venerdì 29 aprile 2022

"Un incantevole aprile", Elizabeth von Arnim


"Per gli estimatori dei glicini e del sole.
Piccolo castello medievale italiano sul Mediterraneo affittasi ammobiliato per il mese di aprile.
Servitù essenziale inclusa.
Z, C.P. 1000"

Londra, anni venti del secolo scorso. E' questo l'annuncio che Mrs Wilkins legge su "The Times" mentre trascorre un piovoso pomeriggio di febbraio nel suo club per signore. A lei piacciono i glicini, piace il sole, piacciono i castelli medievali e piace il Mediterraneo. Ha anche da parte un gruzzoletto di 90 sterline di cui non deve rendere conto al marito.
L'ideale sarebbe trovare un'altra signora con cui dividere spesa, viaggio e vacanza: sta pensando proprio a questo quando si accorge che anche Mrs Arbuthnot ha adocchiato lo stesso trafiletto...
Certo però che se fossero in quattro la spesa si ridurrebbe ulteriormente: vale la pena provare a mettere a loro volta un annuncio e non devono neppure fare una selezione perché a rispondere sono soltanto in due, Mrs Fisher e Lady Caroline.
Non resta che preparare i bagagli e mettersi in viaggio e poi per un intero mese anche loro potranno capire quanto sia bello vivere in Liguria!

Se cercate una lettura capace di farvi sentire il calore del sole sulla pelle, lo scompiglio dell'arietta di mare fra i capelli e il profumo di tutti i fiori possibili e immaginabili che sbocciano in primavera, allora questo è il romanzo perfetto per voi.

Fazi non poteva fare scelta migliore quando nel marzo 2020, all'inizio del lockdown, regalò la versione digitale a chiunque volesse scaricarla. Certo l'aprile successivo è stato tutt'altro che incantevole e probabilmente in alcuni leggere una storia con questa ambientazione avrà acuito il desiderio di evasione, ma - al di là di tutta l'angoscia derivante dalla situazione pandemica - questo è un romanzo estremamente rasserenante e riposante (oltre ad essere il più fiorito che abbia mai letto!).

Elizabeth (pseudonimo) von Arnim (cognome del primo marito), alias Mary Annette Beauchamp - nata in Nuova Zelanda nel 1866, ma approdata in Inghilterra con la famiglia soltanto tre anni dopo - lo scrisse nel 1922 con uno stile che non dimostra affatto i cent'anni che ha. Sembra piuttosto l'opera di un'autrice contemporanea che ha adeguato all'epoca in cui è ambientata la vicenda il modo di raccontarla e i dialoghi. La trama è davvero poca cosa, le quattro signore arrivano al castello (ispirato al Castello Brown di Portofino...

...dove l'autrice trascorse una vacanza nel 1921) arroccato sul promontorio dell'immaginario paesino di San Salvatore e da lì non si spostano per l'intero mese.

Una timida e repressa, una perbenista e bigotta, una anziana e moralista e una annoiata e bellissima: sono tutte, per motivi diversi, donne sole e tutte hanno visto in quella vacanza l'occasione per prendersi una parentesi dalla loro desolante quotidianità.
La von Arnim fa dei loro pensieri e della loro introspezione le colonne portanti del romanzo, che è soprattutto riposante e a tratti divertente, pur contenendo una delle frasi più tristi che abbia mai letto:

"Per anni era riuscita a essere felice solo dimenticando la felicità, e voleva continuare così"

E poi c'è lei, la grande protagonista: la mia Liguria tanto amata dagli inglesi tra l'Ottocento e il Novecento grazie al clima mite ("Perfino la pioggia era diversa, cadeva dritta sull'ombrello come è opportuno che faccia, non come la pioggia inglese che ti colpisce dappertutto") e all'impressione di trovarsi in un enorme giardino a cielo aperto.
"Genova! Soltanto pensare di trovarsi lì, leggere quel nome scritto sulla facciata della stazione..."
La mia Genova viene citata sette volte, un piacere enorme per una campanilista come me! E' stato solo strano sentir chiamare Mediterraneo il mio mar Ligure: certo, lo so che ne fa parte, ma in 52 anni di vita non l'ho mai né pensato, né chiamato, né mai sentito chiamare Mediterraneo!
Incantevole aprile... Incantevole Liguria...

Reading Challenge 2022, traccia di aprile: un libro scritto da una donna

martedì 26 aprile 2022

"Luce della notte", Ilaria Tuti


Friuli Venezia Giulia, dicembre 2018. Sono passati pochi giorni dalla risoluzione del caso di Trevenì e pochi ne mancano al Natale quando Giulia Leban chiede aiuto al commissario Teresa Battaglia: Chiara, la sua bambina di nove anni, ha fatto un sogno, vagava in un bosco, si fermava davanti a un albero sulla cui corteccia qualcuno aveva intagliato una luna e una stella. Poi si metteva a scavare alla base del tronco fino a disseppellire il corpicino livido di un bambino.
Ha senso imbastire un caso sull'incubo di una bambina? E' quello che si chiede l'ispettore Marini, ma anche questa volta il resto della squadra è con il commissario e lui non può tirarsi indietro.

Il romanzo è stato pubblicato nel 2021, ma la storia segue a ruota quella di "Fiori sopra l'inferno", quindi avviene alcuni mesi prima dei fatti di "Ninfa dormiente": non mi piacciono prequel e affini, non mi piace dover "dimenticare" quello che già so della trama orizzontale e non capisco il senso di tornare indietro anziché seguire una normale cronologia.

E in questo caso non mi è piaciuta neppure la sensazione che ho avuto, quella di star leggendo una storia nata ben prima del 2021 come racconto e poi ripescata dal cassetto, allungata (vorrei poter dire arricchita, ma non sarebbe vero perché è piuttosto povera) per farle raggiungere l'aspetto di un romanzo con le sue 256 pagine (credo scritte con un font grosso, perché la lettura in digitale è stata incredibilmente veloce) e quindi data alle stampe.

Ho trovato anche lo stile più acerbo, molto più in linea con "La ragazza dagli occhi di carta" (racconto pubblicato nel 2015) che con i due romanzi.
Forse c'era una scadenza contrattuale da rispettare? Magari non era ancora pronto "Figlia della cenere" (quello che attualmente è l'ultimo romanzo della serie), uscito soltanto cinque mesi dopo questo (ed è strano)...
Non lo so e le mie ovviamente sono solo ipotesi basate unicamente sull'impressione che ho avuto leggendo.

La lettura mi ha davvero trasmesso una sensazione di frettolosità, con almeno un paio di punti cruciali non sufficientemente approfonditi: ad esempio al 44% spunta una data, che poi si rivela fondamentale nello sviluppo, e sono dovuta tornare indietro per capire come mai Teresa Battaglia avesse chiesto proprio di quel giorno. E, anche rileggendo, ho trovato il collegamento appena intuibile, i passaggi che portano a quella data non vengono spiegati come sarebbe stato giusto fare, anche nell'interesse dell'autrice.

E' questo il motivo principale per cui, dopo aver adorato "Fiori sopra l'inferno" e detestato "Ninfa dormiente", adesso non posso dire di aver apprezzato "Luce nella notte".

La Tuti saggiamente fornisce (anche) una spiegazione razionale a chi (io) mal sopporterebbe solo quella surreale legata al sogno e la storia è un bel cold case (che tanto amo), ma parecchio inverosimile nella semplificazione dell'epilogo, dove la sensazione di urgenza che avvertivo ha raggiunto il culmine.

E questa è una storia che avrebbe meritato almeno un centinaio di pagine in più per le tematiche importanti che tocca, la guerra dei Balcani, l'immigrazione dei profughi, il loro sfruttamento. Ma la Tuti, appunto, le tocca soltanto, limitandosi a fornire qualche dato alla portata di chiunque abbia la sana abitudine di leggere i quotidiani e/o di seguire telegiornali e trasmissioni di approfondimento.
Quando si sceglie di servirsi di fatti di questa portata per la trama del proprio romanzo bisognerebbe andare ben oltre al temino scolastico.

Molto bello il passaggio di condanna a cacciatori e bracconieri:

"Le pareti dipinte decenni addietro di un beige ora stinto accoglievano i trofei di caccia del padrone. Scoiattoli, un gatto, diversi caprioli, due cinghiali enormi con i loro cuccioli, tre barbagianni e un gallo cedrone. Teresa li trovava rivoltanti. Non aveva mai capito come si potesse accogliere in casa teste impagliate dagli occhi sbarrati e vitrei, pellicce e piumaggio opachi, l’odore orribile dell’imbottitura dove prima c’era il calore di un piccolo cuore. Era come abbracciare la morte e ritagliarle ogni giorno uno spazio nella propria vita. Le creature sacrificate parevano ricambiare il suo sguardo e chiedere compassione."
Peccato però che Teresa Battaglia non sia vegana (e non mi risulta che lo sia neppure Ilaria Tuti), ma solo una onnivora ipocrita a cui mi piacerebbe far notate che anche gli animali che finiscono nei suoi piatti avevano un piccolo cuore prima di essere uccisi!

Reading Challenge 2022, traccia bonus di aprile: libri senza figure umane in copertina

domenica 24 aprile 2022

"Scomparsa", Joyce Carol Oates


Carthage (stato di New York). All'alba del 10 luglio 2005 Arlette Mayfield scopre con sgomento che la figlia minore Cressida, 19 anni, non è ancora tornata a casa. Appurato che ha lasciato l'amica da cui aveva trascorso la serata attorno alle 22.30, non si capisce dove possa essere andata finché diversi testimoni dicono di averla vista in un bar in compagnia di Brett Kincaid, l'ex fidanzato della sorella.
Juliet e Brett erano la classica coppia da sogno, quelli che nelle commedie americane vengono eletti re e regina ai balli studenteschi, finché lui non era tornato dalla guerra in Iraq con un trauma cerebrale e danni neurologici, forse guaribili, forse no. Juliet non si era fatta condizionare da questo, gli era rimasta accanto, era ancora decisa a sposarlo anche se a volte pensava che esistessero due Brett: quello vecchio e quello nuovo...
Poi il 4 luglio aveva rotto il fidanzamento, ma questo non spiega cosa ci facesse Cressida con lui cinque giorni dopo, lei che non frequentava i bar e neppure i ragazzi, perché lei era quella intelligente delle due sorelle Mayfeld mentre Juliet era quella bella.

Ancora una famiglia al centro di questo che è il terzo romanzo della Oates che leggo e che conferma quanto siano simili le nostre opinioni sui vari temi che affronta. E anche questa volta la famiglia è solo il mezzo che usa per parlare di questioni scottanti, soprattutto per lei che è americana e che sa di venir letta innanzi tutto dai suoi connazionali.

Non a tutti avranno fatto piacere certe verità (scomode per alcuni, vergognose per altri) sulla "guerra al terrore", ma episodi come quelli che descrive attraverso i ricordi del caporale Kincaid sono successi davvero e i colpevoli sono stati protetti dal Governo, lo stesso Governo che invece non ha supportato come avrebbe dovuto i suoi reduci, abbandonandoli al loro destino. Come durante e dopo ogni guerra.

"Per Zeno Mayfield, diventato maggiorenne negli ultimi, cinici anni della guerra del Vietnam, era difficile capire perché un giovane intelligente come Brett Kincaid si fosse arruolato volontario nell’esercito. Perché, se non era stato chiamato alle armi! Era una follia.
Voleva “servire” la patria – ma quale patria? Nessuno dei figli dei leader politici si era arruolato nelle forze armate. Nessun giovane con un’istruzione universitaria. Già nel 2002 appariva chiaro che in guerra sarebbero andati gli americani delle classi più umili, con il dipartimento della Difesa a sovrintendere al tutto."
E anche Cressida dice una verità, antipatica quasi quanto il suo personaggio, ma tristemente innegabile:
"E quando era arrivata la notizia che Brett era rimasto ferito, lei, dopo un attimo di sorpresa e di shock, aveva commentato: «Be’, dopo tutto Brett è un soldato, ed era in guerra. Non si può pretendere di essere sempre dalla parte di chi uccide».
Questo sesto capitolo, "Il caporale nella terra dei morti", è un capolavoro della narrativa. Ci sono scrittori che sfruttano i piani temporali facendolo male e creando solo confusione. La Oates riesce a gestirli all'interno di singole frasi trasmettendo tutta la devastazione all'interno del cervello dell'ex soldato.
"La guerra era una cosa mostruosa, e rendeva mostruoso chi la faceva"
E poi c'è il nono, "La camera della morte", un macro capitolo di circa cento pagine, dove la Oates attraverso "l'ispettore" (personaggio grandioso) mette al muro il sistema penitenziario americano e quello giudiziario, affrontando la corruzione dei giudici, le condizioni dei carceri minorili e quelli di massima sicurezza. E non manca un accenno allo sfruttamento degli animali.
Questa sì che è un'autrice che non ha paura di prendere posizione! Ma questa è anche la storia di una ragazza che scompare. Come avevo scritto il mese scorso a proposito della storia vera di Irina Lucidi raccontata da Concita De Gregorio in "Mi sa che fuori è primavera", non so se per un genitore sia peggiore avere la certezza della morte del proprio figlio o sapere che quasi sicuramente non c'è più senza avere un corpo da piangere. La Oates racconta la vicenda dal punto di vista dei vari personaggi e riesce a descrivere la disperazione del padre, Zeno Mayfield, con un trasporto tale da farti star male per lui, anche se sai che si tratta di un'opera di fantasia.

Reading Challenge 2022, traccia bonus di aprile: libri senza figure umane in copertina

giovedì 21 aprile 2022

"Undici morti non bastano", Raffaele Malavasi

E' il 10 febbraio 2018 quando l'ispettore Manzi deve intervenire a Sparzi (paesino immaginario dell'entroterra genovese): un anziano contadino scavando nel suo orto ha rivenuto un cadavere. Il corpo si presenta come mummificato, risultato di una sommaria imbalsamazione: è quello di Adelina Bagatta, la maestra del paese, scomparsa nel 1995.
Sparzi diventa così teatro di un altro omicidio che va ad aggiungersi agli undici avvenuti fra il 1944 e il 1975, tutti irrisolti e tutti attribuiti a quello che la stampa aveva soprannominato il Barbiere di Sparzi.
Ma Manzi e la sua squadra si trovano ben presto ad avere a che fare non solo con dei cold case, ma con un omicidio fresco, quello di Francesco Ceccato, lo storico locale che viene trovato appeso a un albero il giorno dopo aver suggerito all'ispettore una certa linea di indagine.
Solo Red Spada può capire se c'è un collegamento fra quegli omicidi spalmati nell'arco di più di settant'anni e verrà chiamato in causa quando nel bosco di Sparzi si perderanno le tracce proprio dell'ispettore.

"Come alcuni lettori avranno compreso, le vicende narrate in questo romanzo costituiscono una rielaborazione molto fantasiosa di fatti realmente accaduti"

Così l'autore scrive all'inizio dei ringraziamenti in fondo al libro: anche se lui non lo cita, il paese dell'entroterra a cui si è ispirato è sicuramente Bargagli, dove fra il 1944 e il 1983 vennero uccise 27 persone. Il colpevole, il cosiddetto "mostro di Bargagli", non venne mai preso e molti sostengono che non si trattasse di un serial killer, ma di una banda, la "banda dei vitelli" (perché vendeva carne al mercato nero durante la Seconda Guerra mondiale).

Cosa sia davvero successo a Bargagli in quegli anni probabilmente non verrà mai scoperto, comunque sia la storia raccontata da Malavasi è chiaramente di fantasia. Ed è davvero molto fantasiosa, forse troppo.

"Troppo" è l'aggettivo che più si adatta a questo suo quarto romanzo, che ha lo stesso protagonista (Goffredo "Red" Spada, ex poliziotto che suo malgrado finisce sempre invischiato nelle indagini degli ex colleghi) e le stesse spalle, l'ispettore Manzi (romanaccio che continua a non capire niente della bontà della cucina ligure: dopo aver precedentemente criticato la nostra abitudine di pucciare la focaccia nel cappuccino, questa volta si rifiuta di assaggiare la farinata!!) e la giornalista Orietta Costa (le cui gesta continuano a farmi sorridere pensando alla pochezza del quotidiano locale per cui scrive).
Sempre nei ringraziamenti Malavasi scrive che le vicende dei tre stanno per concludersi e fa bene a fermarsi prima di raschiare il fondo del barile perché Genova è una città non enorme, ma comunque troppo grande per rendere credibili i continui intrecci di tre personaggi
 professionalmente slegati fra loro.

E' soprattutto arrivato il momento di concludere la vicenda della trama orizzontale che riguarda Red: se davvero il prossimo sarà l'ultimo capitolo della storia, sarà facilmente incentrato sulla morte della moglie del protagonista (vedovo già dalla prima apparizione) e in questa quarta puntata 
Malavasi ha seminato un dettaglio importante che, ne sono sicura, sarà determinante e che, per i miei gusti, fa già capire fin troppo.

Troppo, appunto, come dicevo prima...

"Undici morti non bastano" ha troppe pagine: 512, quasi duecento in più rispetto al primo della serie ("Tre cadaveri"), più di cento rispetto al secondo ("Due omicidi diabolici") e più di cinquanta rispetto al terzo ("Sei sospetti per un delitto"). Malavasi è sempre stato un autore descrittivo, cosa che apprezzo molto in generale, a maggior ragione con lui perché le lungaggini raccontano soprattutto la mia città, ma questa volta in moltissime occasioni si è lasciato prendere da un'ampollosità che non ricordo di aver notato negli altri romanzi.
Avrebbe dovuto fare un bel lavoro di scrematura: meno e meglio, diceva Coco Chanel (e se avesse abbandonato il personaggio di Elisa Baldi al secondo romanzo sarebbe stata una gran cosa!!)...

Troppe parole di scarso uso comune: termini come prodromo, assiso (usato addirittura tre volte), rampogna (usato due volte a brevissima distanza) e tanti altri a infarcire uno stile semplice, a tratti molto colloquiale, stridono tantissimo e sono inutili.

Troppe interruzioni: i tantissimi capitoli (105 più prologo ed epilogo) alternando le varie situazioni in atto creano un spezzettamento che questa volta non è riuscito bene, non so perché, ma questo stratagemma che negli altri tre romanzi riusciva a mantenere vivo l'interesse invogliando a leggere un altro capitolo e poi un altro ancora, questa volta mi ha dato spesso fastidio.

Troppi numeri da circo: il salto deduttivo che fa compiere a Red per portarlo alla risoluzione del caso è degno di un trapezista. Io stessa, pur essendo genovese, sono dovuta ricorrere alla conoscenza (ben superiore alla mia) che mio marito ha della Genova medievale per capire un certo collegamento che invece Red fa basandosi su un'unica parola.

Troppi piani temporali: forse è ingiusto dirlo perché quando poi 
tutto viene spiegato il succedersi degli eventi è semplice e chiaro, ma durante la lettura non si ha questa impressione, in parte anche a causa dei tanti personaggi con gli stessi due cognomi, particolare che però ho apprezzato perché nei paesini dell'entroterra succede per davvero. Alle superiori ho avuto ben quattro compagne di scuola provenienti dai "bricchi" i cui genitori avevano lo stesso cognome pur non essendo parenti fra loro. Però (anche) Malavasi mi è caduto sulle date e per ben due volte! La prima: nel sesto capitolo di questo romanzo colloca la morte della moglie di Spada nell'estate di due anni prima, mentre nel primo libro dice che Anna era stata "rapita nel parcheggio di un supermercato in pieno giorno poco dopo Natale", poi rinchiusa per due mesi e quindi uccisa. Per cui è morta alla fine dell'inverno 2016, non in estate.

La seconda: nel decimo capitolo quando un sottoposto riferisce a Manzi i dati della donna morta nel campo si legge: "Adelina Bagatta, nata a Voghera nel 1937, scomparsa da Sparzi il 15 marzo 1995...", ma quando nel quarantacinquesimo capitolo Manzi chiede alla sorella: "Sua sorella è scomparsa nel 1995, vero?" la donna risponde: "Sì, ispettore, confermo. Era di dicembre, il 18 per la precisione"!

Appunto, precisione! Io mi rendo conto di essere ossessiva e asfissiante (anche) con i particolari e so di dare alle date un'importanza ben superiore alla media, ma se fossi una scrittrice di romanzi la prima cosa che farei è un elenco dettagliato con i particolari che ho attribuito ai personaggi che ho inventato e, in caso di serie, farei enormemente attenzione alla datazione degli eventi. Proprio non mi capacito per queste sviste evitabili.

(A voler essere proprio precisi precisi, nel sessantunesimo capitolo si legge: "La signora Adelina Bagatta, scomparsa senza giustificazioni nel lontano 1975", ma questo è chiaramente un semplice refuso)

Tirando le somme (lo so, dovrei fare buon uso anch'io del "meno è meglio"...), "Undici morti non bastano" non è male, ma è sicuramente il meno bello dei quattro (che vanno rigorosamente letti in ordine cronologico) ed è partito con un enorme handicap: essere la lettura successiva a "Ninfee nere".
Malavasi è bravo, ma lì Bussi è stato geniale.

Reading Challenge 2022, traccia di aprile: un libro di uno scrittore italiano



venerdì 15 aprile 2022

"La zia marchesa", Simonetta Agnello Hornby


Sicilia, dicembre 1898. Sono passati tre anni dalla morte prematura di Costanza Safamita. Amalia Cuffaro era stata la sua balia, rimanendo poi a servizio a palazzo. Ma adesso vive in una grotta della Montagnazza insieme alla nipote disabile. Pettinando (e spidocchiando) la ragazzina le racconta  la vita della marchesa, cominciando dalla prima volta in cui la vide appena nata, il 22 maggio del 1859...

Scritto nel 2004, è il secondo romanzo dell'autrice e il secondo che leggo dopo "La Mennulara" (la sua opera prima), che ho preferito a questo, pur essendomi piaciuti entrambi.

Nonostante siano ambientati a un secolo di distanza (seconda metà dell'Ottocento vs anni '60 del Novecento), a tratti li ho trovati simili. Amalia Cuffaro non è la protagonista, ma è una donna di servizio come lo era la Mennulara, e il fatto che sia lei la voce narrante per una parte della storia - alternandosi a un narratore esterno - la rende più importante di quanto in realtà non sia nella trama generale del libro.
Quello che, con tristezza, ho trovato uguale è la mentalità, sia di coloro che hanno il potere (aristocratici vs borghesi), sia di chi lo subisce. 

"La zia marchesa" è una vera e propria saga familiare che, con i suoi salti temporali, racconta tre generazioni dei baroni Safamita, alternando alla breve vita di Costanza quella della madre e del nonno, andando quindi molto più indietro rispetto al 1859, anno di nascita della protagonista.

Non ho trovato i salti temporali ben definiti, più di una volta ho dovuto rileggere dei passaggi per capire se i fatti raccontati si riferivano a Costanza o a sua madre Caterina e che quest'ultima abbia sposato uno zio - facendo così diventare gli altri zii e le zie anche cognati, i cugini anche nipoti oppure cognati, ecc - di certo contribuisce a creare confusione (per mio marito, che oltre alle parentele di primo grado va in tilt, questo romanzo sarebbe un Bartezzaghi!).
Anche i tantissimi personaggi, più o meno importanti, a volte mi hanno portata a chiedermi smarrita: "E questo chi ca**o è?!", cosa abbastanza traumatica per una precisina come me e se, invece di scoprirlo solo alla fine, avessi saputo subito che in fondo c'era un dettagliato elenco di ogni nome citato diviso per famiglia e/o ruolo, vi sarei ricorsa volentieri per dissipare ogni dubbio.

L'autrice ha dichiarato di aver attinto a ricordi e a racconti di famiglia (gli Agnello erano baroni), ispirandosi a un'antenata diventata per i futuri parenti un simbolo di malvagità, la stessa sorte che ha riservato a Costanza: un'ingiustizia perché è una protagonista fin troppo buona, incompresa e non sufficientemente amata.

La Agnello Hornby ha uno stile semplice e molto piacevole, scorrevole, però anche questa volta ha inserito tematiche pesanti (mi ripeto dalla recensione de "La Mennulara": mafia, violenze familiari, violenze non familiari, soprusi, prevaricazione sociale, omertà...) limitandosi a descrivere le varie situazioni, senza mai esprimere una condanna e questo per me è penalizzante, amo trovare la denuncia sociale ogni volta che ce n'è motivo e qui di motivi ce ne sono tanti.
Se nella vita reale la presa di posizione non è per tutti e spesso costa cara, da un autore mi aspetto il coraggio di una critica attraverso la voce dei suoi personaggi, altrimenti viene solo raccontata una storia, che in certi casi - come questo - non viene definita storiella solo perché è bella e ben scritta.

Ci si può accontentare, c'è di peggio, ma c'è anche di meglio: "La lunga vita di Marianna Ucrìa" di Dacia Maraini, per esempio. Due romanzi con tanti punti in comune, direi troppi (cosa che, a dirla tutta, non fa onore alla Agnello Hornby che ha scritto il suo quattordici anni dopo), due storie simili (tra l'altro anche la Maraini si è ispirata a un'antenata principessa), ma con una profondità molto diversa.

Purtroppo entrambe, a differenza della Allende, della Ferrante, ecc, non danno al momento storico dell'ambientazione il risalto che avrei voluto, la Agnello Hornby ancora meno della Maraini. Accenna solo blandamente alle questioni storiche e politiche, una lacuna non da poco considerando che negli anni di vita di Costanza cadono i Borbone, cessa di esistere il Regno di Sicilia, nasce quello d'Italia e la mafia comincia a espandersi diventando in fretta il cancro che conosciamo.

Ma quei brevi cenni sono riusciti ugualmente a sconcertarmi: per me che ho sempre studiato e pensato all'unità d'Italia da genovese - cioè da figlia di quella che, dal Balilla a Bixio a Mazzini e Garibaldi, può considerarsi la città del Risorgimento - è stato piuttosto sorprendente veder attribuito a Garibaldi il titolo di dittatore.
E lì un commento mi è venuto dal cuore: ancor grazie...

Reading Challenge 2022, traccia di aprile: un libro collegabile a P. L. Travers

mercoledì 13 aprile 2022

"Le luci del Titanic", Hugh Brewster


Sono passati 110 anni da quando,  alle 23.40 del 14 aprile 1912, il Titanic entrò in collisione con un iceberg. L'impatto fu fatale e la nave considerata inaffondabile colò a picco in due ore e quaranta minuti, diventando con l'oceano la tomba di 1.852 persone.

Quattro anni dopo "Titanic, la vera storia" di Walter Lord, mi sono regalata quest'altra lettura, che ho trovato ancora più completa e coinvolgente, priva delle osservazioni classiste e sessiste che mi avevano disturbata nel saggio di Lord, una conseguenza dell'anno di pubblicazione, il 1955, mentre Brewster ha scritto il suo soltanto dieci anni fa, in occasione del centenario. Considerato il più grande esperto internazionale sulla vicenda del Titanic, in precedenza aveva collaborato con Robert Ballard alla stesura de "Il ritrovamento del Titanic" (altro libro che vorrei leggere) che racconta l'individuazione (avvenuta nel 1985) e l'esplorazione del relitto. Con i suoi studi ha anche contribuito alla realizzazione dei film di James Cameron, "Titanic" e "Ghosts of the Abyss", il primo film in 3D. Il titolo originale di questo, "Gilden lives: fatal voyage" (che Google mi traduce con "Vite dorate: viaggio fatale"), svela subito l'impostazione che l'autore ha voluto dare al suo testo.
"Nella maggior parte dei riscontri del disastro, il Titanic è il protagonista e i passeggeri hanno semplicemente i ruoli secondari. Ma chi erano queste persone? E cosa le aveva spinte a compiere la traversata fatale?"

E si comincia da mercoledì 10 aprile 1912, quando attorno alle ore 15.40, sul molo di Cherbourg i primi passeggeri sono in attesa del Titanic, che è in ritardo. La maggior parte, circa un centinaio, sono passeggeri di terza classe, soprattutto libanesi, siriani, bulgari e croati, ma vi sono anche alcuni passeggeri di prima e seconda classe, fra cui John Jacob Astor IV, il più ricco.

Ci sono anche persone che non hanno in programma la traversata oceanica, come il gesuita Francis Browne - compagno di James Joyce al college e all'università, che - come altri - sbarcò dal Titanic a Queenstown. Appassionato di fotografia, è a lui che si devono gli scatti a bordo della nave. Un articolo del "Time" ne mostra sedici.

Questa prima parte mi ha presa fino a un certo punto. Brewster fa quello che aveva promesso, cioè presenta i passeggeri e probabilmente si è limitato ai passeggeri facoltosi perché erano i soli di cui fosse possibile reperire notizie, ma spesso esagera. Ad esempio per spiegare il motivo per cui il ventiquattrenne milionario canadese Quigg Baxter parlasse un francese perfetto - dettaglio già di per sé non fondamentale - anzichè limitarsi a dire che era la prima lingua della madre, racconta la storia di lei e della famiglia in generale a partire dal 1882 e dell'amante che viaggiava con lui, una cantante di cabaret, ne cita il vero nome, quello falso con cui si era registrata sulla nave e il nome d'arte! 

Di personaggi più famosi, come Frank Millet, Archie Butt, gli Astor o la stilista Lucile, scrive quasi delle mini biografie, dilungandosi anche in descrizioni particolareggiate di dettagli minimi, ad esempio delle ciabattine indossate dalla stilista a bordo della scialuppa di salvataggio.

Diventa ben più interessante quando comincia a raccontare dei (pochi) giorni di viaggio, del modo in cui non venne data la giusta importanza alle segnalazioni ricevute dalle altre navi circa la presenza di iceberg in zona (la prima arrivata già nel tardo pomeriggio di venerdì 12), dell'impatto e degli eventi successivi con i particolari noti a tutti, ma che era obbligatorio citare, del Californian che non rispose ai messaggi di soccorso perché il marconista era andato a dormire (e di come dopo divenne obbligatorio per le navi mantenere sempre aperto il contatto radio), delle scialuppe insufficienti (la tragedia del Titanic fece cambiare questa regola) e calate in mare solo parzialmente occupate (e nessuna delle prime sei aveva a bordo passeggeri di seconda e di terza classe), della famosa orchestra che suonò fin quasi all'affondamento.

Affondamento che descrive in maniera agghiacciante. In particolare il quindicesimo capitolo, intitolato "Voci nella notte", destabilizza e non c'è da stupirsi se una superstite dichiarò che il ricordo dei lamenti dei naufraghi in acqua l'avrebbe perseguitata per tutta la vita.

Qui Brewster riprende i nomi dei personaggi citati in precedenza raccontando la sorte di ognuno e in molti casi i loro comportamenti durante il naufragio. A bordo delle scialuppe c'erano egoisti che si rifiutavano di tornare indietro e altri che invece imploravano chi era ai remi di farlo. Bisognerebbe essersi trovati al loro posto per sapere cosa avremmo fatto noi in quel frangente, se avrebbe vinto la paura o l'altruismo, ma quello che emerge è che alla base della ritrosia dei più non c'era solo il timore di finire in acqua trascinati da quelli che avrebbero cercato di salire sulla scialuppa, bensì la totale mancanza di considerazione per la vita di chi apparteneva alla terza classe e in acqua dovevano esserci per forza loro.

"Nelle scialuppe c'era chi non poteva credere che qualcuno dei passeggeri di prima e seconda classe potesse essere stato abbandonato"
Daisy Spedden, una sopravvissuta che a bordo del Carpathia diede assistenza ai passeggeri più poveri insieme a Margaret Brown e ad altre due donne, raccontò che alcuni di quelli di prima classe sostenevano che nessun passeggero di terza avrebbe dovuto essere salvato, come se non fossero stati esseri umani.

Solo due delle 18 scialuppe tornarono indietro e qui viene ben descritto il ruolo assunto da Margaret Brown, soprannominata Molly dopo la morte, sia a bordo della scialuppa numero 6, sia sul Carpathia, dove si attivò per creare un fondo per aiutare quei superstiti che avevano perso tutto nel naufragio (fondo a cui a parole aderirono tutti, ma che in seguito vide la concreta partecipazione di pochi), e che all'arrivo a New York - mentre gli altri riccastri festeggiavano nelle loro stanze al Ritz -  rimase a bordo dellla nave per aiutare i passeggeri di terza classe trascorrendo la notte con loro. 
In seguito allestì il Comitato dei Superstiti del Titanic (avrebbe anche lottato per il suffragio femminile e per la costituzione del primo tribunale minorile americano).
A questa donna immensa non venne chiesto di testimoniare davanti alla commissione d'inchiesta, ma del resto vennero ascoltate soltanto due donne (cinque consegnarono deposizioni scritte).

Per contro, però, le donne ebbero l'enorme privilegio di godere della regola (istituita soltanto nel 1852) del "prima le donne e i bambini" grazie alla quale si salvò il 74% delle donne a bordo (delle passeggere di prima classe ne morirono soltanto quattro), contro il 20% degli uomini.

Un altro momento toccante è quello in cui il Carpathia, una volta arrivato al porto di New York, prima di attraccare al molo 54, dove era destinato, lasciò davanti al terminal della Withe Star le 13 scialuppe di salvataggio che avevano issato a bordo dopo aver recuperato i superstiti: erano tutto ciò che restava del Titanic.
Brewster traccia un accurato resoconto di ciò che avvenne sulla terraferma (agli uffici newyorkesi della White Star la notizia certa dell'affondamento arrivò solo alle alle 18.20 del 15 aprile) e delle successive inchieste, quella americana (che suscitò l'indignazione degli inglesi per via dell'indagine del Senato americano su una loro nave) e quella inglese. Inchieste che comunque servirono a poco, non vennero neanche prese in considerazione le testimonianze di chi raccontò che la nave si era spezzata in due, così fino al ritrovamento nel 1985 si continuò a pensare che fosse affondata intatta, e le due commissioni non trovarono prove della discriminazione patita dai passeggeri di terza classe. Invece il privilegio di classe venne messo in pratica anche con i morti: dei 190 corpi recuperati dalla Mackay Bennett per conto della White Star, 116 vennero ributtati in mare dopo aver legato una spranga di ferro ai piedi dei cadaveri.
"Sembra che gli ordini fossero di recuperare solo i corpi dei passeggeri di prima classe e dell'equipaggio. La "scelta", perché questo era, si basava sull'aspetto e sui vestiti."
Certo deve essere stata una scena atroce che il capitano della Mackay Bennett paragonò a uno stormo di gabbiani posati in acqua: i salvagenti mantenevano i cadaveri in verticale. Questo accadeva il 21 aprile, sei giorni dopo il naufragio. Altri (pochi) corpi venero recuperati da altre navi nei giorni successivi, gli ultimi tre - morti in una scialuppa poi abbandonata alla deriva - addirittura due mesi dopo. A recuperarli fu la Oceanic, cioè proprio la nave che nel porto di Southampton aveva rotto gli ormeggi sfiorando la collisione con il Titanic appena partito.
Da notare che dal Californian, arrivato nel luogo dell'affondamento il giorno successivo, affermarono di non aver trovato nessun cadavere.

Nell'ultima parte Brewster racconta cosa ne fu dei superstiti. Molti vissero a lungo (cinque di loro arrivarono ai cent'anni), ma non è esagerato pensare che nessuno superò mai del tutto la tragedia (quattordici persone si suicidarono), forse nemmeno i più arroganti.

Ieri sera grazie a Rai Play ho recuperato la puntata di "Ulisse, il piacere della scoperta"  trasmessa sabato scorso e dedicata interamente al Titanic: l'ho trovata ben fatta (come sempre), anche se con delle lacune, di sicuro non paragonabile alla completezza del libro, ma comunque godibile se interessati all'argomento.
Segnalo anche il sito di Claudio Bossi sul Titanic, davvero molto, molto interessante.

Reading Challenge 2022, traccia di aprile: un libro con titolo e autore scritti in maiuscolo

giovedì 7 aprile 2022

"Ninfee nere", Michel Bussi


Giverny (Normandia): è qui che Claude Monet si trasferisce con la famiglia nel 1883, in questo piccolo villaggio normanno dove "la luce era unica: si trova uguale in nessun'altra parte del mondo". E' qui che il pittore muore, il 5 dicembre del 1926. Ed è qui che inizia e finisce il romanzo di Bussi.
Il 13 maggio 2010 un'anziana donna comincia a parlarci di lei (cattiva e determinata), di Stéphanie (la trentaseienne maestra della scuola, furba e bugiarda) e della piccola Fanette (che ha solo 11 anni, ma che è quella con più talento).
C'è un omicidio, quello di Jérome Morval, e non sarà l'unico.
C'è un altro uomo, a cui verrà assegnato il compito di indagare su questa morte, l'ispettore Sérénac.
E c'è un cane, Neptune, un pastore tedesco, che gironzola per il villaggio, benvoluto da tutti.
O forse no.

Ma cosa si può dire di questo romanzo se non consigliare di leggerlo? Bussi lo ha scritto nel 2011, il che vuol dire che io l'ho ignorato per undici anni (causalmente la stessa età di Fanette). Mi ero fatta l'idea che tutta la storia ruotasse attorno alla pittura (che io non amo e fra tutti gli stili quello impressionista è forse quello che meno mi attrae, arrivando proprio a irritarmi) ed in effetti Monet, i suoi dipinti e, soprattutto, gli scorci di Giverny (fa venir voglia di partire subito, non fosse altro che per vedere il mulino delle Chennevières) sono un aspetto importante e lo caratterizzano. Ma sono la cornice a una storia talmente originale da potersi definire geniale.

Così particolare che non saprei come definirne il genere: di sicuro non "thriller con suspense" come viene classificato su Amazon. Molto meglio la "narrativa gialla" di IBS. Forse "noir" sarebbe più adatto? Non lo so. Ci sono dei morti con relative indagini, ma la storia per me è stata soprattutto triste e commovente (ieri sera mentre lo finivo mi sono rotolati giù dagli occhi lacrimoni belli grossi).
E ha implicazioni profonde, costringe a riflettere sul fatto che di vita ne abbiamo tutti una sola e che indietro non si torna.

La trovata di Bussi permette di poter parlare apertamente del libro solo con chi lo ha già letto. Sarebbe un delitto svelare anche solo un minimo dettaglio a chi ancora non lo avesse fatto: bisogna leggerlo. Fatelo!


Reading Challenge 2022, traccia di aprile: un libro con il nome di un fiore nel titolo


lunedì 4 aprile 2022

"Contro la caccia e il mangiar carne", Lev Tolstoj


Come specifico tutte le volte in cui mi capita di leggere un classico, non li amo: mi pesa lo stile e non mi interessano le tematiche che trattano. Per questioni sociopolitiche la mia ritrosia raggiunge l'apice nei confronti degli autori russi, quindi posso dire che la traccia di aprile "Letteratura russa, leggi un libro di uno di questi autori: Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Puskin, Gogol, Sholokhov, Bulgakov o Turgenev" è stata per me di gran lunga la peggiore fra le tantissime che ho affrontato negli oltre cinque anni di Reading Challenge.

Siccome partecipare alla Challenge non significa essere obbligati a soddisfare ogni traccia, questa l'avrei sicuramente saltata se mio marito non mi avesse messo davanti questo librino di Tolstoj.

Delle 93 pagine la parte più sostanziosa è la prima, "Il primo gradino" pubblicato nel 1892, a cui segue "Contro la caccia" (1895). In fondo sono riportati una lettera scritta da Tolstoj a Elena Andreevna Telesova nel 1899, alcuni stralci del suo diario risalenti al 1904 e un bel ricordo scritto dalla figlia Tatiana.

Nella prima parte de "Il primo gradino" ho trovato tutta la pesantezza che temevo, sia per il lessico, sia per gli argomenti: un'analisi sulle differenze fra la dottrina cristiana e quella pagana, l'importanza dell'astinenza dai piaceri materiali, considerazioni sulla vita depravata e sulla vita morale, ecc, ecc...

Ero già vicina alla metà quando finalmente è iniziata la parte interessante.

Ignoravo che Tolstoj a un certo punto della sua esistenza fosse diventato vegetariano (come lo furono Pitagora, Plutarco, Socrate, Shopenhauer, Da Vinci, Ippocrate, Einstein, ecc). Qui racconta della visita che fece al macello pubblico di Tula, un'esperienza che dovrebbe avere il coraggio di fare chi la carne la mangia perchè, come scrive Tolstoj, se lo fai "bisogna anche vedere come gli animali vengono macellati".
Troppo comodo essere ipocriti come la signora che nel saggio "mangia questo cadavere di volatile con l'assoluta sicurezza del suo buon diritto" ma sostenendo che "lei è così sensibile che è incapace non solamente di far soffrire un animale, ma neppure di sopportare la vista delle sue sofferenze".
Quante ce ne sono di persone così, tutti quelli che dicono di amare gli animali e che poi amano anche ritrovarseli nel piatto!

Il macello di Tula visitato da Tolstoj era stato costruito "secondo l'ultimo modello perfezionato, in modo che gli animali che vi si uccidono soffrano il meno possibile". Poi descrive il modo in cui ha visto ammazzare un toro, dei buoi, dei maiali, degli agnelli e c'è solo sofferenza.
Io non avrei mai la forza per assistere a questi orrori, ma io la carne non la mangio.

E se pensate che adesso gli animali che mangiate siano arrivati nella vostra bocca senza soffrire avete torto. Abbiate almeno il coraggio di aprire questo link di Essere animali e se non ve la sentite fatevi due domande e datevi due risposte prima di ingoiare la prossima fetta di prosciutto!

"Non si può far finta di ignorare tutto questo. Non siamo struzzi, né possiamo pensare che se noi non guardiamo quello, che ci rifiutiamo di vedere, non c’è. Soprattutto quando la cosa che non vogliamo vedere è ciò che stiamo mangiando."
Purtroppo Tolstoj riponeva un'immeritata fiducia nel genere umano. Sia ne "Il primo gradino" sia nella lettera alla Telešova si diceva "convinto che nel prossimo secolo la gente racconterà con orrore e ascolterà con dubbio come i loro antenati ammazzavano gli animali per mangiarli". Centotrent'anni dopo la percentuale delle persone capaci di fare questa scelta etica è ancora troppo scarsa, nonostante adesso il problema ambientale dovrebbe aiutare a dare una spinta raziocinante in questo senso. E invece essere vegetariani e, soprattutto, vegani viene visto come un qualcosa da ostacolare e/o deridere. In questo dai tempi di Tolstoj non è cambiato molto: "Vi avverto, tuttavia, che se smetterete di mangiar carne, incontrerete una fortissima resistenza, anzi un’irritazione". La parte "Contro la caccia" risulta ancora più interessante perché Tolstoj è stato a lungo un appassionato cacciatore e quindi sa spiegare molto bene quale appagamento dà la caccia in chi la pratica smantellandone le giustificazioni e mettendone a nudo la realtà: "Da qualunque lato la riguardiamo, la caccia è un atto stupido, crudele, inumano e sanguinario". E ancora: "Checché se ne dica, il piacere dominante della caccia è nel perseguitare ed uccidere gli animali".
E purtroppo anche su questo tema non si è rivelato buon profeta: "L’umanità dell’avvenire ne parlerà con la stessa ripugnanza che noi proviamo oggi per la schiavitù e la tortura, come errori di altri tempi, che la civiltà ha abolito".
"La sopraffazione, la perfidia, le trappole, l’imboscata, l’assalto di molti ad un solo, del forte contro il debole, il ratto dei piccini ai genitori e viceversa": questa è la caccia, lo era ai tempi di Tolstoj, lo è a maggior ragione adesso.

Una lobby di assassini codardi.

Reading Challenge 2022, traccia di aprile: un libro di un autore russo fra quelli indicati


venerdì 1 aprile 2022

Reading Challenge: le tracce di aprile

 

 
Primo gruppo (un solo libro per traccia):

  • un libro collegabile a P. L. Travers
    "La zia marchesa", Simonetta Agenllo Hornby (3 punti)
  • un libro di un autore russo fra quelli indicati
    "Contro la caccia e il mangiar carne", Lev Tolstoj (1 punto)
  • un libro di uno scrittore italiano
    "Undici morti non bastano", Raffaele Malavasi (5 punti)
  • un libro con titolo e autore scritti in maiuscolo
    "Le luci del Titanic", Hugh Brewster (3 punti)
  • un libro con il nome di un fiore nel titolo
    "Ninfee nere", Michel Bussi (4 punti + 1 punto foto)

Secondo gruppo (un solo libro per traccia, solo se si sono letti i cinque libri delle tracce del primo gruppo):

  • Un libro con una croce in copertina
  • Un libro con un protagonista religioso
  • Un libro con una o più parole straniere nel titolo
  • Un libro con una piuma in copertina
  • Un libro scritto da una donna
    "Un incantevole aprile", Elizabeth von Arnim (3 punti)

Traccia bonus (uno o più libri): 
libri senza figure umane in copertina
  • "Scomparsa", Joyce Carol Oates (5 punti)
  • "Luce della notte", Ilaria Tuti (2 punti + 1 punto foto)
 
 
I miei punti = 28



Iscrizioni sempre aperte QUI
Casata: L'ordine della fenice