venerdì 15 marzo 2024

"I ricchi", Joyce Carol Oates

 

Fernwood (Stati Uniti), gennaio 1960. Un auto parcheggia davanti a una villa. E' una Cadillac gialla, lussuosa e chiassosa come i suoi proprietari, gli Everett, che stanno per visitare... la nona? L'undicesima? Forse la quattordicesima casa in appena due giorni. Richard, 10 anni, ha perso il conto.
La madre - la bellissima Natashya, che vorrebbe essere chiamata Nadia dal figlio, nome che lui da piccolo non riusciva a pronunciare trasformandolo definitivamente nel più semplice Nada - ha trent'anni, è una scrittrice di nicchia e ha respinto tutte le precedenti proposte dell'agente immobiliare.
Il padre, Elwood, è un dirigente d'azienda ricco di famiglia, quel genere di ricchezza che dà l'illusione di comprare anche i sentimenti della propria moglie.
Ma non la sua fedeltà.

Scritto nel 1968, è il terzo romanzo dell'autrice e il secondo (di quattro) di quella che viene definita "la grande epopea americana", di cui l'anno scorso avevo letto il primo titolo, "Il giardino delle delizie".

"I ricchi" mi respingeva a causa della donna impellicciata in copertina. Per altro avrebbero potuto fare lo sforzo di cercare l'immagine di una donna dai "capelli molto scuri, quasi neri" come quelli di Natashya...

Se questo è un dettaglio per odiosi precisini come me, ben peggiore è l'aver scritto nella sinossi "l'America che (la Oates) ha già raccontato in Una famiglia americana", come se quel romanzo fosse precedente a questo, mentre è vero il contrario. Non solo: va considerato anche che fra le due opere passano ben 28 anni e che il primo è stato scritto da una autrice trentenne semi esordiente, il secondo da una quasi sessantenne che aveva già pubblicato ventiquattro romanzi e innumerevoli altri titoli fra saggi, racconti, poesie e opere teatrali, con premi e onorificenze varie.
Non si può definire "I ricchi" un'opera acerba, perché anche qui la scrittura della Oates raggiunge un livello a cui la maggior parte dei suoi colleghi non arriva neppure a fine carriera, ma qualche differenza c'è.

"Ero un assassino bambino"

La voce narrante è quella del piccolo Richard, ormai cresciuto, ed è così che inizia il romanzo, un monologo in cui si rivolge spesso ai lettori.

"Leggere della mia sofferenza farà bene alle vostre anime. Vorrete sapere quando ebbe luogo il mio crimine, e dove."

Una promessa che crea grandi aspettative, ma che nel corso della lettura viene quasi dimenticata mentre ci si abbandona ai ricordi e alle ricostruzioni di Richard, di quando era piccolo fino ai suoi undici anni, cresciuto patendo la carenza di considerazione da parte di un padre che sembra essere interessato solo a ciò che può comprare ("I suoi vestiti erano costosi perché non aveva idea che fossero disponibili vestiti più economici") e di una madre che prende le distanze da lui ("Ma, mamma" dissi. "Per favore, non chiamarmi così" disse lei), in quel sobborgo dove tutto è ricco, i vicini, gli amici, la scuola.

"Fu una lunga, meravigliosa passeggiata. Ah, la primavera a Fernwood! Tutto, tutto è meraviglioso a Fernwood! Raccontarvi dei pendii erbosi, delle file di sempreverdi (piantati in piena crescita), del verde di giardini e cortili, dei vialetti ovali; raccontarvi dei sontuosi piaceri delle loro case squadrate, degli stagni per i pesci, delle cameriere di colore visibili attraverso le finestre, occupate a lavare vetri già perfettamente puliti; raccontarvi di queste cose sarebbe come scrivere un altro Paradiso, ma, come ben sapete, noi scrittori siamo più preparati a parlare dell’Inferno e del Purgatorio. Di fronte alle rare meraviglie dell’America ricca uno scrittore può fare ben poco: le sue «critiche» sono solo frutto dell’invidia, lo sanno tutti."

Richard, un bambino invisibile per occhi ricchi e superficiali, genitori e non solo, persone per le quali il bisogno di apparire assume un'importanza spropositata, che scavalca tutto, anche il buon senso. E, aneddoto dopo aneddoto (dove c'è spazio per citare anche la mia Riviera Ligure), ci porta a dare un senso alla frase di apertura.

E lì il romanzo raggiunge il massimo livello della sua drammaticità e della sua beltà.

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