"L'Aquila bella me, te voglio revete'"
Alle 3:32 del 6 aprile 2009 - dopo una lunga serie di scosse che dal 14 dicembre precedente avevano tolto il sonno alla gente - arrivò la botta che uccise 309 persone e distrusse L'Aquila.
Bellissima L'Aquila! Come lo è l'Abruzzo, regione completa di tutto ciò che di bello può esistere, da ogni punto di vista, natura, storia, arte... Io ho avuto la fortuna di visitarla un po' grazie a un fidanzatino dei miei vent'anni, romano residente a Chieti, ma davvero troppe persone sembra che si siano accorte dell'esistenza di quel pezzo d'Italia solo con il terremoto.
Donatella Di Pietrantonio, teramana di nascita, nella postfazione del libro racconta il suo 6 aprile, vissuto a Penne (provincia di Pescara), dove le scosse fortunatamente hanno solo generato terrore, svegliando anche lei nel cuore della notte. Descrive il suo rapporto con L'Aquila, dove ha vissuto durante gli anni universitari. E spiega come tre anni dopo il terremoto sia diventato per lei "un'urgenza narrativa" scrivere sull'argomento.
Da quell'urgenza è nato questo breve romanzo (182 pagine), pubblicato nel 2013. L'autrice per la sua storia ha creato un'altra coppia di sorelle, questa volta gemelle, che mi hanno ricordato un po' troppo quelle de "L'Arminuta" e di "Borgo Sud" (principalmente per la personalità dominante di una sull'altra), scritti entrambi successivamente a questo, per cui le sorelle ispiratrici sono - caso mai - le due aquilane.
Una delle due, Olivia, la conosciamo solo da morta: attardandosi (la rivelazione del perché è il punto di massimo impatto del romanzo) non ha fatto in tempo a scappare in strada finendo schiacciata dal crollo del tetto della sua casa.
L'altra, Caterina, è la voce narrante. Racconta la sua vita dopo il disastro, la convivenza con l'anziana madre e con Marco, il figlio adolescente della sorella, in una casa assegnata. E racconta il suo passato, quello della madre, quello della sorella e, di conseguenza, quello del nipote.
In mezzo la distruzione di una città, la paura e il disagio delle persone, le difficoltà. Solo accenni, qualche frase qua e là. Per questo mi ha delusa. E' la storia di un lutto gravissimo, quello di chi ha perso la madre, una figlia o la sorella, ma Olivia avrebbe potuto farla morire improvvisamente in qualsiasi modo (un incidente stradale? Un aneurisma?) e il libro lo avrebbe scritto lo stesso.
Manca la rabbia che mi aspettavo di trovare a profusione, quella per le morti causate da una catastrofe evitabile (c'è solo un misero accenno alle rassicurazioni fatte alla popolazione dopo gli sciami sismici dei giorni precedenti) che coinvolge anche chi non ha subito direttamente perdite né umane né materiali. La critica a politici e vip di vario genere che hanno usato L'Aquila come passerella mediatica è paragonabile a una tiratina di orecchie. Non vi è il minimo accenno alla corruzione e allo sciacallaggio successivi. Non parla della lentezza della ricostruzione pubblica rispetto a quella privata, divario già evidente nell'anno della stesura del libro.
Così alla fine quello che arriva (e che arriva eccome: la Di Pietrantonio è una grande scrittrice, sa come fare immedesimare chi la legge in certi stati d'animo) è il dolore per la perdita di una persona cara, ma - per un romanzo che nasce in memoria di un evento - non c'è l'impatto territoriale.
Non oso neppure immaginare se la mia Genova fosse colpita da un terremoto così devastante e se le sopravvivessi. Mi è bastato il crollo del ponte Morandi.
L'Aquila doveva essere protagonista assoluta, invece qui è solo un pretesto. Brutta cosa.
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