Una città qualunque del Belgio, 10 novembre 2018. E' un pomeriggio autunnale, reso ancora più cupo dalla fitta pioggia. Con un tempo del genere bisogna guidare con la massima concentrazione, non certo con la mente offuscata dalla marijuana. E, anche senza aver assunto droghe e in una bella giornata di sole, non si dovrebbe mai distrarsi per cercare qualcosa dentro al cruscotto mentre si sta guidando. Basta un attimo per invadere l'altra corsia e andare a sbattere contro un altro mezzo...
L'impatto è tremendo, muoiono un bambino di 7 anni e un ragazzo di 19, ma quell'incidente finirà per stravolgere e spezzare anche la vita di tante altre persone coinvolte più o meno direttamente: Solange, Nicole, Maude e, ovviamente, la Alice che dà il titolo al romanzo...
Giusto una decina di giorni fa parlando con mio marito mi lamentavo per la ripetitività dei thriller psicologici che tendono a sfruttare sempre i soliti tre o quattro filoni (la protagonista senza memoria, la ragazza che torna a casa dopo essere stata rapita da bambina e segregata per anni, i due gemelli che per un qualche motivo non si sa più come distinguere, ecc) generando la fastidiosa sensazione di "già letto".
E chiudevo il discorso dicendo: "E poi non c'è mai un autore che abbia il coraggio di..."...
Ecco, di fare quella cosa che, invece, la Abel ha fatto. Un qualcosa di spiazzante che, unito alla trama diversa dal solito, rende il suo libro decisamente originale.
Come ne "La bambina nel bosco", opera prima letta due anni fa, anche questa volta l'autrice crea un storia cupa e un intero ventaglio di personaggi spregevoli, tutti poco inclini ad assumersi le proprie responsabilità, tutti incuranti del prossimo, anche quando quel prossimo è molto legato a loro.
Situazioni estreme che portano a reazioni e a conseguenze altrettanto esagerate, da cui non tutti riescono a uscire e dove quelli che ce la fanno non ne escono comunque bene.
Anche questo romanzo, come il precedente, è di quelli che fanno male: i thriller, anche quelli cruenti, appartengono alla narrativa di svago, ma la Abel colpisce duramente arrivando a privare il momento della lettura della sua funzione di passatempo e, se anche certe tematiche fanno male, questa non è una cosa negativa perchè fa riflettere e, esattamente come con l'altro suo lavoro, rincuora, per lo meno chi può onestamente pensare di non essere infame come i personaggi che sta leggendo.
Ed è un libro che merita di essere letto, meglio se preparati a quello che si sta per affrontare, ma di cui non tutto mi ha convinta...
Lo stile narrativo - con l'uso del presente e di frasi per lo più brevi, che penso sia finalizzato a rendere più pungente e incalzante il racconto - mi ha disturbata.
L'abuso di frasi ad effetto: nesuna è utile alla storia, finiscono solo per appesantire il libro che sarebbe stato più piacevole se più snello.
Un aspetto della storia si basa su un conflitto di interesse clamoroso e non basta che l'autrice scriva: "La burocrazia ha permesso una tale situazione solo grazie alla differenza di cognome..." per ottenere quel nulla osta inconcepibile nella vita reale.
Da favorevole, quale sono, alla legalizzazione delle droghe leggere, non condivido la criminalizzazione arbitraria che ne fa l'autrice.
Ma soprattutto mi ha dato molto, molto fastidio la discriminazione che fa della famiglia allargata rispetto a quella tradizionale, arrivando ad affermazioni come "Le famiglie allargate hanno i loro limiti" e a domande come "La famiglia allargata è davvero una famiglia?".
Sì che lo è, così come i limiti possono esserci in una famiglia "tradizionale": i pro e i contro non vengono determinati dalla tipologia, ma dalle persone che la compongono e quando sono delle latrine umane come i personaggi che ti inventi, cara la mia Abel, non si salva nessuno!