lunedì 6 maggio 2024

"Il caso Alaska Sanders", Joel Dicker


Mount Pleasant (New Hampshire), 6 aprile 2010. Marcus Goldman ha ancora paura di volare: è per questo che percorre in auto il non breve tragitto che separa Montréal - dove deve recarsi spesso per seguire le riprese del film tratto dal suo primo romanzo - da New York. Quel giorno, dopo una breve tappa ad Aurora, riceve un inaspettato invito a una festa di compleanno: quello della figlia minore di Perry Gahalowood, che gli promette di raccontargli cosa accadde esattamente quello stesso giorno di undici anni prima, perché la nascita della sua bambina non fu l'unico evento a segnare per sempre quella data.
Ed è così che sergente e scrittore tornano a indagare in coppia.
Questa volta non si tratta di una persona scomparsa, ma di un omicidio, quello della ventiduenne Alaska Sanders, ritrovata morta sulle rive del lago Skotam la mattina del 3 aprile 1999. Un delitto che ha un colpevole, Eric Donovan, condannato all'ergastolo.
Ma, se è lui l'assassino, come si spiega la lettera anonima ricevuta da Perry?

Mentre "tutti" stanno già leggendo "Un animale selvaggio", l'ultimo romanzo di Dicker pubblicato in Italia poco più di un mese fa, io mi sono decisa a recuperare questo, già vecchio di due anni. Dopo il trauma de "L'enigma della camera 622", letto nel 2021, mi ero ripromessa di abbandonare l'autore, ma con questo nuovo caso di Goldman mi ha fregata: annunciato come l'ultimo romanzo della trilogia che lo vede protagonista (e avendo amato "La verità sul caso Herry Quebert" e, ancora di più, "Il libro dei Baltimore"), mi sarebbe pesato non concluderla.

Il giudizio su questo libro è rapidissimo: lo si amerà se sì è amato Herry Quebert, viceversa se lo si è odiato si odierà anche questo. Perché sono simili in maniera imbarazzante.
Non nelle vicende: la storia di Alaska non ha nulla a che vedere con quella di Nola ed Herry Quebert compare solo in qualche (evitabilissimo) cameo.
Ad essere uguale è il meccanismo narrativo, con i capitoli ambientati nel presente (che abbraccia i mesi dall'aprile all'agosto 2010) alternati a quelli del passato (che riguardano un periodo di circa un anno a cavallo fra il 1998 e il 1999 e che fanno diventare presto il caso uno dei miei amati cold case) e, soprattutto, con gli stessi stratagemmi che portano a una continua oscillazione fra dubbi e scoperte.

Un gioco ben collaudato, Dicker sa gestire i salti temporali e tramortisce il lettore con così tante divagazioni che a un certo punto ci si dimentica di chiedersi chi sia il vero assassino di Alaska.
Un romanzo che è il festival dei narratori inaffidabili, che non è certo privo di difetti (qualche ingranaggio è davvero improponibile) e che rigurgita tutto l'autocompiacimento che caratterizza questo autore. Non dimentichiamo che Marcus Goldman è il suo alter ego e che incensando il suo personaggio ("folgorante carriera", "l'enorme successo del libro su Harry Quebert che mi consacrò come scrittore di rilievo nazionale", "il mio trionfo il libreria", eccetera) in realtà incensa se stesso.

Però c'è anche una bella presa di posizione contro la pena di morte, con dure critiche al sistema giudiziario americano e agli americani stessi, cosa che dal compiacente Dicker non mi sarei aspettata.

E, per la sezione turismo di immagini, alcune scene si svolgono nella bella isola di Vinalhaven, lungo le coste del Maine. Merita una foto:




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