giovedì 17 agosto 2023

"La notte, il sonno, la morte e le stelle", Joyce Carol Oates

 


"Anima, è l’ora tua, per il libero volo nell’ineffabile,
Via dai libri, dall’arte, il giorno cancellato, la lezione finita,
Tutta ne emergi, e in silenzio scruti, considerando i temi che più ami,
La notte, il sonno, la morte e le stelle."

Walt Whitman

Hammond (Stato di New York), 18 ottobre 2010. Il 67enne John Earle “Whitey” McClaren sta rientrando a casa dopo un pranzo di lavoro quando, lungo la statale, nota qualcosa che lo porta a fermarsi intimando ai due agenti di polizia di smettere di colpire il giovane di colore steso al suolo. Editore e pubblicitario di successo, sa di essere "un nome" per gli abitanti della cittadina, di cui è stato anche sindaco. Whitey non ha neppure pensato che - essendo passati 25 anni dai due mandati - il suo volto non è poi così noto come lui pensa. E neppure l'età e la pelle bianca lo salvano dall'ira dei due poliziotti che - dopo aver massacrato il dottor Azim Murthy, reo di non essere caucasico - si avventano sull'anziano, colpendolo con calci, pugni e diversi colpi di taser. Saranno questi a mandare in coma Whitey che, dopo una decina di giorni di ricovero, non uscirà vivo dall'ospedale.
E quando finisce la sua storia, inizia quella delle vedova e dei cinque figli della coppia.

Chi, come me, ha amato "Una famiglia americana" non deve farsi intimorire dalla mole di questo romanzo, ma ringraziare la Oates per averci regalato una storia bella quasi quanto quella. Io, che preferisco i romanzi brevi ai mattoni, ho aspettato le ferie per affrontarlo: 832 pagine non sono uno scherzo, ma quando questa mattina ho letto l'ultima mi è dispiaciuto che non ce ne fossero altre.

La storia si sviluppa in un modo molto diverso da quello che mi aspettavo e dalla direzione che la vicenda sembra prendere nella prima (corposa) parte. La Oates esordisce con tutta la tragicità dell'aggressione subita dal protagonista (che resta tale nonostante la morte) e il solo difetto del libro è quello di non spiegare perché un ex sindaco repubblicano - un uomo le cui idee vengono più volte esplicitate durante la lettura ("Nelle dispute tra cittadini e dipartimento, si era sempre schierato dalla parte di quest’ultimo, persino quando era legittimo presumere che le forze dell’ordine avessero commesso atti illeciti e violazioni di diritti civili. Il loro è un compito gravoso. Sono costretti a prendere decisioni delicate. Rischiano la vita. Non serve a niente giudicare con il senno di poi i nostri valorosi tutori dell’ordine. Erano queste le parole di Whitey, alla lettera. Accompagnate da quella sua seriosa espressione al limite dell’arcigno. Da buon politico, difendere la linea anche negando l’evidenza. Prendevi una posizione pubblica e la mantenevi strenuamente. Prendevi una posizione che ti procurava forza, approfittando della forza di un alleato che eri disposto a proteggere e sostenere a prescindere che lo meritasse o meno, così come un giorno, per il principio del do ut des, il tuo alleato avrebbe protetto e sostenuto te, a prescindere che lo meritassi o meno.") - abbia deciso di intervenire nel pestaggio di un uomo di colore (che lui considerava "una minaccia per la maggioranza bianca") da parte di due agenti bianchi (quel tipo di poliziotti che chiamava "ragazzi, teste calde" e per cui "trovava sempre giustificazioni").

Particolare non da poco, ma l'antefatto, la doppia aggressione, apre il libro a considerazioni sul razzismo e sull'abuso di potere che è impossibile non condividere.
Dopo la morte di Whitey il libro sembra prendere la strada della causa giudiziale che avevo immaginato. Invece non si avvicina neppure al tribunale. Il libro non è un giallo, né un legal-thriller. E' la storia di una famiglia e dei suoi componenti, con un padre e marito accentratore che morendo manda in frantumi quegli equilibri soprattutto apparenti.

A essere fragili sono specialmente i rapporti fra fratelli e sorelle. I cinque figli McClaren - Thom, Beverly, Lorene, Sophia e Virgil, scodellati dalla coppia in una decina d'anni - sono pieni di quell'acredine che forse si genera quando scatta la competizione nell'essere il preferito di mamma e papà. I due più giovani sono una blanda eccezione, ma la loro (relativa) unione sembra essere generata più dal bisogno di coalizzarsi per far fronte ai tre maggiori che da un reale sentimento.

Sono comunque tutti figli adulti e i dettagli delle loro vite, raccontati nel corso dei vari capitoli (tanti, da brevissimi a lunghissimi, in pieno stile Oates), compongono man mano l'anagrafica e il passato di ognuno, come a formare un puzzle.

E poi c'è Jessalyn, la vedova 61 enne, una donna a cui non è mai pesato vivere un passo indietro rispetto al marito ricoprendo i ruoli di "moglie di" e "madre di". Riuscirà a farcela? Imparerà a essere semplicemente Jessalyn?
E' lei che genera la vena romantica non certo secondaria nel libro, al limite dall'essere disturbante (per me), non perché stucchevole (la Oates è la Oates), ma perché troppo precoce nei tempi.

Ben più apprezzabile l'aver fatto di Sophia una ricercatrice, mestiere che la ragazza abbandona dicendo alla madre “Non riuscivo più a torturare e uccidere animali" e che permette alla Oates di descrivere il terrore delle cavie da laboratorio:

"Intere pareti di gabbiette. Spaventati, tremanti piccoli roditori. Squittio nervoso. Alcuni esemplari sono gonfi e spelacchiati, alcuni anoressici, rinsecchiti. Certi appaiono robusti, persino sovreccitati. Quasi tutti gli altri sono indeboliti. I piccoli corpi di alcuni sono pieni di tumori che forse si sono ridotti, forse no.
Piccoli roditori, inoculati con diverse varianti di cellule tumorali. Per fasi successive nei roditori vengono iniettati composti farmaceutici “antitumorali” e, nel corso del tempo, per fasi accuratamente calibrate, le cavie vengono dissezionate in modo da accertare se i tumori che invadono i loro piccoli corpi si sono ridotti. Se compaiono effetti collaterali – (ovvio che compaiano effetti collaterali) – questi vengono debitamente registrati. Il progetto Lumex consiste in una complicatissima sequenza di esperimenti sovrapposti che negli anni impiegherà migliaia di animali da laboratorio."

Invece il tacchino sacrificato per il Ringraziamento entra in scena già morto.

"Brianna stava guardando il tacchino “bio” da sette chili e quattro come se fosse un cadavere umano. Allevato in modo che gli venisse il petto grande, il corpo di conseguenza deforme. Ormai i tacchini per il Ringraziamento subivano tecniche di allevamento così grottesche, a beneficio degli americani che prediligevano la carne bianca, che le povere bestie facevano fatica a camminare e i più grossi, dal peso di quasi dieci chili, non ci riuscivano proprio.
Pelle bianca e viscida, tutta ricoperta di puntini, Beverly e Brianna rabbrividirono entrambe al solo toccarla. E quell’odore. Carne bagnata, morta. Carne un tempo viva, e adesso no."

E cuocendo resta carne morta, aggiungo io. La cottura la rende masticabile, più digeribile, ne evita la putrefazione, ma resta quello che è, carne morta e ve la mangiate.

Reading Challenge 2023, traccia annuale di giugno: un libro con più di 400 pagine