sabato 29 febbraio 2020

"La strana morte del signor Merello", Nadia Morbelli


Carpaneto (AL), fine agosto. Nadia sta trascorrendo gli ultimi giorni di ferie in campagna, dove si sono trasferiti i suoi genitori dopo la pensione del padre. La languida pigrizia di quei giorni viene smossa dai nuovi vicini di casa, i Tagliafico, anch’essi emigrati nell’alessandrino da Genova, dopo aver ereditato il casolare da un prozio. A incuriosire Nadia è proprio la figura dell’anziano: Amilcare Merello, un uomo che nella vita ha finito col sperperare tutti i soldi ereditati e anche quelli guadagnati grazie alla sua passione per l’arte, facendosi depredare da quel losco personaggio che era il suo socio in affari, Nicola Malinverni.
A Nadia, che non si accontenta di una spiegazione banale e guarda con sospetto ogni cosa, sembra inverosimile che la morte per avvelenamento da funghi di Merello sia stata accidentale: in quella zona l’annata per i funghi è stata pessima, qualcuno deve averglieli portati da fuori, ma chi se Merello a detta di tutti non riceveva più visite?

Terzo e, purtroppo, ultimo libro pubblicato da Nadia Morbelli. Come avevo scritto a proposito di “Amin, che è volato giù di sotto”, potrei fare un copia-incolla della recensione e di quella precedente, “Hanno ammazzato la Marinin”: un altro bel gialletto senza tante pretese, dove ho ritrovato la somiglianza fra la protagonista e la Baudino televisiva di “Provaci ancora prof” e lo sfruttamento dei meccanismi dei romanzi di Camilleri (il presente che si spiega col passato e di nuovo tanto dialetto – con glossario finale - e tante mangiate e bevute), senza sfiorarne la qualità, ma comunque un giallo carino e a me particolarmente caro perché ambientato fra il centro storico di Genova (dove Nadia lavora), il quartiere dove sono nata e cresciuta (Sampierdarena, dove Nadia abita) e la zona dell’ovadese dove da qualche anno abita mia sorella.

La vicenda gialla non ha nulla a che fare con le altre due. L’ho trovata ben più azzardata, è poco credibile che una persona si spinga a fare vere e proprie indagini, sobbarcandosi anche due viaggi “alla cieca” in Svizzera, senza avere nessun interesse o coinvolgimento personali, ma solo per il gusto di appagare la propria curiosità.
Ancora meno plausibile l’accondiscendenza di tutti i personaggi che Nadia coinvolge e interroga in merito ai fatti, soprattutto considerando che in gran parte si tratta di genovesi (la disponibilità non è la nostra principale caratteristica, si sa…).

Sicuramente la territorialità mi rende magnanima: senza il fattore campo questi aspetti avrebbero condizionato molto il mio giudizio, ma a chiunque fa piacere sentirsi a casa leggendo un libro e quindi mi dispiace proprio tanto che la produzione della Morbelli si sia esaurita (almeno per ora) con questo titolo (ormai vecchio di sei anni).

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di febbraio, lo collego a "Un marito" perchè entrambi gli autori sono nati a Genova


 

venerdì 28 febbraio 2020

"La manomissione delle parole", Gianrico Carofiglio


L’avvocato Guido Guerrieri, protagonista di una delle serie di Carofiglio, frequenta una libreria notturna barese. In “Ragionevoli dubbi” Guerrieri vede il libraio leggere “La manomissione delle parole”. Carofiglio racconta che in seguito molti lettori gli hanno chiesto informazioni su quel libro, che nel romanzo innesca un dialogo stimolante fra i due personaggi di fantasia, riscontrando sempre molta delusione all’ammissione che anche il libro era inventato.
E così dopo quattro anni il buon Gianrico genialmente ha colmato questa lacuna.

Il vero “La manomissione delle parole” è uno dei suoi saggi (il primo che leggo) ed è composto principalmente da due parti.

Nella prima vengono analizzate, direi spiegate, alcune parole fondamentali per il vivere civile: libertà, democrazia, vergogna, giustizia, ribellione, bellezza e scelta. Carofiglio si avvale di tantissime citazioni: Platone, Aristotele, Dante, Goethe, Levi, Calvino, Gramsci, Bob Dylan, ecc, ecc...

Nella seconda Carofiglio, ex magistrato, denuncia l’inutile ricercatezza del linguaggio dei giuristi, evidenziando le caratteristiche comuni con quello dei politici e paragonandoli con l’immediatezza e la semplicità del modo in cui è stata scritta la Costituzione Italiana.

Palesemente l’abisso culturale che mi separa da Carofiglio fa sì che l’interpretazione che diamo al concetto di scrittura semplice sia immensamente diversa. Questo volume per me non è stato una lettura facile, ma credo di aver capito tutto e di condividere quasi tutto. Del resto bastano un’intelligenza e un sapere nella media per comprendere quanto sia importante il linguaggio sotto ogni aspetto e quanto il suo potere, oggi e sempre, venga sfruttato da chi il potere lo cerca o lo detiene.

Scritto nel 2010, il saggio punta sovente il dito contro Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio: da Mills a Previti, passando per i tanti slogan escogitati da Forza Italia prima e dal Popolo delle Libertà poi (già i nomi scelti sono un chiaro esempio di uso delle parole…), Carofiglio, il cui schieramento politico è noto, ha gioco facile potendo riportare fatti e sentenze reali.

Anch’io sono di sinistra, così a sinistra che al confronto Carofiglio sembra essere di destra… Il sentimento più tenero che ho provato nei confronti di Berlusconi durante i suoi anni di potere è stato l’imbarazzo. Ma Berlusconi ormai è finito, sorpassato e con lui potrebbe diventare anacronistico anche questo libro se non fosse che le parole in politica vengono manomesse ancora di più rispetto a dieci anni fa. O forse è solo diventato più facile manomettere i neuroni della gente.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di febbraio "un libro che hai in wish list da più di un anno"

mercoledì 26 febbraio 2020

"Il tatutatore di Auschwitz", Heather Morris


32407 e 34902: non sono due semplici numeri, ma due identità. Sono ciò che Lale e Gita, ebrei slovacchi, sono diventati entrando ad Auschwitz. Entrambi furono deportati in Polonia, nel campo di sterminio nazista, nell’aprile del ‘42. Lui ricopriva il ruolo di Tätowierer, lei fu obbligata a porgergli il braccio. I loro sguardi si incrociarono e lì nacque un legame più forte di ogni cosa, anche dell’odio.

Quando Alessandra Mussolini si permette di accusare Liliana Segre di fomentare l’odio contro il fascismo, si ricomincia ad avere paura e a rendersi conto che i 75 anni trascorsi dalla fine della seconda Guerra Mondiale, se non si fa attenzione, possono cominciare a creare una patina su quel che è stato. E quindi ben vengano romanzi come questo, capaci comunque di non far dimenticare ciò che è successo.

Però…

Però io questo libro, tanto amato “da tutti”, non sono proprio riuscita a digerirlo. Perchè è sufficiente aver parlato con uno dei sopravvissuti per sapere che la vita (si fa per dire) nei campi di concentramento era ben diversa da quella che viene descritta dalla Morris. Mi rendo conto che Lale, parlando correttamente sei lingue, avesse agli occhi dei nazisti un valore ben diverso rispetto ai prigionieri politici italiani con cui ho parlato io, ma mentre leggevo troppi dettagli non mi tornavano. E a fine lettura – per capire se ero la solita disfattista - ho scoperto che l’Auschwitz Museum (qui il documento) ha smentito l’autrice, svelando falsità e inesattezze del libro. E la Morris si è “difesa” dicendo che “è stato lo stesso Lale a raccontare la sua storia”.
Ma lui è morto nel 2006, prima dell’uscita del libro.

"Lale è quasi completamente immune alle dispute del campo. (…) è lontano dalle difficoltà di migliaia di uomini che muoiono di fame e devono lavorare per combattere allo stesso tempo. Si rende conto di essersi creato uno stile di vita più comodo rispetto alle condizioni della maggioranza

Maggioranza che si traduce in:

- 7 milioni circa di civili sovietici
- 6 milioni circa di ebrei
- 3 milioni circa di prigionieri di guerra sovietici
- 1,8 circa di civili polacchi
- 312.00 circa di civili serbi
- 250.000 circa di persone disabili
- 250.000 circa di Rom
- 70.000 circa criminali a vario titolo
- 1.900 circa testimoni di Geova
- un numero imprecisato di oppositori al nazismo
- un numero imprecisato di omosessuali

Un libro che aiuta la Memoria è quello di Tatiana de Rosnay che, ne “La chiave di Sarah”, parte da un fatto realmente accaduto come il Véledrome d'Hiver e da lì costruisce una storia meravigliosa e toccante che non ha bisogno di essere una storia vera per denunciare i crimini nazisti.

O un qualunque altro libro (meglio se di saggistica) dove ai deportati venga risparmiato l’appellativo di “inquilini del campo”.

Se il fascismo e il nazismo hanno colpito da vicino, “Il tatuatore di Auschwitz” diventa una mancanza di rispetto.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia artista di febbraio

lunedì 24 febbraio 2020

"Un marito", Michele Vaccari


Marassi, quartiere di Genova, giorni nostri. Ferdinando a Marassi c’è nato, ci è cresciuto, poi se n’è andato e quindi c’è tornato, insieme a Patrizia, che invece è di Busalla. Lei ha 46 anni, lui sta per compierne 50. Un matrimonio vissuto in simbiosi, condividendo anche la professione. Una rosticceria nel cuore del quartiere, famosa per la cucina esclusivamente ligure. Un negozio che non ha mai chiuso per ferie. E lei cerca di opporsi anche quando lui le chiede una vacanza per il suo prossimo, importante compleanno: alla fine riesce a spuntarla, tre giorni a Milano per il ponte dell’Immacolata. Partono insieme, ma sarà solo Ferdinando a tornare a Genova…

Nonostante il libro sia ambientato nella mia città e opera di un concittadino, lo avevo scoperto e inserito in wish list solo dopo aver sentito Marco Cantoni osannarlo come uno dei migliori libri del 2019. Marco è un giovane booktuber davvero molto bravo e competente, è un piacere ascoltarlo. Ma questo libro è la quinta conferma del fatto che io e lui abbiamo gusti completamente diversi, non solo per quanto riguarda i generi, ma soprattutto per lo stile narrativo. Mi rassegno all’evidenza, non avendo la sua preparazione e cultura, non sono interessata a romanzi che ai miei occhi sono esercizi di stile: naturalmente apprezzo un libro ben scritto, ma prediligo quelli scritti bene con semplicità.

Vaccari scrive indiscutibilmente bene e ci tiene a dimostrarlo finendo con l’eccedere. Uno stile ridondante che penalizza la trama, anche a causa di dialoghi e situazioni improbabili, con descrizioni inutilmente interminabili che danno vita a periodi lunghissimi, sfiancanti. Amo i periodi lunghi, ma quando si dilungano per sei schermate di Kindle impostato su misura 8, esprimendo in decine di formule diverse un unico concetto per il quale basterebbe una frase breve, sbotto in un sacrosanto: “E che palle, ma taglia un po’”, cosa che ho fatto più volte leggendo il libro, senza contare che frasi come: “Si lascia risucchiare dalla terra, una sepoltura nel duodeno del pianeta” su di me non hanno presa e mi fanno solo provare antipatia per chi le ha scritte. Limite mio? Esagerazione sua? Diciamo entrambe le cose…

Da genovese ho apprezzato molto solo la prima parte dove Vaccari manifesta tutto il suo amore e il suo attaccamento a Marassi facendone il vero protagonista, ma dandone anche un’immagine impietosa che sinceramente non condivido.
Seppur non sia il mio quartiere, mi sono sentita a casa leggendo i tanti nomi di vie e piazze che conosco bene e tutte quelle parole dialettali (per le quali mi aspettavo, e invece manca, un mini dizionario alla fine, perché non credo sia scontato capire che la persa è la maggiorana e il grilletto non ha a che fare con le armi, ma è una semplice terrina) mi hanno scaldato il cuore.
Ancora di più ritrovare quel senso di appartenenza alla città che ti fa venire il “magone” appena ti allontani, anche quando sei contento perché stai andando in vacanza o a fare qualcosa che ti piace, ma non c'è niente da fare, se sei genovese appena volti le spalle alla Lanterna ti sembra davvero di aver offeso Genova e già ti manca.

"Odiava con tutto se stesso quelle che si chiamavano ‘rosticcerie cinesi’ e non poteva tollerare neanche quel ‘pizza al trancio’ in cui le focacce erano talmente alte e chimicamente lievitate che, ogni volta che ne sfornavano una, da qualche parte nel mondo un genovese moriva”

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di febbraio, lo collego a "Il bar dei cani" perchè in entrambi viene citata la mia Samp



venerdì 21 febbraio 2020

"Microfictions", Régis Jauffret


"Microfictions” è un’imponente raccolta di racconti, ben cinquecento. Ma ciò che lo rende particolare, suppongo unico, è la “lunghezza” di ciascuno: due pagine soltanto.

E da qui si può partire per elencare gli indiscutibili pregi dell’autore. Jaufrett scrive bene, molto bene. Uno stile secco e asciutto, intelligente e colto. Ha una fantasia inesauribile, è riuscito a inventarsi cinquecento vicende, altrettanti protagonisti e migliaia di personaggi secondari. Soprattutto è riuscito in due sole pagine a narrare cinquecento storie autoconclusive e sensate.

Non mi stupisce che "Microfictions" venga incensato dalla critica di alto livello, ma per me – che posso solo provare a fare una critica di bassissimo livello – pur riconoscendone a pieno le qualità letterarie, sale sul podio come libro più disturbante che abbia mai letto, scalzando “American Psycho” di Bret Easton Ellis dopo ben 24 anni di indiscussa supremazia.

Dall’inizio dell’anno ho letto dieci racconti al giorno che mi hanno procurato non pochi incubi notturni. In quasi tutti i racconti muore qualcuno e non si tratta mai di morte naturale, ma di omicidi o suicidi. Quasi tutti i racconti si sviluppano all’interno di famiglie o di ménage di coppia, di conseguenza abbiamo mogli che uccidono mariti, mariti che uccidono mogli, figli che uccidono genitori e anche tanti genitori che uccidono figli. Dalle famiglie ci si sposta sulla strada, ma anche quando la violenza viene perpetrata da sconosciuti su sconosciuti non c’è da stare allegri.

Quando non c’è qualcuno che muore, c’è comunque qualcuno vittima di abusi, percosse, stupri. Nella migliore delle ipotesi abbandoni.

Specifico che non si tratta di racconti gialli. Qui si uccide o ci si uccide per disperazione, degrado, noia. Situazioni grottesche raccontate con un distacco e con un cinismo raggelanti. Io - che sono tutt’altro che tenera e amabile, oltre che ben poco romantica, tanto da essermi divertita ritrovandomi nel sarcasmo di certi passaggi (“il cielo rosa punteggiato di nuvole sembrava la foto di una malattia della pelle”) - avrei sinceramente paura a vivere accanto a una mente capace di partorire simili fantasie, un uomo che riesce a parlare dei pedofili come di “appassionati di bambini”, giusto per fare un esempio di ciò che intendo per disturbante.

Un buon centinaio di racconti mi sono sembrati esercizi di bravura stilistica e se c’era un senso non sono stata in grado di coglierlo. Pochi, pochissimi, sono tristi e strazianti in maniera commovente. Ma la maggior parte è così sconcertante da far apparire stonati i due soli racconti a lieto fine dell’intera raccolta.

Ma la cosa più sconvolgente è la frase finale della sinossi:

"Microfictions è un libro che parla di tutti noi

Per quanto io sia impietosa nei confronti del genere umano, mi domando come si possa aver letto questi racconti e poi affermare una cosa del genere.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia annuale "un libro con più di mille pagine"

giovedì 20 febbraio 2020

"La ragazza del lago", Karin Fossum


Lundeby (città di fantasia a circa un’ora da Oslo), inizio estate 1995. L’ispettore Konrad Sejer arriva nel piccolo borgo norvegese in seguito alla segnalazione della scomparsa di Raghild, una bimba di appena sei anni. Il suo ritrovamento porterà a una macabra scoperta: il cadavere della quindicenne Annie Sofie Holland. Qualcuno l’ha annegata e poi abbandonata accanto a un laghetto circondato dai boschi. Annie era giovane, ma alta e muscolosa, una sportiva. Non dava confidenza a nessuno. Se ha deciso di seguire il suo assassino in un luogo isolato e se non ha fatto in tempo a reagire per difendersi significa una sola cosa: lo conosceva e si fidava di lui...

Titolo originario: “Lo sguardo di uno sconosciuto”. Penso che poi lo abbiano cambiato in seguita all’uscita del film, cosa che mi fa abbastanza storcere il naso. Già non sopporto quando non li pubblicano con una traduzione fedele al titolo in madrelingua, ma questo è ancora peggio.

Comunque sia, il film l’ho visto parecchi anni fa e per questo motivo ho affrontato la lettura con molti dubbi. Per me l’ordine giusto è: prima il libro, poi il film o la serie TV. Però non mi sembrava di ricordare nulla della trama, avevo solo dei flash di un Servillo con la faccia triste intento a fumare nei pressi di uno specchio d’acqua. E leggendo il libro ho avuto la conferma che, mentre ho una notevole memoria coi libri che leggo (che non sono pochi), i film che vedo (davvero pochissimi) tendo a rimuoverli in fretta, a eccezione di quella manciata vista più e più volte che sarei in grado di recitare a memoria.

Altra scelta editoriale che davvero non capisco è quella di aver tradotto soltanto sei dei dieci romanzi con protagonista l’ispettore Sejer e di averlo fatto random, senza neppure partire dal primo! Inconcepibile!! Frassinelli ha tradotto il secondo (che è questo), il terzo, il quinto e l’ottavo, mentre con Sperling&Kupfer sono usciti gli ultimi due. Mah…

Una scelta discutibile che sconvolge la mia precisione. Ed un peccato perché avrei voluto leggerli tutti e in ordine, mi è davvero piaciuto il modo di scrivere della Fossum, semplice, scorrevole, sufficientemente avvincete e garbato, un aggettivo che raramente si adatta ai thriller, invece questa autrice è riuscita a raccontare crimini sconvolgenti e brutali con una delicatezza davvero rara.

E ha raccontato un bel giallo, i colpi di scena non vengono sparati col botto (anche questo fa parte della finezza dell’autrice), ma sono ben disseminati lungo il racconto, con un epilogo un po’ amaro e che forse verrà ripreso nel terzo volume, che per fortuna è uno di quelli tradotti in italiano e che senz’altro leggerò.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia vagabonda di febbraio "un libro ambientato in Norvegia"

domenica 16 febbraio 2020

"Kafka sulla spiaggia", Haruki Murakami


Tokyo, giorni nostri. Tamura Kafka è un ragazzino serio quanto solitario, la madre lo ha abbandonato quando aveva appena quattro anni, portando con sé soltanto la figlia femmina. Il ragazzo, interagendo con “il ragazzo chiamato corvo”, suo amico immaginario, il giorno del suo quindicesimo compleanno mette in pratica la fuga che stava pianificando da tempo. Scappa dal padre, scultore diabolico e genitore assente, e dalla sua profezia: "Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella".
Non avendo un posto dove andare, sceglie una direzione a caso che risponda a un unico requisito: essere un luogo dove fa sempre caldo, in modo da poter ridurre al minimo il bagaglio. E questo lo porterà a 700 km da Tokyo, a Takamatsu.
Anche Nakata vive a Tokyo, ha superato la sessantina e si mantiene grazie al sussidio statale. Durante la seconda guerra mondiale, quando era solo un bambino, è stato vittima di un incidente mai spiegato che gli ha causato un serio ritardo mentale. Nakata è diventato “stupido”, come continua a definirsi, non sa leggere, non sa scrivere, non capisce tante cose, ad esempio cosa siano i ricordi, però riesce a parlare con i gatti. E sarà questo che lo porterà a commettere un omicidio. Il poliziotto di turno in questura non crederà alla sua assurda confessione e a quel punto anche Nakata lascerà la città, non per scappare, ma perché sente di avere una missione da portare a termine, anche se non sa di cosa si tratti né dove debba andare…

Era inevitabile che prima o poi, continuando a leggerlo, finissi per imbattermi anche nel Murakami onirico e, con mia enorme, gigantesca sorpresa, non mi è dispiaciuto affatto!

In questo libro vi è tutto ciò che normalmente non sopporto: una trama bislacca di cui posso dire di aver capito ben pochi punti perché succedono tante cose assurde a cui l’autore non prova nemmeno a dare un senso “logico”, seppur irreale; l’essere descrittivo in maniera maniacale; l’essere lento, a tratti lentissimo; l’essere, in generale, molto lontano dalla mia realtà (e meno male).

Mi è stato prezioso il consiglio di un amico: "Leggilo senza cercare di capirlo". E ha funzionato, anche grazie al modo di scrivere di Murakami che, oltre ad essere meraviglioso, ha il potere di rilassarmi (ma questo anche i pochi altri autori giapponesi che ho letto) e (incredibile che qualcosa ci riesca) calmarmi.
 
E’ indubbiamente uno dei libri più complessi che abbia mai letto, non solo perché manca di spiegazioni (quello che viene raccontato va accettato è basta, e questo sono riuscita a farlo, nonostante io sia quella che deve sempre trovare un senso, non solo nei libri), ma per i tantissimi richiami culturali, per di più a temi di cui non so nulla, dalla filosofia alla musica classica, dall’arte alle religioni nipponiche.

Non sono nemmeno sicura di aver colto il messaggio di Murakami, forse qualcosa legato al fatto che abbiamo tutti un destino segnato e che è inutile resistere perché finiremo comunque dov’è già previsto che finiremo, altra cosa che opposta alla mia ferrea convinzione che l’uomo ha il totale libero arbitrio sulle sue azioni e relative conseguenze.

Comunque sia, pur mantenendo la mia mente sigillata nei confronti del mistico, sono felice di aver affrontato il “realismo magico” di Murakami e di esserne uscita arricchita (e anche divertita): grazie Paolo!

"Ma se ci penso bene, probabilmente la creatura più pericolosa di tutta la foresta sono proprio io
(Tamura Kafka)

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia autore di febbraio

venerdì 14 febbraio 2020

"La casa nel bosco", Gianrico e Francesco Carofiglio


Bari, pochi anni fa. Gianrico e Francesco Carofiglio hanno accettato la proposta del loro editore di scrivere un libro a quattro mani. Avendo carta bianca sulla scelta del tema, non è semplice decidere quale storia raccontare. Ma i due fratelli devono fare anche un’altra cosa insieme: tornare nelle Murge per chiudere la casa nel bosco, cioè il casolare immerso nella foresta Mercadante dove da bambini trascorrevano le vacanze estive con i genitori. E saranno il breve viaggio, di un’ora soltanto, e il breve soggiorno, di un giorno soltanto, a dar loro l’idea per questo libro: un tuffo nel passato e nei ricordi, soprattutto quelli legati alla cucina…

Da sempre, come tutti suppongo, mi baso sulla sinossi dei libri per decidere se inserirli nella mia sempre più lunga wish list (sono quasi a 700 titoli), ma da qualche tempo – dopo essere incappata in sinossi contenenti assurdi spoiler - ho smesso di riguardarla quando poi arriva il momento di leggerli. Per questo motivo non mi ero resa conto di aver selezionato due libri “revival”. La struttura di questo e de “Il bar dei cani” è la stessa: i tre autori raccontano episodi della propria infanzia e della primissima adolescenza, ma essendo più vecchi di una decina d’anni rispetto a Cutrona, i Carofiglio ci portano negli anni ‘70.

Anche questa volta ho rispolverato alcuni ricordi, cosucce come l’abitudine di rubare i grani di Citrosodina per il gusto di farli sciogliere sotto alla lingua, particolari a cui non pensavo più da decenni, ma non molto perché i miei genitori non erano insegnanti, non andavano a Recanati per i convegni su Leopardi e, soprattutto, erano gente di mare e le rare volte in cui la famiglia si spingeva nell’entroterra di Genova era solo per andare a pranzo in qualche trattoria, non certo per passarci l'estate.

I Carofiglio legano i ricordi ai piatti, con tanto di mini ricettario in appendice, cosa che mi ha disturbato non poco: detesto cucinare e se non ho fame mi si rivolta lo stomaco a sentir parlare di cibo, senza contare che nessuno dei piatti citati è vegano, ma a giudicare dal numero di riviste di cucina che vendo in edicola e dagli slalom che devo fare per bypassare i cuochi che infestano la televisione di oggi, capisco che la loro scelta sia stata furba, anche se questo libro non ha ricevuto molti consensi.

Cucina a parte, invece a me è piaciuto: certo non ha nulla a che vedere con i libri dell’avvocato Guerrieri o del maresciallo Fenoglio, questo non è un giallo e non ha neppure una trama. E’ un semplice memoir anche privo delle riflessioni di spessore cui mi ha abituato Gianrico (di Francesco non ho mai letto nulla), però è scritto bene, su un altro livello rispetto alla semplicità stilistica di Cutrona.

Ma se il suo giovane protagonista era figlio unico, qui con due fratelli ho ritrovato nel loro modo di parlarsi quello che c’è fra me e mia sorella, quell'intesa nata dall’infinito carico di confidenza accumulata nei tanti anni di convivenza. Poi si cresce, si seguono strade diverse e non vivendo più la quotidianità si smette di sapere tutto l’uno dell’altro, ma parlarsi fa tornare giovani perchè a ben pensarci quello fra fratelli, o sorelle, è l’unico rapporto che non invecchia mai.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di febbraio "un libro che hai in wish list da più di un anno"



giovedì 13 febbraio 2020

"Il bar dei cani", Graziano Cutrona


Genova, anni ‘80. Bruno ha dieci anni e vive a San Fruttuoso, da non confondersi con l’omonima baia nel golfo del Tigullio: San Fruttuoso è “solo” un quartiere medio-grande che fa da cuscinetto fra il centro città e la Valbisagno. E’ nella piazza principale che sorge il bar dei cani, che in realtà ha un altro nome, ma che tutti chiamano così perché Pino, il carismatico proprietario, di cani ne ha tre e passano le giornate al bar con lui. Anche Bruno trascorre lì tanto tempo, con il padre, ma anche da solo, perché quelli erano tempi in cui le chiavi di casa erano una conquista per i ragazzi grandi e potevi dire a tuo figlio di aspettarti al bar (o all’edicola) sotto casa in tutta tranquillità…

Graziano Cutrona, autore televisivo di trasmissioni di livello (sono ironica!!) come Colorado, L’isola dei famosi, X- Factor, Temptation Island, ecc, è genovese, come me, sampdoriano, come me, ed è nato e cresciuto in un quartiere popolare, come me. Classe 1974, è un po’ più giovane di me, che sono del ‘69, mentre Bruno, il suo protagonista, è mio coetaneo.

Non potevo quindi non ritrovarmi in questo librino. Un librino in tutti i sensi: un cartaceo mini formato 10,5 x 15,5 di poche pagine (136), ma anche un po’ povero di stile e di contenuti. Pochi concetti che si ripetono, la descrizione delle giornate (più che altro dei pomeriggi) di questo ragazzino trascorse in mezzo ai grandi al bar, con in più l’inserimento del particolare “thriller” - un uomo sfigurato dal fuoco che passa le sue giornate al tavolino bevendo birra allungata con la gassosa continuando a fare e disfare il cubo di Rubik - con uno sviluppo che regala alla storia una bella morale.

Un librino decisamente nostalgico che, nonostante il suo essere terra terra, mi ha fatto commuovere a più riprese. San Fruttuoso non è il mio quartiere di origine (Sampierdarena nel cuore) e da ragazzina non frequentavo il bar sotto casa (anche se avrei almeno un divertente aneddoto da raccontare in proposito), già allora ero più tipo da edicola (ahimè…)! Ma in questo spaccato di vita genovese e proletaria degli anni ‘80 ci ho ritrovato tutti i miei ricordi dell’epoca. Quelli di una famiglia dove entrava un solo stipendio che veniva gestito dalla moglie e mamma, dove si aveva una sola auto che durava per 15 anni e che veniva usata solo al sabato e alla domenica, dove si aveva solo un televisore (senza telecomando), dove il divano restava incellophanato per anni (perché era nuovo), dove i genitori mettevano il lucchetto al telefono appena i figli crescevano e con l'età crescevano i fidanzatini da chiamare, dove non esisteva lo shopping e le scarpe si compravano solo se e quando servivano.

Un librino che riesce ad essere anche guida turistica, che racconta la Genova orgogliosa della seconda Guerra Mondiale, ma anche la Genova tifosa, perché il calcio qui unisce e divide come neppure politica e religione riescono a fare e il derby non si riduce a due partite da 90 minuti, ma dura per 525.600, cioè tutto l’anno (il conto lo ha fatto Cutrona).

un librino che prova anche a spiegare il perché della nostra antipatia per i foresti, la nostra inospitalità…

"ll carattere dei genovesi è chiuso come i vicoli della città, lo sconosciuto è sempre stato affrontato come un nemico, con manifesta diffidenza e con lo sguardo duro. E’ Genova stessa, con il suo dedalo di caruggi, ad apparire ostile allo straniero, ma se sei genovese ti abbraccia come una mamma. Ti protegge.

Cutrona doveva vendere, ok, ma la verità è una sola...


Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di febbraio "un libro che ti hanno regalato a Natale"

domenica 9 febbraio 2020

"La casa delle voci", Donato Carrisi


Firenze, giorni nostri. Pietro Gerber ha 33 anni e ha seguito le orme del padre diventando psicologo infantile specializzato nell’ipnosi. Il suo contributo è fondamentale per gli inquirenti quando le piccole vittime di abusi e maltrattamenti hanno seppellito i ricordi di quanto avvenuto.
E’ quello che è successo anche a Hanna Hall, una bambina cresciuta nell’isolamento assoluto nella casa delle voci, sottostando alle cinque regole ferree imposte dai suoi genitori.
Però Hanna non è più una bambina, ha trent’anni. Ma Pietro accetta ugualmente di occuparsi di lei per aiutarla a far luce sul passato, in particolare su un episodio: è stata lei a uccidere Ado quando era piccola?

La lettura parte col botto, un prologo datato 23 febbraio di pura suspense, con un’ambientazione estremamente suggestiva capace di fare accapponare la pelle, soprattutto se letto a tarda sera come è successo a me.
E così quel giorno, da amante del genere, mi ero addormentata felice, pensando di aver approcciato uno di quei (rari) thriller da leggere tutto d’uno fiato e col fiato sospeso.
E invece mi ci sono voluti otto giorni per finirlo. Perchè, dopo il prologo, nel primo capitolo compare Pietro e da lì comincia la discesa, a tratti morbida, a tratti in picchiata.

Pietro non è un protagonista credibile e le sue debolezze, professionali e personali, non sono giustificabili da “esigenze di copione”, ma questo è un dettaglio, immagino che molti (questo è un libro che sta piacendo quasi a tutti) non abbiano dato nemmeno peso a certi particolari non in linea con il ruolo professionale di quest’uomo.
Così come molti non saranno stati disturbati (io sì) da temi come le presunte capacità paranormali che tutti noi avremmo da bambini.

Il difetto di questo libro è che la storia non sta in piedi.

Come ho sempre detto, amo quelle in cui alla fine ogni tassello va a posto completando un puzzle con incastri perfetti, soprattutto nel caso di gialli e thriller dove è fondamentale che ogni episodio creato dall’autore sia sensato nel quadro generale. E’ importante riprendere tutti i fili che si è deciso di lanciare nel corso della narrazione, dando a ciascun fatto la giusta collocazione temporale, ad esempio, chiarendo il vero ruolo dei vari personaggi, far emergere il vero motivo per cui uno di loro ha deciso di fare una determinata cosa oppure com’è arrivato a capirne un’altra, ecc…
Sono tutti ingranaggi. Se qualcuno alla fine non combacia io, da odiosa precisina, storco il naso. Ma se sono tanti a non avere senso crolla l’intero meccanismo.

Carrisi si è limitato a sviluppare una traccia, l’ha ingarbugliata a dovere, ci ha buttato dentro un tot di situazioni tachicardiche sfruttando le più banali strategie dei film horror anni ‘80 (anche male, a partire dal titolo del libro, che sembra evocare chissà cosa per poi deludere quasi subito con una spiegazione che incute tenerezza, non certo spavento).
In questo modo ha scritto un libro che in fase di lettura crea quel tipo di ansia che tanto piace a noi amanti del genere. Ottimo per chi si accontenta, ma non si può ignorare come troppi aspetti non abbiano alcuna spiegazione facendo perdere senso a tutto il libro. E non si tratta di piccoli particolari trascurabili, ma proprio degli ingranaggi principali su cui Carrisi fa ruotare la vicenda (già molto inverosimile in generale, ma questo nella narrativa è, più o meno, accettabile e sopportabile).

Impossibile entrare nello specifico senza fare clamorosi spoiler, dico solo che Carrisi ha le qualità per scrivere un thriller coerente e la mancanza di sforzo in questo senso sa tanto di presa in giro.


Reading Challenge 2020: traccia gold del mese di febbraio