giovedì 17 dicembre 2020

"Ragione e sentimento", Jane Austen

Sussex (Inghilterra), epoca georgiana. Henry Dashwood muore convinto che il figlio di primo letto John manterrà la promessa e si prenderà cura della matrigna e delle tre sorellastre. Il defunto non ha dato il giusto peso all'avidità di John e, soprattutto, a quella di Fanny, sua degna consorte: i due non aspettano nemmeno il raffreddamento del corpo per prendere possesso della casa e per Fanny sarà semplicissimo convincere il marito che per mantenere fede alla promessa fatta al padre morente non sia necessario elargire chissà quali cifre alle sue sorellastre.
Per la vedova di Henry sarà un dispiacere, ma anche un sollievo, trasferirsi con le figlie nel
Devonshire accettando l'offerta di un cottage messo a disposizione da un suo parente, sir Middleton. Un cambiamento che comporterà allontanamenti e nuove conoscenze che le due ragazze più grandi, Elinor e Marianne, affronteranno una con la ragione e l'altra con il sentimento.

Ogni volta che leggo dei classici si rafforza in me la consapevolezza di quanto mi siano lontani per stile e,
soprattutto se di genere romance come questo, di quanto poco mi interessino le tematiche trattate.

Non è il primo romanzo della Austen che leggo: nel 2011 avevo aderito a un gruppo di lettura virtuale che nel corso di quell'anno mi aveva portata a leggerne ben tre, "Orgoglio e pregiudizio", "Mansfield Park" ed "Emma". Mai più avrei pensato di riapprocciarmi a lei, ma "grazie" alle mie compagne di casata me la sono ritrovata nella traccia autore di dicembre della Reading Challenge e lo spirito di gruppo mi ha convinta a tornare sui miei passi.

Pentita? No: sfrutto troppo poco la spinta che le challenge danno a uscire dalla propria comfort zone e "Ragione e sentimento" mi è pesato meno rispetto agli altri tre (per ciascuno avevo impiegato più di due mesi a finirli, questa volta me la sono cavata in sedici giorni!), tanto che non escludo in futuro di leggere anche i due romanzi dell'autrice che ancora mi mancano, "Persuasione" perchè a detta di molti è il migliore e "L'abbazia di Northanger" perchè è l'unico che mi sembra un po' più interessante.

"Mi è pesato meno" chiaramente non è sinonimo di "mi è piaciuto": non c'è proprio niente che mi appaghi in questo genere di storie e, pur sforzandomi, non riesco a capire la rivalutazione di cui ha goduto la Austen negli ultimi decenni. Rispetto agli altri tre, in questo ho trovato
simpatico il gioco degli equivoci che l'autrice semina qua e là e in generale ho colto maggiormente la sua vena ironica ("Non era una donna loquace, perchè a differenza di gran parte della gente, il numero delle sue parole era propozionato a quello delle sue idee"), mentre continua a sfuggirmi la capacità di critica verso la società del suo tempo che le viene attribuita (dovrei leggere una sua biografia per cercare di capirla di più).

Questo è probabilmente l'aspetto fondamentale che mi porta a non riuscire ad apprezzare la Austen: la trovo limitata. Fra rivoluzione industriale, guerre napoleoniche e la guerra d'indipendenza degli Stati Uniti,
ha vissuto un momento storico di cambiamenti epocali, non solo per la sua nazione. Si direbbero impossibili da ignorare, invece lei riesce a non inserire neppure un minimo accenno e non va mai oltre alla sua piccola realtà.

Una realtà che riguardava pochi privilegiati: mi lascia sempre sgomenta chi afferma "come mi sarebbe piaciuto vivere in quell'epoca" senza specificare "a patto di essere un uomo che vive di rendita" perchè - se una rendita personale comportava grandi privilegi anche per una donna - questi benefici si riducevano agli agi legati a un certo tenore di vita (cosa non da poco, viste le condizioni dei poveri, e non solo), ma non garantivano nè una vera indipendenza economica nè tanto meno un potere decisionale sulla propria vita e spesso tanto più alta era la rendita quanto più si finiva per diventare mogli di convenienza.

Bella roba...

La filmografia può anche aver reso tutto molto romantico, ma i tempi erano quelli e quindi è giusto e normale che Jane Austen li raccontasse. Quello che, invece, trovo incredibile è che in epoca attuale si possa davvero sognare su storie come queste dove i personaggi femminili positivi sono quelli remissivi, dove non c'è mai una reazione ai soprusi e tutto viene accettato con una docilità che la datazione dell'opera giustifica solo fino a un certo punto.

Non mi è piaciuta la morale del libro, con la ragione che ottiene più del sentimento (e in relazione a Marianne mi auguro che chi accusa Joel Dicker di aver vestito di rosa la storia d'amore di un pedofilo, il suo Quebert, abbia la decenza di usare lo stesso metro di giudizio per la Austen e il suo colonnello Brandon!!).

Non mi è piaciuto il modo in cui la Austen abbia (non) spiegato l'escamotage usato per far tornare libero il protagonista maschile limitandosi a scrivere "...per quanto le circostanze della sua liberazione potessero apparire inesplicabili...": sarebbe stato più sensato e decoroso ricorrere a una morte prematura, che ai tempi tanto prematura non sarebbe stata.

E non mi è piaciuto come - dopo un'infinità di parole spese per ogni dialogo, anche per i tanti irrilevanti -  arrivata a quello che in un romanzo rosa rappresenta il tanto anelato acme abbia liquidato la questione scrivendo: "Non c'è tuttavia bisogno di riferire in maniera particolareggiata..." ecc, ecc, ecc: ma veramente???
Personalmente arrivata a quel punto mi sono fatta una gran risata, ma se avessi avuto un'indole romantica e avessi letto tutto il libro nell'attesa del "e vissero felici e contenti" mi sarei sentita parecchio presa in giro, senza contare 
che il finale del libro (mi riferisco proprio all'ultima frase) è degno della più retrograda delle pancine del Signor Distruggere! 

Infine, se per la Austen una giacca da cacciatore era davvero il più seducente fra tutti gli abiti maschili, non mi stupisco che sia morta zitella e probabilmente vergine!

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia autore di dicembre