domenica 23 gennaio 2022

"Una famiglia americana", Joyce Carol Oates



New Jersey (Stati Uniti), febbraio 1976. E' dall'estate del 1955 che i Mulvaney abitano alla High Point Farm, una tipica fattoria americana dal particolare color lavanda. Un padre, una madre, tre figli maschi, una femmina e poi cani, gatti, cavalli e il canarino Piumotto. Due genitori molto diversi tra loro, così come nessun figlio somiglia a un altro, ma un nucleo legato, allegro, sereno e ben integrato nella vita provinciale della contea.
Finchè nel febbraio del '76 tutto cambia: un membro della famiglia subisce qualcosa di devastante non solo per sé, ma per l'intera famiglia che non riesce nè a compattarsi nè a reagire nel modo giusto, e che - insieme all'intera comunità e al sistema giudiziario - intrisi di perbenismo, bigottismo e maschilismo, riescono a fare la cosa più spregevole (e che succede spesso ancora oggi): colpevolizzare la vittima.

Anche se siamo a gennaio e da qui a dicembre leggerò probabilmente un altro centinaio di libri, so già che questo finirà nella mia top ten.

Scritto nel 1996, tradotto in italiano solo nel 2010, titolo originale "We were the Mulvaneys", trovo sia un libro perfetto per i gruppi di lettura perchè se la sua trama è riassumibile in poche frasi, quello che racconta crea l'esigenza del confronto, il bisogno di esternare i propri pensieri sulle vicende e sui personaggi.

La storia, divisa in quattro parti, ha come voce narrante quella del figlio minore, Judd, nato l'11 luglio 1963, che a trent'anni ci racconta i fatti, non solo quelli cruciali del 1976, ma il prima e il dopo, episodi (pochi) vissuti in prima persona e molti ricordi di altri.

Una narrazione completa e potente, che a tratti mi ha ricordato quella di Roth ne "La macchia umana". La Oates riesce a trasmettere le sensazioni provate dai suoi personaggi portando chi legge a far capire le reazioni, anche se profondamente diverse da quelle che personalmente avrei voluto per loro.

Un libro che mi ha trasmesso un profondo senso di ingiustizia. E di rabbia, nei confronti dei genitori e della famiglia in generale, per il modo in cui si isolano (e soprattutto isolano), prendendo le distanze da chi "quella cosa" l'ha subita, incapaci di affrontarla insieme, non riuscendo a superarla condannandosi al disfacimento.

Ho impiegato più di tre settimane a leggerlo, sia perchè è un bel tomo da 502 pagine, sia perchè è uno di quei libri che mi danno conforto e che quindi non voglio bruciare, come la saga dei Cazalet, in gran parte per lo stile di scrittura appagante e rilassante al di là dei temi trattati, ma anche perchè mi piace sempre di più entrare a far parte, anche se solo da lettrice, di queste grandi famiglie. La mia - che numericamente è sempre stata povera - è ormai ridotta all'osso, solo un marito e una sorella. Invecchiando il passato aumenta e mi ritrovo a pensarci con una frequenza che dieci, venti o trent'anni fa non c'era.

Faccio un appunto a Il Saggiatore: non che le copertine americane siano più belle, anzi, ma perchè scegliere di mettere il disegno di villette a schiera che non hanno nessun rimando alla storia anzichè chiedere a un illustratore di immaginare una fattoria color lavanda con la base in pietra?

Viceversa ho amato il modo in cui l'autrice fa diventare piccoli protagonisti anche gli animali. Alcuni finiscono immancabilmente mangiati (con personaggi umani in una storia è impossibile che un libro sia vegano, lo sto cercando da anni...), ma ce ne sono tantissimi molto amati e hanno nomi adorabili, dal cavallo Trifoglio al canarino Piumotto e in mezzo i cani Stivaletti, Tremulo, Seta con i gatti Lentiggini, Maschiaccio e Ciambella. Ma soprattutto Focaccina! Non so quando si aggiungerà un nuovo membro alla mia tribù, ma chiunque sarà ha già il suo nome, il massimo per un gattino o per una gattina genovese ^^

Il libro regala tante meravigliose dichiarazioni di amore per gli animali e fra le tante ho scelto di ricordare questa:

"Adoravo quelle creature selvatiche. Non avrei mai potuto cacciarle. Non avevano nomi, a differenza degli animali di High Point Farm. Non potevi chiamarle, o identificarle. Di giorno, non appena le intravedevi, svanivano. Come per rifiutare l'autorità dei tuoi occhi. Avevano il potere di apparire e scomparire. E così doveva essere: non come nel libro della Genesi, dove Adamo dà nome alle creature di terra, mare e cielo, e Dio gli concede il dominio su di loro. Niente affatto.
Il mese successivo si sarebbe aperta la stagione della caccia ai cervi nella valle di Chautauqua e dall'alba al tramonto avremmo sentito i maledetti fucili esplodere colpi tra boschi e campi, visto i furgoni dei cacciatori parcheggiati a lato della strada e spesso sulla nostra proprietà. Ogni anno (grazie a una legge della contea a favore dei "diritti dei cacciatori") papà doveva disseminare sulla nostra proprietà nuovi cartelli a lettere arancio con DIVIETO DI CACCIA DIVIETO DI PESCA se volevamo tenere lontani i cacciatori, ma i cartelli, disposti ogni cinquanta metri, facevano poca differenza: i cacciatori facevano quello che volevano, quello per cui sarebbero rimasti impuniti. Per l'intero inverno non avevamo praticamente visto una sola cerva nei pressi di casa, e di rado qualche maschio. I maschi dei cervi venivano uccisi per farne teste impagliate con i palchi di corna da appendere alla parete come trofei. Orribili occhi di vetro nelle orbite che un tempo contenevano occhi vivi. Mamma piangeva di rabbia nel vedere i corpi dei cervi attaccati ai parafanghi dei veicoli dei cacciatori, carne ormai morta, e a volte si metteva a parlare con loro, coraggiosamente, forse avventatamente. Diceva che uccidere per puro divertimento è da delinquenti."

Reading Challenge 2022, traccia di gennaio: un libro incentrato su una famiglia