Tokyo, giorni nostri. Sono passati sette anni dalle vicende raccontate in "Finchè il caffè è caldo" e qualcosa è cambiato per i gestori del locale che, invece, resta immutato dal 1874.
Soprattutto è sempre possibile decidere di fare un viaggio nel tempo con la speranza di incontrare qualcuno e potergli dire o dare qualcosa, mettendo così a tacere i rimpianti o i rimorsi per non averlo fatto quando ce n'era stata l'occasione.
Ma il viaggio ha sempre la stessa caratteristica, quella di durare poco, solo il tempo necessario al caffè per raffreddarsi, ma mai del tutto!
Scritto due anni dopo il primo (quindi nel 2017) e uscito nella versione italiana a metà gennaio di quest'anno, è strutturato allo stesso modo dell'altro, cioè diviso in quattro capitoli che sono anche quattro storie autoconclusive con un leggero intreccio dei personaggi.
Di bello c'è che approfondisce e spiega l'identità e il ruolo della donna vestita di bianco che occupa la sedia-portale per i viaggi nel tempo, mentre delle quattro storie indipendenti ho apprezzato solo la seconda (madre e figlio). Le altre le ho trovate poco fantasiose e della terza (gli innamorati) dopo averla finita ho dovuto rileggerne alcune parti perchè i salti temporali sono gestiti in modo piuttosto confuso.
Ma l'aspetto peggiore è la grande ripetitività, superiore a quella del primo romanzo, che già ne era un notevole esempio: anche questa volta il ripasso delle regole viene proposto in ogni capitolo, mentre ho perso il conto delle volte in cui viene descritto come fra l'ingresso del locale sulla strada e quello che costituisce l'accesso vero e proprio al caffè ci sia un corridoio. Per altro il corridoio nel primo libro era una scala!
Spero e credo che si tratti di un errore di traduzione, ma per me questi sono dettagli disturbanti, al pari di quanto è stato scritto nella sinossi che colloca il caffè "in un piccolo paese del Giappone" e non a Tokyo: sarebbe bastato leggere il primo libro per saperlo!
Ma il particolare che mi ha lasciato più perplessa è lo stupore di un personaggio nel constatare che fra le decine di persone che avevano voluto fare un salto nel passato "addirittura" quattro erano ritornate per vedere una persona morta, pur sapendo che nulla avrebbe potuto modificare il presente. Perchè stupirsi? I giapponesi hanno davvero una mentalità così diversa dalla nostra? O è Kawaguchi a non aver mai vissuto un lutto grave? Perchè se potessi tornare nel passato non avrei dubbi su chi incontrare: mia madre. Sarebbe bello rivederla anche sapendo di non poter fare nulla per salvarle la vita e non mi sembra ci sia da sorprendersi per questo.