Londra, 14 settembre 1968. Nick Hornby ha poco più di 11 anni quando mette piede per la prima volta sugli spalti di Highbury, lo stadio in cui l'Arsenal gioca le partite casalinghe.
Non sa che quella partita - usata dal padre per riempire un sabato pomeriggio da trascorrere con il figlio nel difficile ruolo di genitore fresco di divorzio - trasformerà la sua esistenza.
Perchè nella vita si può cambiare tutto - stato civile, religione, sesso, ideologia politica, cittadinanza e, ancora, amici, lavoro, hobby, casa, auto, ecc, ecc, ecc - ma quando ti innamori di una squadra di calcio è per sempre.
E io lo so bene.
L'autore in questo saggio autobiografico, che è anche romanzo di formazione, racconta la sua vita condizionata dalle partite e dall'andamento dei Gunners: le descrizioni di gol e partite, i ricordi di calciatori e allenatori, i suoi stati d'animo e le sue follie.
Ho sempre pensato che il bimbetto ritratto in copertina fosse Hornby da piccolo, per cui è stato piuttosto deludente scoprire che in realtà ha cominciato a tifare Arsenal soltanto a 11 anni.
E il libro in generale mi è piaciuto, sì, ma non tanto quanto mi sarei aspettata. Mi ci sono ritrovata solo fino a un certo punto, il tifo inglese è diverso da quello italiano, non solo per il fenomeno hooligans (che nel libro viene doverosamente condannato, ma descritto piuttosto superficialmente). In Inghilterra le donne in curva scarseggiano e manca l'aspetto coreografico delle nostre gradinate, cioè quel tifo organizzato di cui ho fatto parte per anni fin dall'adolescenza, un ambiente che mi ha formato come persona e che (nel bene e nel male) mi ha resa quella che sono, senza contare che in gradinata ho conosciuto mio marito e a distanza di decenni, anche se ormai siamo tutti over 50, i legami più forti li ho con gli amici conosciuti ai tempi del mio attivismo ultrà (e non sono neppure tutti sampdoriani nè di squadre ai tempi gemellate con noi).
Nick Hornby appartiene a una tipologia di tifoso diversa dalla mia e di pazzie per la mia Samp ne ho fatto un bel po' più di lui.
E' un libro che consiglierei solo a chi è tifoso: per quanto sia scritto benissimo, credo possa coinvolgere davvero solo chi è in grado di apprezzarlo e capirlo. Per la mia amica Chiara, la persona meno interessata al calcio che conosco (una delle pochissime, fra l'altro, perchè quando si ha una grande passione è normale socializzare e interagire con chi la condivide), leggere "Febbre a 90°" sarebbe un'autentica tortura!
Viceversa - seppur col diverso approccio di cui sopra - per me si è trattato di leggere tutte cose vissute personalmente: l'agitazione prepartita, la sensazione di trionfo per i risultati positivi, il dolore (vero) per quelli negativi...
Un suo incubo ricorrente era quello di sognare di andare allo stadio ritrovandosi nella direzione opposta: io, invece, mi svegliavo tutta agitata perchè nel sogno arrivavo ai cancelli dello stadio e scoprivo di aver dimenticato a casa l'abbonamento!
Io e Hornby discordiamo sulle partite in trasferta, lui dice di non essersi mai divertito per il troppo nervosismo, mentre per me erano (al passato, perchè dal '96 l'edicola ha reso impossibile tutto) il massimo del piacere, l'organizzazione che durava tutta la settimana, il viaggio e poi l'orgoglio di arrivare in un'altra città con al collo la sciarpa blucerchiata, tanto più grande a Lecce in 49 che non a Milano in ventimila.
Ma siamo d'accordo su molti altri aspetti: che le squadre appartengono più ai tifosi che a presidenti, allenatori e giocatori (loro sono solo di passaggio, noi no), che non si può essere tifosi e contemporaneamente avere spirito sportivo e che essere tifoso non c'entra nulla con il bel calcio e con le vittorie (quelli che nella vita si sono limitati a scegliere la squadra vincente non li prendo neppure in considerazione).
Non mi è piaciuto come ha minimizzato l'abitudine che i tifosi inglesi avevano di caricare quelli avversari: se la tragedia di Sheffield è stata causata dalla pessima organizzazione, all'Heysel quella altrettanto disastrosa dei belgi è stata solo una concausa e scrivere di "alcuni ragazzini stupidi che avevano alzato un po' il gomito" è stato uno scivolone bello grosso da parte di Hornby, mentre ho apprezzato la sua pesante critica a razzismo e antisemitismo sugli spalti.
E' stata una lettura che mi ha portato via molti più giorni di quanto immaginassi visto il tema e le sole 269 pagine perchè mi ha spinta a cercare su You Tube gli highlights delle tante partite citate, almeno una per ogni capitolo, tutte con la data di riferimento e, siccome anch'io ho buona memoria calcistica e una vagonata di ricordi, già che c'ero ne ho rivisto alcuni delle nostre giocate in contemporanea.
E anche la Samp fa parte del libro, prima indirettamente grazie a Liam Brady, che dopo Arsenal e Juve giocò due anni anche da noi (l'irlandese aveva la pretesa che noi ragazzini ci mettessimo in fila per avere il suo autografo alla fine degli allenamenti a Bogliasco!), e poi citata due volte per via dell'apprezzamento di Hornby al nostro mitico Attilio Lombardo.
Non sa che quella partita - usata dal padre per riempire un sabato pomeriggio da trascorrere con il figlio nel difficile ruolo di genitore fresco di divorzio - trasformerà la sua esistenza.
Perchè nella vita si può cambiare tutto - stato civile, religione, sesso, ideologia politica, cittadinanza e, ancora, amici, lavoro, hobby, casa, auto, ecc, ecc, ecc - ma quando ti innamori di una squadra di calcio è per sempre.
E io lo so bene.
L'autore in questo saggio autobiografico, che è anche romanzo di formazione, racconta la sua vita condizionata dalle partite e dall'andamento dei Gunners: le descrizioni di gol e partite, i ricordi di calciatori e allenatori, i suoi stati d'animo e le sue follie.
Ho sempre pensato che il bimbetto ritratto in copertina fosse Hornby da piccolo, per cui è stato piuttosto deludente scoprire che in realtà ha cominciato a tifare Arsenal soltanto a 11 anni.
E il libro in generale mi è piaciuto, sì, ma non tanto quanto mi sarei aspettata. Mi ci sono ritrovata solo fino a un certo punto, il tifo inglese è diverso da quello italiano, non solo per il fenomeno hooligans (che nel libro viene doverosamente condannato, ma descritto piuttosto superficialmente). In Inghilterra le donne in curva scarseggiano e manca l'aspetto coreografico delle nostre gradinate, cioè quel tifo organizzato di cui ho fatto parte per anni fin dall'adolescenza, un ambiente che mi ha formato come persona e che (nel bene e nel male) mi ha resa quella che sono, senza contare che in gradinata ho conosciuto mio marito e a distanza di decenni, anche se ormai siamo tutti over 50, i legami più forti li ho con gli amici conosciuti ai tempi del mio attivismo ultrà (e non sono neppure tutti sampdoriani nè di squadre ai tempi gemellate con noi).
Nick Hornby appartiene a una tipologia di tifoso diversa dalla mia e di pazzie per la mia Samp ne ho fatto un bel po' più di lui.
E' un libro che consiglierei solo a chi è tifoso: per quanto sia scritto benissimo, credo possa coinvolgere davvero solo chi è in grado di apprezzarlo e capirlo. Per la mia amica Chiara, la persona meno interessata al calcio che conosco (una delle pochissime, fra l'altro, perchè quando si ha una grande passione è normale socializzare e interagire con chi la condivide), leggere "Febbre a 90°" sarebbe un'autentica tortura!
Viceversa - seppur col diverso approccio di cui sopra - per me si è trattato di leggere tutte cose vissute personalmente: l'agitazione prepartita, la sensazione di trionfo per i risultati positivi, il dolore (vero) per quelli negativi...
Un suo incubo ricorrente era quello di sognare di andare allo stadio ritrovandosi nella direzione opposta: io, invece, mi svegliavo tutta agitata perchè nel sogno arrivavo ai cancelli dello stadio e scoprivo di aver dimenticato a casa l'abbonamento!
Io e Hornby discordiamo sulle partite in trasferta, lui dice di non essersi mai divertito per il troppo nervosismo, mentre per me erano (al passato, perchè dal '96 l'edicola ha reso impossibile tutto) il massimo del piacere, l'organizzazione che durava tutta la settimana, il viaggio e poi l'orgoglio di arrivare in un'altra città con al collo la sciarpa blucerchiata, tanto più grande a Lecce in 49 che non a Milano in ventimila.
Ma siamo d'accordo su molti altri aspetti: che le squadre appartengono più ai tifosi che a presidenti, allenatori e giocatori (loro sono solo di passaggio, noi no), che non si può essere tifosi e contemporaneamente avere spirito sportivo e che essere tifoso non c'entra nulla con il bel calcio e con le vittorie (quelli che nella vita si sono limitati a scegliere la squadra vincente non li prendo neppure in considerazione).
Non mi è piaciuto come ha minimizzato l'abitudine che i tifosi inglesi avevano di caricare quelli avversari: se la tragedia di Sheffield è stata causata dalla pessima organizzazione, all'Heysel quella altrettanto disastrosa dei belgi è stata solo una concausa e scrivere di "alcuni ragazzini stupidi che avevano alzato un po' il gomito" è stato uno scivolone bello grosso da parte di Hornby, mentre ho apprezzato la sua pesante critica a razzismo e antisemitismo sugli spalti.
E' stata una lettura che mi ha portato via molti più giorni di quanto immaginassi visto il tema e le sole 269 pagine perchè mi ha spinta a cercare su You Tube gli highlights delle tante partite citate, almeno una per ogni capitolo, tutte con la data di riferimento e, siccome anch'io ho buona memoria calcistica e una vagonata di ricordi, già che c'ero ne ho rivisto alcuni delle nostre giocate in contemporanea.
E anche la Samp fa parte del libro, prima indirettamente grazie a Liam Brady, che dopo Arsenal e Juve giocò due anni anche da noi (l'irlandese aveva la pretesa che noi ragazzini ci mettessimo in fila per avere il suo autografo alla fine degli allenamenti a Bogliasco!), e poi citata due volte per via dell'apprezzamento di Hornby al nostro mitico Attilio Lombardo.
Le strade di Samp e Arsenal si sono incrociate tre anni dopo l'uscita del libro, nella semifinale di Coppa delle Coppe 1994-95, in cui ci eliminarono ai rigori (per poi perdere la finale con il Saragozza).
Invece (dopo che entrambe vincemmo lo scudetto nel maggio '91) dalla Coppa dei Campioni 1991-92 loro uscirono agli ottavi contro il Benfica e fummo noi a perdere la finale contro il Barcellona, proprio a Wembley, il ricordo calcistico più doloroso per noi sampdoriani, soprattutto perchè consapevoli dell'irripetibilità dell'evento, ma a distanza di quasi trent'anni l'amarezza di quel giorno si è stemperata lasciandoci fieri di aver vissuto qualcosa di unico, "sensazioni che non capiranno mai" (cit.).
Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia compleanno di aprile (l'autore è nato il 17 aprile 1957)