martedì 11 luglio 2023

"Denti bianchi", Zadie Smith

 

Londra, primissimo mattino del 1° gennaio 1975. Archibald Jones avrebbe potuto morire quel giorno: era quello il suo intento quando si era sistemato a bordo dell'auto che aveva parcheggiato in Cricklewood Brodway. Il tubo di scappamento collegato a quello dell'aspirapolvere stava facendo il suo lavoro e mentre perdeva conoscenza non poteva immaginare di aver commesso un piccolo errore: quello di aver parcheggiato proprio davanti alla macelleria halal di proprietà di Mo Hussein-Ishmael, che - oltre ai piccioni - mal sopportava chi parcheggiava nell'area di scarico riservata al suo negozio e proprio quando stava per ricevere una consegna.
Una svista, da parte di Archie, che gli aveva permesso di essere salvato e di conoscere di lì a poche ore quella che sei settimane dopo sarebbe diventata la sua seconda moglie: Clara Bowden, che con i suoi 19 anni era più giovane di lui di ben ventotto, grosso modo la stessa differenza di età che caratterizzava il matrimonio del suo amico Samad Iqbal con Alsana.
Avere la moglie giamaicana e il migliore amico bengalese non è cosa comune, ma neppure così rara quando si vive in una città come Londra che già negli anni Settanta era fra le più multiculturali al mondo.

Quando affronto grandi autori guardo con affetto al mio diploma di analista contabile chiedendomi se possa bastare. Di sicuro non sarò mai in grado di fare grandi analisi, né di grandi libri, né di piccoli libri, ma in fondo mi basta riuscire a leggerli e provare a capirli.
"Denti bianchi" - considerato la linea di demarcazione fra la letteratura del Novecento e quella degli anni duemila - si lascia leggere più facilmente di quanto temessi e, tra l'altro, non sembra neppure lungo come invece è (552 pagine).

Soprattutto non sembra essere stato scritto da una ragazza poco più che ventenne, l'età che Zadie Smith aveva quando lo scrisse. Pubblicato nel 2000, era entrato nel mirino degli editori già da tre anni, quando la Smith, studentessa a Cambridge, li aveva stuzzicati con degli stralci scatenando la lotta all'accaparramento dei diritti. Non male....

L'autrice, che adesso viaggia verso i 48 anni, è poi diventata una delle firme più autorevoli della letteratura inglese e mondiale, pur non avendo prodotto un gran numero di titoli: cinque romanzi, quattro saggi, un'opera teatrale e molti racconti.

Nata da padre inglese e da madre giamaicana e cresciuta in un quartiere multiculturale a nord ovest di Londra, in questo romanzo familiare fa quello che forse dovrebbe fare ogni scrittore, raccontare qualcosa che si conosce.

Non posso dire di averlo trovato esilarante come me lo avevano descritto, probabilmente perché gran parte dello humor deriva da situazioni esagerate che caratterialmente mal sopporto (esempio: la coppia di bengalesi che, se in disaccordo, si mena in giardino, con immancabile vittoria della moglie).

Viceversa leggendolo ho capito perché James Wood, critico letterario inglese, proprio riferendosi a questo libro usò per la prima volta il termine realismo isterico:
 lo stile della Smith è davvero molto particolare, riesce a far convivere nello stesso testo (spesso anche nella stessa frase) delle assurdità (nelle situazioni, nei comportamenti dei personaggi o altro) con un profondo realismo (delle stesse situazioni, dei comportamenti o altro).
Una cosa difficile da spiegare a chi non ha letto il libro e sicuramente ci vuole molta bravura per scrivere oltre 500 pagine in questo modo. Uno
 stile che sembra una giostra, non in senso negativo, ma che è un po' troppo per una persona barbosamente lineare come me (tra l'altro temevo questa "cosa" del realismo isterico perché sapevo che il termine era stato poi usato per descrivere altri autori, fra cui David Foster Wallace, che - meschinetto - continuo a citare in negativo per l'unico suo libro che ho letto e detestato, "Una cosa divertente che non farò mai più": per il prestigio con cui viene ricordato dovrei proprio decidermi a leggerne almeno un altro).

Quello che avrei apprezzato (perché sono cose che mi piace leggere) è un maggior approfondimento nella ricostruzione storica e mi sarei aspettata più critica perché gli immigrati protagonisti della storia sono frutto del colonialismo britannico: ci sta che non tutti siano rancorosi come me - che penso sempre con gran fastidio all'assedio e alla brevissima occupazione che la mia Genova subì da parte della marina britannica nel 1814 - ma negli anni Settanta non erano certo passati più di due secoli dall'indipendenza dell'India...

Però ha fatto bene la Smith a concentrarsi sul "presente": fra virgolette, intanto perché si tratta di un libro che ha quasi un quarto di secolo, ma anche perché abbraccia diversi decenni che si alternano con salti temporali molto ben costruiti. La storia inizia nella prima metà degli anni Settanta, ma poi ci viene raccontata la nascita dell'amicizia fra i due protagonisti durante la Seconda Guerra Mondiale, quindi si torna al 1974 e da lì si va avanti, con gli anni Ottanta che diventano grandi protagonisti e proseguendo con gli inizi degli anni Novanta, con la crescita dei figli delle due coppie e l'inserimento di una terza famiglia, gli inglesissimi, intellettualissimi e borghesissimi Chalfen.

Una storia lunga fatta di contrasti: etnici, religiosi, sociali, culturali, generazionali, morali. C'è tutto, direi che manca solo il calcio e per una città come Londra, soprattutto di quegli anni, un paio di personaggi tifosi non ci sarebbero stati affatto male.

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