lunedì 25 maggio 2020

"La ragazza dello Sputnik", Haruki Murakami


Tokyo, anni ‘90. E’ primavera quando le vite di Sumire e di Myu si incrociano. Invitate a un matrimonio, si ritrovano sedute allo stesso tavolo. Sumire ha 22 anni, studia all’università, veste in modo bizzarro, sogna di diventare una scrittrice e nel frattempo si perde nei libri scritti da altri. Parla lo spagnolo e questo incuriosisce Myu al punto da assumerla come segretaria perché lei importa vini dall’Europa e, se Sumire sa già lo spagnolo, non avrà difficoltà ad imparare anche l’italiano. E Sumire finisce con l’innamorarsi per la prima volta nella vita: non dell’amico coetaneo innamorato di lei (che è la voce narrante), ma proprio di Myu, che potrebbe quasi essere sua madre, che ha un marito e che da quattordici anni non riesce più ad amare nessuno.

Ecco qui il Murakami onirico di cui mi avevano parlato e che tanto temevo… Fino a poco più della metà il romanzo è bello e razionale, anche con una gradevole sfumatura gialla in sottofondo. Poi arriva il sogno e il mio conseguente smarrimento. Non è diventato un brutto libro, non può essere brutto un libro scritto così bene! Ma un libro piace se soddisfa determinati requisiti a livello personale e trovo difficile entusiasmarmi per una storia che mi lascia troppi punti interrogativi, che mischia il reale all’irreale, che alla fine non chiarisce cosa è successo davvero e cosa è stato solo immaginato, chi si è salvato e chi no.

Quindi il libro (o meglio, la seconda parte) non mi è piaciuto, ma mi è piaciuto leggerlo: perché ho ritrovato tutti gli aspetti che mi avevano già conquistata di Murakami, la sua grande introspezione, la pacatezza dei suoi personaggi e in generale la serenità che riesce a trasmettermi anche grazie a quella solitudine triste che per ora ho ritrovato in tutti gli autori giapponesi (pochi) che ho letto.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di maggio "scegli una casa editrice e leggi libri solo di quell'editore". Ho scelto Einaudi