sabato 10 febbraio 2024

"Antonio", Beatriz Bracher

 

San Paolo, un anno non precisato del primo decennio del 2000. Benjamin Kremz ha una trentina d'anni e sta per diventare padre. L'imminente nascita di Antonio lo spinge a fare chiarezza sul passato della sua famiglia. Con una madre morta di parto e un padre morto pazzo quando lui era soltanto un ragazzino sono tre le persone a cui si rivolge, sperando di riuscire a ricostruire un passato che non gli è mai stato raccontato. Un'esigenza di sapere che è aumentata da quando zia Leonor gli ha mostrato il certificato di nascita di un altro Benjamin Kremz, nato 29 anni prima di lui e morto a meno di un mese di vita. Quel Benjamin era il suo fratellastro, partorito dalla stessa madre quando era ancora una ragazzina. Ma era anche suo zio perché il padre del bambino morto era Xavier, suo nonno.

Beatriz Bracher, redattrice ed editrice brasiliana nata a San Paolo nel 1961, è anche autrice di sei romanzi. "Antonio", scritto nel 2007, è il terzo che ha pubblicato e al momento l'unico a essere stato tradotto in italiano. 

 "Una delle voci più autorevoli e innovative della letteratura lusofona contemporanea"

Innovativo è un aggettivo che associato ai libri mi preoccupa sempre perché temo di scontrarmi con stili troppo particolari, lontani da ciò che mi piace e che mi interessa.

Il modo di scrivere della Bracher l'ho trovato molto bello e decisamente colto, ma anche molto tradizionale. Purtroppo anche molto pesante, come lo è la storia che racconta.

I tre interlocutori di Benjamin sono la nonna paterna Isabel, 75 anni, che gli parla da un letto d'ospedale mentre affronta la fase terminale della malattia che l'ha colpita; Raul, amico d'infanzia del padre di Benjamin, afflitto dal rimorso per non essersi preso cura di lui fino in fondo; e Haroldo, amico di suo nonno, l'unico in grado di raccontare la famiglia Kremz, a partire dai bisnonni di Benjamin.

"Xavier era un irresponsabile nella vita domestica. Meraviglioso con gli amici e le amanti, devastante per i figli, parassita con la moglie."

Ogni capitolo alterna le tre voci e nei primi ho rischiato di perdermi per riuscire a ricostruire l'albero genealogico ("Un suo prozio si sposò con la zia acquisita di un cugino di secondo grado di mia nonna, da parte di madre"). Quando poi ci sono riuscita la comprensione è diventata facile, ma la pesantezza è rimasta.

Isabel, Raul e Haroldo parlano con Benjamin, ma in realtà lui non dice mai nulla. Sono tutti monologhi dei tre, molto raffinati, ma anche disordinati, che fanno del testo il libro delle disgressioni. Quasi tutti i capitoli sono di quindici pagine e alla fine di ognuno sono poche le informazioni "utili", quelle che interessano davvero non solo a Benjamin, ma anche a chi legge. Tutto il resto è un esercizio di stile dell'autrice, appagante se si vuole leggere qualcosa di ben scritto, irritante se si dà maggiore importanza allo sviluppo della trama.

"Il lavoro emancipa i figli dai genitori, dal portafoglio dei genitori, e ammetto che è già una gran cosa, ma il lavoro di per sé non libera nessuno, al contrario, tendenzialmente imprigiona."

Da un'autrice impegnata e cresciuta negli anni della dittatura militare mi aspettavo qualcosa di più dei brevi accenni al golpe degli anni Settanta e ai movimenti di resistenza che mette in bocca alla sola Isabel, mentre avrei fatto volentieri a meno della descrizione dell'uccisione di un maiale fornita da Raul.

I capitoli dove è lui la voce narrante sono particolarmente opprimenti, quelli di Haroldo i più utili e quelli di Isabel i migliori, più veri: la Bracher è stata più brava nel dare voce alla donna, ma in generale è un libro di livello, solo terribilmente malinconico e tetro.

"Morire è intransitivo, non si presta a condivisioni, ha un soggetto singolare, mai plurale. Anche le morti di massa, l'Olocausto, le camere a gas, le carneficine, sono morti individuali. Chi muore, muore da solo."

Reading Challenge 2024, traccia vagabonda febbraio: Brasile