New England, fine dicembre 1964. Eileen Dunlop ha 24 anni e da tre lavora come segretaria in un riformatorio maschile. Orfana di madre, vive con il padre alcolizzato. Ama leggere, ma solo storie truci, reali o di fantasia, mentre non le piacciono né la musica né ballare e neppure le trasmissioni divertenti di cui tutti sembrano andare pazzi. E' una vergine puritana, magra e spigolosa, con i capelli castano chiaro, piccoli occhi verdi e la pelle pallida butterata dai segni dell'acne. E' sempre molto infelice e arrabbiata.
E' così che descrive se stessa cinquant'anni dopo, quando ormai è una vecchia signora che porta un nome diverso da Eileen, abbandonato in quel Natale del '64 insieme alla sua casa e alle sue radici. Un sogno che progettava da tempo, ma che nell'arco di una notte era diventato una necessità.
Tutto era cominciato con l'arrivo al carcere minorile della nuova direttrice pedagogica, Rebecca Saint John.
Ottessa Moshfegh, bostoniana classe 1981, è partita con il botto vincendo con questo suo primo romanzo (scritto e pubblicato nel 2015) il PEN/Hemingway Award per l'opera prima, oltre ad essere stata finalista del National book Critics Circle Award e del Man Booker Prize.
In Italia è diventata famosa per la sua seconda opera, "Il mio anno di riposo e oblio", che leggerò senz'altro, anche se aspetterò il momento giusto: dal titolo, dalla trama e dallo sguardo della ragazza in copertina - e forte dell'esperienza fatta con "Eileen" - penso ci voglia la giusta predisposizione d'animo onde evitare di spararsi un colpo alla tempia.
Perché già "Eileen" è un notevole concentrato di depressione. Con uno stile elegante - nonostante contesti e situazioni che sono l'antitesi della raffinatezza (si parla più di vomitare che di sentimenti) - l'anziana voce narrante ci racconta la settimana che precede la sua fuga dalla cittadina, che lei chiama X-ville.
I capitoli scandiscono proprio ogni singolo giorno e - ad eccezione del penultimo, il più lungo e dinamico - gli altri si trascinano lentamente, con la ripetizione di gesti e circostanze sempre uguali, ma dove viene descritto anche il passato di Eileen e della sua famiglia.
Una storia fortemente introspettiva di degrado, di solitudine e di miseria, più a livello umano che economico, con una carenza di igiene che - se è una inevitabile conseguenza in casi di simile disagio - qui viene descritta e utilizzata in maniera ossessiva dall'autrice per trasmettere stati d'animo che non hanno mai nulla di neanche lontanamente piacevole.
"Adoravo vedere un uomo piangere, un debole che mi ha trascinato in infinite storie con tipi depressi e lamentosi"Una buona lettura, a patto di essere preparati ad affrontare 224 pagine di pura decadenza, dove la sola cosa bella sono i grandi occhi neri di un cervo e l'immagine di lui che si riprende dallo spavento e corre via sparendo nel bosco."La caccia era una cosa per gente primitiva, brutale, ottusa e insensibile"
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