smettere di essere parte di una coppia, ma che non si dovrebbe mai smettere di essere genitori.

Qui, invece, abbiamo una madre che antepone la disperazione del suo stato a tutto, anche alle necessità primarie dei due figli, arrivando a gravi picchi di follia senza rendersi conto che mentre lei vive "l'oltraggio dell'abbandono", quelli a essere davvero abbandonati sono i bambini.
Dalla madre - assente in casa - e dal padre che se ne va e che torna a farsi vivo dopo 34 giorni adducendo un viaggio di lavoro all'estero, senza neppure una telefonata per loro.

Due bambini, per altro, odiosi: per quanto la situazione spinga a provare compassione nei loro confronti, quando Mario dice "Gianni mi è antipatico, Ilaria mi dà ai nervi" è impossibile frenare il "sapessi a me" che nasce da dentro.

Un libro che ogni donna dovrebbe leggere facendone tesoro, per non ritrovarsi a dover dipendere da qualcuno (economicamente, ma non solo) dovendo poi dare ragione alla madre di Olga:

"Le donne senza amore morivano da vive"

Adesso vorrei recuperare anche il film tratto dal romanzo.

Reading Challenge 2024, traccia stagionale crucipuzzle, inverno: termometro nel testo


giovedì 22 febbraio 2024

"Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno", Benjamin Stevenson

 

Australia, giorni nostri. Michael Cunningham sta per essere scarcerato dopo aver scontato tre anni per omicidio. Deve ringraziare la bravura di Marcelo - il suo avvocato, nonché patrigno - per una condanna così lieve. Chi non merita la sua gratitudine è Ernest, suo fratello, perché è stata la sua testimonianza a farlo finire dentro.
Nonostante il tradimento ci sarà anche lui alla grande rimpatriata familiare che zia Katherine ha organizzato: un lungo week-end di quattro giorni che trascorreranno tutti insieme ad alta quota.
Ma ci sarà giusto il tempo per l'arrivo di Michael e per la scoperta di un cadavere nella neve prima che una bufera li isoli allo Sky Lodge. Ernest, calatosi nei panni del detective dilettante, ha solo una certezza: che l'assassino sia uno di loro, perché tutti nella sua famiglia hanno ucciso qualcuno.

Scritto nel 2022, è il terzo romanzo pubblicato da Benjamin Stevenson (il primo tradotto in italiano e per me il primo letto con uno dei tanti Gruppi di Lettura organizzati su Telegram da Sara BookLovers). Un libro che fatico a classificare nella narrativa gialla e credo che l'autore sarebbe d'accordo con me visto che nei ringraziamenti scrive un "Spero che leggerlo sia stato divertente" che lascia pochi dubbi su quali fossero le sue intenzioni.

E lo stile è esattamente come lo avevo immaginato dopo aver letto (prima di iniziarlo) che Stevenson è un cabarettista: la voce narrante, Ernest - Ernie - Ern, si rivolge spessissimo ai lettori e sempre in maniera ironica e sarcastica, cosa che mi ha portato ad associarlo a Ricky Gervais. Mentre leggevo mi sembrava che fosse lui a raccontarmi la storia, con la sua faccia e la voce del suo doppiatore italiano in "After Life" e forse è anche per questo che non riesco a considerarlo un giallo, nonostante a tutti gli effetti lo sia.

Ci sono morti, nel passato e nel presente. Ci sono sospetti, indiziati, indagini e colpi di scena. C'è un narratore che si definisce affidabile
("Tutto ciò che vi dirò sarà la verità, o quantomeno la verità così come la conoscevo al momento in cui credevo di saperla. Potete prendermi in parola."). Ci sono tanti personaggi (ma non troppi come avevo sentito dire: i legami di parentela, e non, si ricostruiscono in fretta e facilmente). E ci sono tanti accadimenti: eventi risalenti a trentacinque anni prima, altri a tre. E naturalmente tutto quello che avviene nel presente.

Michael è un assassino.
Ha ucciso un uomo. E secondo te è sufficiente per essere un assassino? C’è chi ammazza e viene premiato con una medaglia. I soldati lo fanno di mestiere."

Sotto alcuni aspetti il libro funziona, ci sono parti ben costruite, piacevoli e/o toccanti. Stevenson è molto bravo nel generare equivoci per poi chiarirli, creando colpi di scena anche rilevanti.

"Non vorrei però che ci prendeste per un branco di psicopatici. Siamo gente normale: alcuni buoni, altri cattivi, altri soltanto sfortunati."

Mi ha fatto anche scoprire che Margaret Atwood e Ian Fleming hanno scritto per Playboy.

Ma alla fine c'è troppo. Una storia molto intricata. Esageratamente e forzatamente intricata, con situazioni paradossali, americanate degne di un brutto B movie. Eccessi che attribuisco al tentativo di sconcertare in maniera simpatica, ma che a me hanno reso pesante la lettura. Un libro che - dopo un buon inizio - ha smesso presto di chiamarmi e che ho finito di leggere senza più riuscire a provare quella bella sensazione che si sente quando finalmente si ha del tempo da dedicare alla lettura nel corso o alla fine della giornata.

PS: nei ringraziamenti sopracitati, Stevenson cita James Randall, il disegnatore della copertina australiana del libro, dicendo di esserne ossessionato. Risparmio la fatica della ricerca in rete a chi fosse curioso come me:


Non è così memorabile da perderci tempo in due, o più (e non solo per gli orridi colori)!

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