Vienna, anni Venti del secolo scorso. E' il giorno del quarantunesimo compleanno di R., romanziere di successo che si gode la vita senza legami. E' appena rientrato da una breve vacanza in montagna e si accomoda in poltrona, sorseggiando il tè che gli ha preparato il solerte domestico. Accanto a lui la pila di missive arrivate durante la sua assenza. Mette da parte la busta più voluminosa, riprendendola in mano solo dopo aver letto anche i giornali. Ne estrae una ventina di fogli, scritti fittamente da una calligrafia femminile. Non sono firmati, come non c'è mittente sulla busta.
Questa è l'intestazione e l'inizio racconta subito qualcosa di atroce: chi ha scritto gli dice che il giorno prima il suo bambino è morto e che, se adesso sta leggendo quella lettera, vuol dire che anche lei non c'è più. E prosegue raccontandogli la sua breve esistenza, vissuta amandolo senza che lui ne sapesse mai nulla.
Sono tante le cose che Stefan Zweig (1881 - 1942) - autore viennese di moltissimi saggi, di molti racconti e di alcuni romanzi - fa dire alla sua sconosciuta in questo racconto lungo (o romanzo breve, 96 pagine appena) scritto nel 1922.
Una lettura veloce nei tempi (l'ho iniziato e finito venerdì sera, non riuscendo a staccarmici), ma più ricca e intensa di tanti "romanzoni". Uno stile ricercato, ma non del tutto antiquato, che non dimostra affatto i suoi cento e passa anni.
Una lettura triste e non solo perché fin dal principio sappiamo che non ci sarà alcun lieto fine.
Come è stata triste anche la vita (o quanto meno l'epilogo) di Zweig, pacifista e antifascista di origini ebraiche, fra le opere bruciate dai nazisti nel 1933 c'erano anche le sue (la Germania nazista arrivò a ritenerlo l'intellettuale ebreo più pericoloso), portandolo a lasciare l'Austria per Londra nel 1934, trasferendosi poi a New York nel 1939 e quindi in Brasile nel 1941 dove morì suicida l'anno successivo.
"A te, che mai mi hai conosciuta"
Questa è l'intestazione e l'inizio racconta subito qualcosa di atroce: chi ha scritto gli dice che il giorno prima il suo bambino è morto e che, se adesso sta leggendo quella lettera, vuol dire che anche lei non c'è più. E prosegue raccontandogli la sua breve esistenza, vissuta amandolo senza che lui ne sapesse mai nulla.
Sono tante le cose che Stefan Zweig (1881 - 1942) - autore viennese di moltissimi saggi, di molti racconti e di alcuni romanzi - fa dire alla sua sconosciuta in questo racconto lungo (o romanzo breve, 96 pagine appena) scritto nel 1922.
Una lettura veloce nei tempi (l'ho iniziato e finito venerdì sera, non riuscendo a staccarmici), ma più ricca e intensa di tanti "romanzoni". Uno stile ricercato, ma non del tutto antiquato, che non dimostra affatto i suoi cento e passa anni.
Una lettura triste e non solo perché fin dal principio sappiamo che non ci sarà alcun lieto fine.
Come è stata triste anche la vita (o quanto meno l'epilogo) di Zweig, pacifista e antifascista di origini ebraiche, fra le opere bruciate dai nazisti nel 1933 c'erano anche le sue (la Germania nazista arrivò a ritenerlo l'intellettuale ebreo più pericoloso), portandolo a lasciare l'Austria per Londra nel 1934, trasferendosi poi a New York nel 1939 e quindi in Brasile nel 1941 dove morì suicida l'anno successivo.
L'umanità dell'uomo in questa lettura emerge con la descrizione che la donna fa del luogo in cui dovette partorire, l’Ospizio di Maternità, "mattatoio del pudore", che accoglieva donne bisognose, reiette, dimenticate, tutte caratterizzate dalla miseria.
"Quel che la povertà deve subire in fatto di umiliazioni, di oltraggi fisici e morali, io l’ho patito laggiù"
Alla fine resta solo da chiedersi se sia la morte l'aspetto più triste di questa storia.
Secondo me, no.