Seattle (Stati Uniti), 1974. Ann Rule è una donna divorziata di 43 anni che - da sola, con quattro figli - fatica a tirare avanti con il suo lavoro di giornalista freelance. Per via della sua precedente esperienza in polizia, si occupa di cronaca nera. In quel momento sta scrivendo degli articoli per la rivista "True detective" su una serie di omicidi irrisolti di giovani donne. La somiglianza fra le vittime e il modus operandi hanno già spinto gli investigatori a parlare di un serial killer. Ci sono anche delle testimoni, ragazze che grazie alla fortuna o alla diffidenza solo in seguito hanno capito di aver rischiato la vita quando un uomo giovane e bello si era avvicinato a loro chiedendo se potevano aiutarlo. Un uomo che si era presentato con il nome di Ted.
E' a quel punto che Ann Rule si rende conto che ogni dettaglio e ogni descrizione sembrano descrivere un ragazzo che lei ha conosciuto tre anni prima quando era volontaria al telefono amico della Crisis Clinic: Ted Bundy.
Una conoscenza fortuita che, a mio modo di vedere e senza biasimo, la Rule sfruttò alla grande, non solo con la stesura di questo libro e di centinaia di articoli, ma anche con interviste, dibattiti e consulenze che avevano fatto di lei un'esperta di serial killer, cosa che secondo me non era. La profilazione criminale richiede competenze specifiche che - ammesso che la Rule le avesse - non emergono dal libro. Ho avuto anche la netta impressione che abbia opportunamente esagerato nel descrivere la profondità e l'importanza del suo legame con Bundy e la reciproca conoscenza.
Un compagno di bevute notturne, o simil tale, lo abbiamo avuto tutti e tutti sappiamo come determinate circostanze generino un clima favorevole alle confidenze, la cui portata è spesso inversamente proporzionale al livello di conoscenza che abbiamo dell'altra persona. Non metto in dubbio che nel '71 l'allora venticinquenne Bundy sia stato un buon ascoltatore per gli sfoghi della quarantenne Rule - fresca di divorzio, con un futuro professionale incerto e con una situazione economica precaria - e che sia stato capace di infonderle fiducia convincendola che valeva "ancora qualcosa, che ero una donna con molto da dare e da prendere. Era presente, mi ascoltava, mi rassicurava, dava credibilità a quello che stavo cercando di diventare". Ma resta il fatto che i due parlavano più o meno brevemente nei ritagli di tempo fra una telefonata e l'altra in arrivo a telefono amico, senza frequentarsi al di fuori di quel contesto, perdendosi di vista alla cessazione dell'attività presso la Crisis Clinic e che solo i reciproci ruoli di sospettato e di giornalista interessata alla vicenda hanno successivamente portato alla ripresa dei contatti.
A me sembra poco per arrivare a considerare quell'uomo come un figlio o come un fratello e fatico a credere alla sincerità dell'autrice quando afferma: "Sotto molti aspetti mi è stato più vicino di qualunque altro uomo".
Di sicuro lei con lui non ha dato prova di particolari abilità di profiling, tanto che in tutta la parte che costituisce il libro originario scritto nel 1980 (in questa edizione vi è l'aggiornamento del 1986, un ultimo capitolo scritto nel 1989 tre mesi dopo l'esecuzione di Bundy e un'ultima appendice del 2000) la Rule dubita della colpevolezza di Bundy.
"Se, come molte persone credono oggi, Ted Bundy ha stroncato vite umane, bisogna dire che ne ha anche salvate. So che è vero perchè ero presente quando è accaduto"
Sì, va bè, anche Hitler amava i gattini...
Non voglio addentrarmi in un discorso riguardante la validità delle prove a carico, nè disquisire sulla pena di morte: il processo che ne sancì la condanna alla sedia elettrica riguardava tre casi (gli ultimi tre omicidi compiuti in Florida), ma lo stesso Bundy in seguito confessò di aver ucciso 26 donne e c'è il sospetto che siano state molte di più. Dal libro emerge anche il dubbio che il primo assassinio non sia stato compiuto nel '74, ma addirittura nel 1961, quando Bundy aveva appena 15 anni!
Sono contraria alla pena di morte, ma di certo non si può dire che quel 24 gennaio 1989 il mondo abbia perso qualcuno degno di respirare ancora. E avrei preferito che dalla Rule arrivassero parole di condanna, non solo di dispiacere. Il fatto che fosse un suo conoscente per me non giustifica la scarsa empatia manifestata nei confronti delle vittime, i rimorsi per aver danneggiato quel "povero ragazzo" con i suoi articoli, il rimpianto per non aver fatto nulla per evitargli la pena di morte.
Non puoi dire di un serial killer di questo calibro: "Le donne furono la sua maledizione"!!
Ma la Rule mi ha fatto una brutta impressione non solo come persona, ma anche come scrittrice: lo stile è giornalistico, ma non certo da grande firma, piuttosto in linea con quello adatto a una rivista come "True detective" che immagino simile a quelle italiane tipo "Giallo" che - con il loro gossip macabro - per me rappresentano il livello più basso di ciò che arriva in edicola.
E, nonostante l'asso nella manica dell'aver conosciuto Bundy, il suo modo di scrivere tende più ad annoiare che a coinvolgere. Arriva a 555 pagine ripetendosi e dilungandosi con descrizioni e dettagli inutili, ma senza aggiungere nulla di concreto rispetto alla pagina dedicata all'assassino su Wikipedia.