domenica 16 luglio 2023

"La ragazza del convenience store", Sayaka Murata

 

Tokyo, primo maggio 1998. Keiko Furukura sbagliando strada si ritrova a camminare in una zona dove non era mai stata. E, prima di arrivare a una fermata della metro, quello che si trova davanti è un locale luminoso in pieno allestimento. Un cartello annuncia la prossima apertura dello SmileMart, ma c'è anche scritto "Cercasi personale!". Lei ha 18 anni, frequenta il primo anno di università e sta giusto cercando un lavoretto.
Maggio 2016. Sono trascorsi diciotto anni, Keiko ne ha quindi 36, è ancora nubile e lavora sempre allo SmileMart. Una situazione che genera preoccupazione e imbarazzo per i genitori, la sorella e le poche amiche retaggio di gioventù perché i part-time nei konbini vanno bene per i giovani studenti a cui fa piacere guadagnare qualche soldo oppure per le donne sposate che possono arrotondare il bilancio familiare senza smettere di essere delle casalinghe. E comunque si tratta sempre di esperienze marginali fatte prima di entrare nel vero mondo del lavoro o di temporanee parentesi prima di riprendere a dedicarsi a tempo pieno al proprio marito e ai propri figli. E' inconcepibile lavorarci per diciotto anni, interrompendo gli studi e senza neppure sposarsi.
Eppure Keiko nella routine di quel lavoro e nelle sue regole ha trovato la sua dimensione.

"Konbini Ningen", che il traduttore di Google mi traduce con un tristissimo "Minimarket umano", è il decimo romanzo scritto (nel 2016) da questa autrice giapponese classe 1975 e il primo a essere stato tradotto in italiano. Era il 2018, l'anno prima avevo letto "Norwegian Wood. Tokyo Blues" scoprendo grazie a Murakami (e alla mia prima Reading Challenge) che un certo tipo di letteratura giapponese poteva piacermi e anche parecchio. Credo di aver comprato quasi subito il romanzo della Murata e in questi cinque anni tantissime volte sono stata lì lì per leggerlo, finendo sempre col preferirgli altri titoli. Colpa di un paio di persone che me ne avevano parlato stroncandolo, mentre a me è piaciuto, seppur con un po' di scetticismo.

E' un romanzo breve (176 pagine) che (non solo per quello) si lascia leggere in fretta (e questo non è una cosa che - in base alla mia ancora limitata esperienza - si possa dire di molti romanzi giapponesi!). Lo stile è snello e semplice, in linea con la protagonista che è anche la voce narrante. E che non è propriamente una persona "normale" ed è da questo suo modo d'essere che nasce la mia perplessità.

Il libro - che denuncia il tradizionalismo della società giapponese, classista e sessista - critica pesantemente quell'omologazione verso cui vengono spinti i giapponesi anche in epoca moderna con un insieme di regole imposte dalla società che davvero fanno pensare - come sostiene Shiraha, il secondo personaggio della storia in ordine di importanza - che non sia cambiato nulla dalla preistoria. Se questa sia un'esagerazione o se sia vero io non lo so, ma questa storia inno all'anticonformismo avrebbe avuto bisogno di una protagonista diversa da Keiko, una persona per la quale non sposarsi e continuare a lavorare in un konbini per molti anni fossero davvero delle scelte e non delle conseguenze.

Keiko sembra essere affetta da una qualche forma di sociopatia (anche se gli psicologi infantili non ravvisano nulla di anomalo in lei). Ho una laurea in psichiatria? Ovviamente no e mai mi permetterei un'affermazione del genere nei confronti di una persona reale, ma Keiko è opera di fantasia e se la Murata costruisce per lei un'infanzia dove all'asilo la fa rimanere indifferente quando assiste alla morte di un uccellino proponendo, mentre le altre bambine piangono, di mangiarlo a cena, alle elementari le fa prendere a badilate due bambini che si stanno azzuffando perché secondo lei è il modo più spiccio per mettere in pratica le urla generali che chiedono di farli smettere e successivamente - quando capisce cosa gli altri si aspettano da lei - la porta ad adeguarsi prima parlando il meno possibile e poi, da adulta, imitando i comportamenti altrui evitando ogni iniziativa personale, credo non ci si possa stupire se poi io -  lettrice - arrivo a considerarla una squilibrata.

Se quello che il libro racconta è vero - e la Murata in gioventù ha lavorato in un konbini - non mi preoccuperei tanto dell'età o dello stato sociale dei commessi, quanto dei diktat a cui sono costretti, non facendo mai aspettare il cliente, accogliendolo con un sonoro "Irasshaimase!", servendolo e accontentandolo in ogni richiesta e poi ringraziandolo a oltranza, ripetendo dall'inizio alla fine del processo di vendita frasi di cortesia che i dipendenti devono considerare come formule sacre, con tanto di giuramento a inizio turno:

"Giuriamo di offrire al cliente il miglior servizio possibile, così che possa apprezzare e tornare sempre al nostro konbini!"

Questi scenari da invasati mi hanno reso la lettura divertente in un modo probabilmente offensivo verso questa storia che vuole raccontare il rifiuto all'omologazione, ma è la scarsa conoscenza dell'universo giapponese a rendermi di difficile comprensione certi ragionamenti, fra cui quello cardine del giudicare anormale lavorare in un konbini da adulti, questo a prescindere dalla sanità psicologica dei commessi. Sarà perché con la mia edicola sono anch'io un'addetta alle vendite, ma non ci vedo nulla di biasimabile nel lavorare dietro a un banco, neppure a 53 anni. E mi sfugge il considerare part-time un lavoro svolto dalle 9 alle 17 per cinque giorni alla settimana come mi chiedo se davvero lì dentro ai commessi venga chiesto di urlare a squarciagola le promozioni!

E io che ho sempre pensato ai giapponesi come a un popolo adorabilmente silenzioso...

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