Portland (Oregon), inizio estate di un anno non precisato. Charley Thompson ha soltanto 15 anni e ha appena affrontato l'ennesimo trasloco seguendo suo padre, Ray, per il quale è normale spostarsi nel Nord Ovest del Paese inseguendo un lavoro meglio retribuito o scappando dalle conseguenze di qualcosa che ha fatto.
Charley a Spokane stava bene, gli piaceva la scuola ed era stato incluso nella squadra di football. Diventare una stella della NFL è il suo sogno, quello che lo fa andare avanti accontentandosi del poco che ha, una vita a cui mancano molte cose, non solo la stabilità territoriale. Manca l'amore di una madre, perché lui la sua neppure la ricorda, e spesso manca il cibo, perché il padre a volte sparisce per qualche giorno e lui è costretto a rubare per poter mangiare. Un'esistenza misera che diventerà ancora più disgraziata, portandolo a scappare insieme a Lean on Pete, un cavallo di cinque anni, con il manto nero, un segno bianco sul muso e le zampe malandate. Pete è il suo unico amico e Charley non può permettere che finisca in un macello messicano solo perché l'avidità del suo padrone lo ha portato allo stremo.
Se a Frank e Jerry Lee di "Motel Life" e ad Allison di "Verso Nord" mi ero affezionata, Charley e Pete li ho proprio amati.
Scritto nel 2010, titolo originale "Lean on Pete", è il terzo romanzo pubblicato da questo immenso autore che ogni volta mi rapisce e mi conquista con le sue storie che raccontano quell'America che a molti dei suoi figli non offre nulla di patinato né di invidiabile e con i suoi personaggi pescati fra gli ultimi, così disperati da suscitare una sofferenza che, razionalmente, non ha senso provare per figure di fantasia, ma che pagina dopo pagina diventa sempre più autentica.
Nella sinossi Vlautin viene paragonato a Steinbeck, di cui non ho mai letto nulla, ma che adesso voglio recuperare.
Leggere questo libro e non affezionarsi a Charley (confronto al quale David Copperfield è un fortunello) e a Pete, non soffrire per loro, soprattutto non farsi due domande su come l'andamento della vita spesso sia solo una questione di fortuna determinata dalle carte che vengono assegnate alla nascita (salute, luogo, famiglia, situazione patrimoniale, eccetera) e su quanto sia difficile il riscatto quando - letteralmente - va tutto storto, significa aver avuto delle buone carte e fregarsene degli altri, vuol dire non essere delle brave persone.
Charley è il narratore della sua storia, un resoconto di fatti e di azioni, spesso ripetitivo, senza diventare mai noioso, la quotidianità di un ragazzino che vorrebbe solo avere un letto e dei pasti regolari, poter studiare e fare sport, avere qualche amico.
E poi c'è Lean on Pete e con lui la sorte è stata ancor più bastarda, sfruttato dall'uomo fino a perderci la salute diventando così inutile e sacrificabile.
Charley a Spokane stava bene, gli piaceva la scuola ed era stato incluso nella squadra di football. Diventare una stella della NFL è il suo sogno, quello che lo fa andare avanti accontentandosi del poco che ha, una vita a cui mancano molte cose, non solo la stabilità territoriale. Manca l'amore di una madre, perché lui la sua neppure la ricorda, e spesso manca il cibo, perché il padre a volte sparisce per qualche giorno e lui è costretto a rubare per poter mangiare. Un'esistenza misera che diventerà ancora più disgraziata, portandolo a scappare insieme a Lean on Pete, un cavallo di cinque anni, con il manto nero, un segno bianco sul muso e le zampe malandate. Pete è il suo unico amico e Charley non può permettere che finisca in un macello messicano solo perché l'avidità del suo padrone lo ha portato allo stremo.
Struggente
Se a Frank e Jerry Lee di "Motel Life" e ad Allison di "Verso Nord" mi ero affezionata, Charley e Pete li ho proprio amati.
Scritto nel 2010, titolo originale "Lean on Pete", è il terzo romanzo pubblicato da questo immenso autore che ogni volta mi rapisce e mi conquista con le sue storie che raccontano quell'America che a molti dei suoi figli non offre nulla di patinato né di invidiabile e con i suoi personaggi pescati fra gli ultimi, così disperati da suscitare una sofferenza che, razionalmente, non ha senso provare per figure di fantasia, ma che pagina dopo pagina diventa sempre più autentica.
Nella sinossi Vlautin viene paragonato a Steinbeck, di cui non ho mai letto nulla, ma che adesso voglio recuperare.
Leggere questo libro e non affezionarsi a Charley (confronto al quale David Copperfield è un fortunello) e a Pete, non soffrire per loro, soprattutto non farsi due domande su come l'andamento della vita spesso sia solo una questione di fortuna determinata dalle carte che vengono assegnate alla nascita (salute, luogo, famiglia, situazione patrimoniale, eccetera) e su quanto sia difficile il riscatto quando - letteralmente - va tutto storto, significa aver avuto delle buone carte e fregarsene degli altri, vuol dire non essere delle brave persone.
"La gente dice che quando piangi poi ti senti meglio ma a me non succedeva, non cambiava niente, anzi, mi sentivo sempre più stanco e confuso"
Charley è il narratore della sua storia, un resoconto di fatti e di azioni, spesso ripetitivo, senza diventare mai noioso, la quotidianità di un ragazzino che vorrebbe solo avere un letto e dei pasti regolari, poter studiare e fare sport, avere qualche amico.
E poi c'è Lean on Pete e con lui la sorte è stata ancor più bastarda, sfruttato dall'uomo fino a perderci la salute diventando così inutile e sacrificabile.
"Pete è come in prigione, qui. Credo proprio che la chiamerei così, se fossi rinchiusa in una cella per ventitré ore al giorno, poi mi tirano fuori e mi fanno correre e mi rimettono dentro."
Il destino dei cavalli negli ippodromi, analogo a quello degli animali rinchiusi negli zoo, negli acquari e in qualunque trappola inventata dall'uomo per il proprio divertimento e tornaconto.