sabato 26 giugno 2021

"L'uomo che metteva in ordine il mondo", Fredrik Backman

Svezia, novembre, città e anno non precisati. Un lunedì come tanti a Ove viene comunicato il prepensionamento forzato. Quello che per me sarebbe un sogno, per lui rappresenta un dramma: convinto che una persona senza un lavoro sia solo un peso per la società e non avendo più uno scopo se non quello di aspettare la morte, Ove - ad appena 59 anni - decide di andarle incontro. Da uomo preciso, quale è sempre stato, alle 16 del suo primo giorno da pensionato ha già predisposto tutto: ha chiuso le utenze, disdetto l'abbonamento al giornale e controllato che i caloriferi siano spenti. Non deve fare altro che salire sullo sgabello con la corda che ha già legato in un cappio. Niente può dissuaderlo dalla decisione presa, a eccezione di un rumore infernale proveniente dall'esterno e che Ove riconosce subito per quello che è, un automezzo che striscia contro il muro della sua villetta: sono arrivati i nuovi vicini.

Capita anche a me di commuovermi leggendo un libro, ma era dal novembre scorso (cioè da "Cambiare l'acqua ai fiori") che non mi succedeva di arrivare a piangere: con gli ultimi due capitoli di questo sono arrivata a un passo dai singhiozzi.
E dire che per gran parte della lettura la storia di Ove non mi aveva conquistata più di tanto. Lo trovavo un libro con una storia carina e simpatica, sufficientemente originale, con un protagonista particolare.
Stilisticamente un buon libro, anche considerando che si trattava di un'opera prima scritta da un autore all'epoca trentunenne che affrontava con grande bravura temi pesanti, come l'anzianità (anche se - da quasi 52enne - avrei molto da ridire sul considerare anziano un uomo che ha solo sette anni più di me, cazzarola!!) e il lutto.
Non mi sorprendeva il successo avuto, però non avrei potuto giudicarlo un libro appassionante, non mi chiamava dal comodino e ammetto di aver messo fra ieri e oggi il turbo per riuscire a finirlo prima di partire (domani) per una mini vacanza al mare di tre giorni.

Ma avvicinandomi alla fine, come la Parvaneh del romanzo, mi sono resa conto di essermi affezionata a quel "vecchietto", così "burbero, scontroso, rancoroso, tirchio, acido e asociale" che meriterebbe la cittadinanza onoraria genovese, perchè qui siamo tutti un po' degli Ove ^^

Un uomo che mi ha fatto pensare a mio padre, non perchè fosse scorbutico (non lo era), ma perchè con le mani sapeva costruire o aggiustare qualsiasi cosa, perchè anche lui era fissato con una marca di automobili (le Opel anzichè le Saab) e perchè come Ove era già morto vent'anni prima di morire veramente, con la vedovanza.

Backman fa delle considerazioni sulla morte molto profonde e molto vere. Probabilmente stamattina non ho pianto per il suo Ove, ma per mia madre e per mio padre. E anche per riconoscere che a poco più di cinquant'anni sono già arrivata a quel certo punto quando "ci si rende conto di aver raggiunto l'età in cui c'è da guardare più indietro che avanti".
Un po' triste? Sì, parecchio.

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia compleanno di giugno (l'autore è nato il 2 giugno 1981)
 

 

 

 

 

giovedì 24 giugno 2021

"L'amante giapponese", Isabel Allende

Berkeley (California), 2010. LarkHouse è una casa di riposo per anziani decisamente atipica, dove la retta non è fissa, ma varia a seconda del reddito di ogni singolo ospite. E' qui che si incrociano le vite di due donne che in comune hanno solo le origini europee e un inizio di vita tutto in salita.
Alma Belasco, polacca del 1931, a poco più di sette anni era stata imbarcata su una nave con destinazione Stati Uniti dai genitori, nel tentativo (riuscito) di mettere al riparo almeno la bambina dal pericolo sempre più reale del nazismo.
Irina Bazili, moldava del 1987, era arrivata  in America a 12 anni, lasciando una vita di stenti per finire in qualcosa di ben più terribile e atroce.
La prima, che grazie alla sua ricchezza avrebbe potuto permettersi centri per anziani di lusso, ha preferito ritirarsi in questo posto modesto, nell'incredulità dei familiari.
La seconda a LarkHouse, in mezzo a quelle persone anziane bisognose di aiuto, ha trovato finalmente un po' di tranquillità.
E Seth, il nipote di Alma, che - per riuscire a vedere spesso la ragazza, più che per un reale interesse - convince la nonna a raccontargli la sua vita e quella dei Belasco, famiglia di cui "si poteva risalire alle origini fin dai tempi della febbre dell'oro"...

Un anno e mezzo dopo il meraviglioso "Oltre l'inverno", torno a godere della bravura della Allende e non saprei proprio dire quale dei due romanzi mi sia piaciuto di più.

Ne "L'amante giapponese", scritto nel 2015, la storia d'amore non è la protagonista assoluta, come mi aspettavo: è una saga familiare e l'autrice attraverso i ricordi fa viaggiare i suoi personaggi (e i suoi lettori) avanti e indietro nel tempo, abbracciando quasi un secolo di storia, con una fluidità di scrittura che appaga totalmente.
E' dannatamente brava nel creare un meccanismo narrativo perfetto, dove ogni figura, principale e non, ha una sua funzione precisa e dove ogni rapporto viene descritto dal punto di vista di ogni soggetto coinvolto senza risultare mai pesante.

Il romanzo tocca temi importanti, pedofilia, omosessualità, AIDS, eutanasia e, naturalmente, la solitudine che caratterizza gli "anni invernali" della vita di ognuno (per chi ha la fortuna di arrivarci).

"Alma sosteneva che tutti possiedono un giardino interiore in cui rifugiarsi"

E non sarebbe un romanzo di Isabel Allende se non ci fossero riferimenti storici: mi sarebbe piaciuto un maggiore approfondimento di quelli riferiti alla situazione europea prima e durante la seconda Guerra Mondiale (considerando anche che i Belasco sono una famiglia ebrea), soprattutto mi ha molto stupito non trovare neppure un accenno alle due bombe atomiche sganciate dagli americani sul Giappone, ma attraverso l'altra famiglia protagonista, quella dei Fukada, la Allende descrive in maniera toccante le vessazioni subite dai giapponesi residenti negli Stati Uniti in seguito all'attacco di Pearl Harbor, persone che vivevano in pace nel Paese da 30 o 40 anni, i cui figli erano nati e cresciuti in America e che vennero prelevate dalle loro case, deportate nei campi di concentramento costruiti per loro e dove furono rinchiuse per anni. Civili, non militari. Al pari degli ebrei raccolti nei ghetti e poi deportati nei lager nazisti.

I campi di concentramento americani non erano campi di sterminio, ma basta cercare le immagini di Topaz per capire che quando una nazione costruisce e allinea delle baracche per rinchiuderci delle persone privandole di ogni diritto qualcosa non funziona come dovrebbe.





Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla prima traccia annuale, "dieci libri a scelta da leggere entro la fine dell'anno"
 

 

mercoledì 23 giugno 2021

"Il banchiere", Régis Jauffret

Un uomo ricchissimo quanto potente. La sua amante. Sesso estremo. Un milione di dollari chiesto da lei come pegno d'amore. Un accredito in banca, che però poi viene bloccato.
Un ultimo gioco sadomaso, lui legato a una sedia e imprigionato dentro a una tuta di latex rosa. Una pistola e un colpo alla testa.

"Non dovete credere che questa storia sia reale, l'ho inventata io. Se qualcuno vi si riconosce, che si prepari un bagno caldo"

E qualcuno vi si è riconosciuto...

Scrittore bizzarro questo Jauffret: l'anno scorso avevo già avuto un corposo assaggio della sua freddezza (ma anche della sua bravura) con "Microfictions". Adesso sono passata dalle 500 pagine di quella raccolta di racconti alle 151 di quest'unica storia, un romanzo-verità che Jauffret narra in prima persona immaginando di dare voce all'assassina.

Cioè a Cécile Brossard, la donna che per quattro anni fu l'amante (anzi, la Mistress) del ricchissimo banchiere francese Edouard Stern e che lo uccise a Ginevra il 28 febbraio 2005. Arrestata due settimane dopo, confessò l'omicidio e il 18 giugno 2009 venne condannata a 8 anni e mezzo di carcere (la procura ne aveva chiesto 11), dei quali scontò soltanto 18 mesi, tornando il libertà il 9 novembre 2010, non so per quale motivo.

Già al processo le furono risconosciute molte attenuanti, la sua infanzia difficile, ma soprattutto le vessazioni, i soprusi, le umiliazioni e le minacce che le venivano inflitte da Stern (forse era lui il vero dominatore?).

Il libro non arriva al processo: con salti temporali ben riusciti e senza tanti giri di parole (in pratica l'opposto di Dicker...) racconta il passato della donna, il rapporto fra i due, quello di lei con il marito, l'omicidio, il tentativo di fuga in Australia, il ritorno in Europa, fino all'ammissione di colpevolezza.

Navigando su siti francesi e svizzeri non sono riuscita a trovare notizia di un aspetto importante: se la Brossard ha collaborato al libro. Senza questo dettaglio è impossibile capire quanto Jauffret abbia romanzato la vicenda, ma indubbiamente c'è molta realtà altrimenti la famiglia Stern non avrebbe chiesto il ritiro e la distruzione di tutte le copie di "Sévère" (titolo originale dell'opera) citando in giudizio autore ed editore per violazione della privacy, per poi rinunciare all'azione legale un paio d'anni dopo con la motivazione di essere contrari a ogni forma di censura. Quindi sapevano che avrebbero perso la causa...

Di sicuro Edouard Stern non esce bene dal racconto, se tutto corrisponde a verità viene da dare ragione a Jauffret quando sostiene che ci sono casi in cui le vittime in seguito agli accertamenti si rivelano più colpevoli di chi li ha uccisi. Personalmente mi è bastata una foto che ritrae entrambi sorridenti inginocchiati accanto a un'antilope con un foro di proiettile in mezzo agli occhi per dirottare tutta la mia pietà sull'animale.

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia compleanno di giugno (l'autore è nato il 5 giugno 1955)


 

domenica 20 giugno 2021

"Il taccuino delle cose non dette", Clare Pooley

Fulham (Londra), ottobre 2018. Julian Jessop è un anziano pittore (sostiene di avere 79 anni) che ha vissuto una certa dose di celebrità negli anni '70. Fama che gli aveva fruttato amicizie importanti (vere o presunte) e un sostanzioso bottino di avventure extraconiugali. Ma da 15 anni, cioè da quando ha perso la moglie Mary, Julian è un uomo solo. Ed è questo che scrive nel taccuino verde che ha intitolato "Progetto Autenticità" che poi lascia su un tavolino del Monica's Café.

"Fino a che punto conosci le persone che ti circondano? Fino a che punto loro conoscono te? Tutti mentono sulle loro vite. Che cosa succederebbe se invece dicessi la verità?"

E lui la sua verità la scrive in maiuscolo:

"SONO SOLO"

La persona che lo troverà avrà voglia di leggere la storia di Julian, di scrivere la sua e poi di abbandonare il taccuino in un luogo pubblico per far proseguire la catena da qualcun altro?

Ovviamente sì, altrimenti il libro non avrebbe il titolo che ha ^^

Un libro a cui probabilmente avrei dato un valore più profondo se durante la lettura avessi saputo del passato di alcoolista dell'autrice, cosa che racconta nei ringraziamenti finali. Senza questo dettaglio il libro tende a sembrare un'accozzaglia di buoni sentimenti sciorinati per compiacere chi legge e dare un'immagine del genere umano migliore di quanto sia realmente. Sapere, invece, che probabilmente i pensieri di alcuni dei suoi personaggi sono i suoi l'ha resa ai miei occhi meno paracula di quanto mi fosse sembrata.

Certo nel libro ci ha messo di tutto, troppi temi importanti (non solo le dipendenze - da alcool, droga e social -  ma anche omosessualità, difficoltà nei rapporti coniugali e genitoriali, voglia di maternità, ecc, oltre naturalmente quello della solitudine degli anziani) finendo col trattarli tutti superficialmente e inanellando una serie infinita di luoghi comuni, sensazione amplificata dalla stereotipizzazione di tutti i personaggi.

Sembra proprio che la Pooley ci sia messa d'impegno per fare contenti tutti, ad esempio gli ambientalisti e gli animalisti, cercando di ingraziarseli con una breve parentesi - questa, sì, tremendamente ipocrita ("si era sforzata di non pensare all'impatto sul cambiamento climatico e a tutti quei poveri cuccioli di orso polare, separati dalle madri dai banchi di ghiaccio che si sciolgono") - come se fossimo così scemi da non riconoscerne la falsità.
Ma è anche vero che la coerenza della maggior parte delle persone gira come una bandiera quando si tratta di animali e il valore che danno alla loro vita dipende da cosa è rivestito il loro corpo, se di peli (a patto che siano morbidi e possibilmente accarezzabili) o di lische o di altro (come in qusto caso: poveri orsetti polari, ma delle aragoste chi se ne frega...)!

Non è per questo che trovo la collocazione nella narrativa contemporanea esagerata: sono d'accordo con il giudizio della mia amica Sonia, che ha letto il libro alcuni mesi fa ("Niente di trascendentale... si lascia leggere"), ma lo vedrei meglio inquadrato nel genere rosa (anche a causa di frasi tipo: "Una brina leggera splendeva come polvere di fata") perchè alla fine è lì che si va a parare.

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla prima traccia annuale, "dieci libri a scelta da leggere entro la fine dell'anno"
 

 

venerdì 18 giugno 2021

"L'enigma della camera 622", Joel Dicker


Verbier (Svizzera), week-end del 15 e 16 dicembre 2003. Non è un fine settimana qualunque per i dipendenti della Banca Ebezner, uno degli istituti di credito privati più importanti del Paese, fondato nel 1702: è quello del Grand-Weekend, la festa annuale che si svolge nel lussuoso Palace de Verbier, sulle Alpi svizzere e a cui sono tutti invitati.
E non è un Grand-Weekend qualunque: questa volta il Consiglio nominerà ufficialmente il nuovo presidente della banca, carica vacante dalla morte di Abel Ebezner, avvenuta a gennaio di quell'anno.
Un Grand-Weekend che però verrà ricordato per un omicidio...
Ginevra, 23 giugno 2018. Non è una bella annata per "lo scrittore": a inizio anno è morto quello che non era solo il suo editore, ma una persona importantissima della sua vita. E Sloane, la donna che avrebbe potuto diventare altrettanto importante, si è stancata della sua mania di scrivere e lo ha lasciato. Anche Denise, la sua onnipresente assistente, si è concessa due settimane di vacanza con il suo nuovo amore.
Restare da solo in città con il caldo estivo incombente non è allettante. Meglio partire per un luogo tranquillo e fresco, ad esempio per Verbier, alla ricerca di un po' di pace.
Ma basta dare un'occhiata ai numeri sulle porte delle stanze per mettersi subito a cercare qualcosa di molto diverso dalla serenità: "Perchè al Palace de Verbier c'è una camera 621 bis al posto della 622? Questa è una trama. E' l'inizio di un romanzo"...

Bernard de Fallois, deceduto il 2 gennaio 2018, è stato davvero l'editore di Joel Dicker per sei anni. Era stato lui ad accordargli fiducia, nonostante il flop del primo romanzo, accettando di pubblicare nel 2012 quello che sarebbe diventato, a torto o a ragione, uno dei più grandi successi editoriali degli ultimi decenni, "La verità sul caso Harry Quebert".
E Dicker ha scritto "L'enigma della camera 622" attorno a lui, dedicandogli pagine molto intense da cui traspare un affetto, un legame e un dispiacere per la perdita che immagino non siano così comuni nel mondo editoriale.

Il libro ha anche una gran bella copertina che racchiude tutte le sfumature del colore che amo di più.

Ma il libro è stato per me una cocente delusione: quando ti trovi a chiederti se stai leggendo un giallo serio o una storiella di Macchia Nera non è una bella cosa, per niente.

Come al solito Dicker scatena una divisione netta fra chi legge un suo romanzo, o lo si ama o lo si odia. Ne so qualcosa dopo aver difeso accanitamente "Harry Quebert" in un gruppo FB da quelli a cui non era piaciuto (e che di conseguenza non capivano il grande successo riscosso). Ricordo che la maggior parte di loro sosteneva, in sintesi, che Dicker scrive come un dodicenne, imputandogli soprattutto una mancanza di spessore nei dialoghi. E io pensavo: ma insomma, con una protagonista femminile quindicenne e per di più innamorata, e un protagonista maschile da cui per età, titoli di studio e professione sarebbe, sì, logico aspettarsi ragionamenti da adulto, ma che incontriamo in un momento di rincoglionimento ormonale degno di un adolescente ancora vergine, che cosa si aspettano?

Ma questa volta non ci sono scusanti. Se anche la vita reale - nel ramo dell'industria, della politica, dello spettacolo, ecc - ci dimostra con svariati personaggi che intelligenza, acume e anche il semplice talento non vengono ereditati automaticamente come il cognome e il patrimonio, l'imbarazzante e fastidiosa stupidità di Macarie Ebezner rovina il romanzo rendendolo grottesco e caricaturale al pari di questo personaggio, uno dei più imbecilli in cui mi sia mai imbattuta. A tratti mi ha ricordato una versione maschile di Backy della Kinsella, nelle sue performance più irritanti, e di certo fargli uscire di bocca termini come "passerotta" (e qui va menzionato il "micino" con cui lui viene chiamato dalla moglie!), "caffettino", "aiutino", "salutino", ecc, non ha migliorato la situazione dando l'impressione di essere alle prese con un Harmony di 640 pagine, con vicende d'amore da orticaria e scenette degne del ballo di Cenerentola.

Ma tutti i personaggi sono insopportabilmente stereotipati dalla loro provenienza (non solo geografica) e/o dal loro ruolo professionale.

Questa volta a Dicker non riesce troppo bene neppure il gioco dei salti temporali che mi aveva tanto conquistata negli altri suoi romanzi. Avere entrambi gli intervalli che separano le tre epoche dei fatti di 15 anni (1988 - 2003 - 2018) è una cosa che tende a disorientare e qualcuno dovrebbe dire a Dicker che non è questo tipo di elemento a rendere un libro apprezzabilmente complesso. Lo rende solo confuso.

Già che c'è, quel qualcuno dovrebbe anche fargli notare che non basta far ammettere ai propri personaggi impegnati in un'indagine di avere avuto un colpo di fortuna o di essere arrivati a qualcosa grazie a una fortunata coincidenza per trasformare delle comode scappatoie in meccanismi intelligenti e funzionali.

Senza contare che sfruttare la stessa struttura in ogni romanzo (al pari del protagonista scrittore) finisce per stancare o per far venire il dubbio che chi scrive non sappia fare altro: per quanto ami i cold case, mi piacerebbe leggere un Dicker con una storia tutta al presente, anche per vedere cosa si inventa per arrivare alle sue abituali 6-700 pagine non potendo allungare la broda ricorrendo a eventi ripetuti anche 4-5 volte o inserendo inutili dettagli pescati dal passato (come descrivere dettagliatamente la colazione che la madre di uno dei personaggi faceva prima che lui nascesse!).

Sto sempre molto attenta a non fare spoiler, ma questa volta ho bisogno di aggiungere una considerazione che sconsiglio di leggere a chi non ha ancora affrontato il romanzo, ma intende farlo.


Vittima debole +  assassino debole = storia debole.

Con debole intendo personaggi di scarso rilievo: fino al 57% il focus del romanzo è quello di arrivare a scoprire chi è stato ucciso nella camera 622 e quando lo si scopre la sensazione che si prova è l'indifferenza. Allora si sposta l'attenzione sul nome del colpevole, ma anche in questo caso una volta raggiunto l'acme (per altro neppure in modo appassionante) il colpo di scena non riesce a essere tale perchè quel nome non è importante.

Ma qui arriva anche la cosa che mi ha dato più fastidio di tutto il libro: è abominevole che un autore così commerciale, così letto, si permetta di descrivere un omicidio come la prova d'amore più grande, "un gesto d'amore assoluto". Evito sempre di leggere ciò che viene scritto di un libro prima di averlo finito, ma mi auguro che ci sia stata una condanna pubblica per questa uscita così infelice!

A Harry Quebert aveva fatto dire che "un bel libro è un libro che dispiace aver finito" e quella volta per me era stato proprio così. Questa decisamente no.


Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia compleanno di giugno (l'autore è nato il 16 giugno 1985)



mercoledì 16 giugno 2021

"Arance rosse", Harriet Tyce


Londra, ottobre 2016. All'apparenza alla vita di Alison sembra non mancare nulla: ha un'adorabile bambina di 7 anni, Matilda; un marito premuroso e presente, Carl; una casa bella e accogliente; un lavoro appagante come patrocinatore legale. Prossima ai 40, le è stato appena assegnato il suo primo caso di omicidio che non dovrebbe nascondere sorprese dato che l'imputata, Madeline Smith, ha ammesso di aver ucciso il marito Edwin con quindici coltellate.
Ma Alison ha anche cose che non dovrebbe avere: un amante, per esempio. Un serio problema con l'alcool. E una/o stalker che chiaramente sa tutto di lei e Patrick e che vuole vendicarsi...

Opera prima di questa autrice scozzese che segue il filone tanto caro agli autori (direi soprattutto alle autrici) di thriller d'oltremanica, quello dove la protagonista (che spesso esercita la professione legale) ha una forte dipendenza dall'alcool che la porta a compromettere tutto quello che di buono era riuscita a costruire nella vita.

Forse la cosa più originale di questo romanzo è la notevole antipatia della protagonista stessa, con cui - anche quando le cose si mettono male per lei - è davvero difficile provare empatia, nonostante si sappia che esiste di peggio (anche nel libro). Lo stile è molto semplice e lineare, non si perde in descrizioni prolisse (e, siccome sto leggendo anche Dicker, ho apprezzato particolarmente questa snellezza), la trama non è complessa, la suspense è minima, il gioco della storia nella storia non è riuscito perchè non c'è nulla nel caso di Madeleine che riporti a quello di Alison, ma anche se il ritmo non è serrato riesce comunque ad essere sufficientemente coinvolgente fino a un colpo di scena finale dignitoso.

Il caldo di oggi mi spinge a ricorrere all'abusato termine di "lettura da ombrellone": non impegnativa e piacevole se si ama il genere.
Su Amazon UK vedo che l'anno scorso è uscito il secondo thriller della Tyce, "The lies you told": sarò contenta se lo tradurranno, penso che abbia un buon margine di miglioramento.

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla prima traccia annuale, "dieci libri a scelta da leggere entro la fine dell'anno"
 

 

lunedì 14 giugno 2021

"Eleonora d'Aquitania", Régine Pernoud


Castello di Belin, nei pressi di Poitiers: è qui che nasce Aliénor d'Aquitaine, per noi Eleonora d'Aquitania, in un giorno che non ci è stato tramandato compreso fra il 1120 e il 1122.
Passata alla storia come una megera dominata dall'odio, è solo nel secolo scorso che si è cominciato a verificare la storiografia che la riguarda e Régine Pernoud è fra quelli che, documenti alla mano, ha fatto in modo di smontare le teorie negative su questa donna che visse per almeno ottant'anni, che fu due volte regina (di Francia e di Inghilterra) e madre di due re, che sopravvisse a otto dei suoi dieci figli e che non abbassò mai il capo, neppure davanti a papi e imperatori.

Biografia scritta nel 1966, ho ritrovato lo stile attuale che avevo già apprezzato lo scorso anno in "Medioevo. Un secolare pregiudizio" e la passione con cui difende questo periodo storico che ama tanto, accusando i cattedratici di "ignoranza pasciuta" e infervorandosi contro quel "culto esclusivo dell'età classica che chiudeva ostinatamente gli animi a tutto ciò che non parlava nè latino nè greco", ma è un eccesso di "tifo" in cui cade a sua volta perchè è vero quello che viene scritto di lei nell'editoriale: "qualcuno talvolta ha avuto l'impressione che la sua tendenza sia quella di abbellire il Medioevo e di vedere negli uomini e nelle donne di allora solo il lato buono".

Come mi era successo leggendo l'altro saggio, non condivido la sua visione benefica verso il sistema feudale e di nuovo, per ribaltare l'immagine che si aveva della donna medievale come "della moglie disprezzata, estranea alla vita del marito, rinchiusa entro le mura di un tetro castello in attesa del suo ritorno" si appella ad esempi di donne che coprivano posizioni privilegiate che non si potrebbero considerare comuni neppure ai giorni nostri, senza contare qualche uscita poco felice come quella riferita a Berengaria di Navarra, moglie di Riccardo, che la Pernoud descrive come una "figura un po' scialba che non è stata capace di conservarsi il suo incorreggibile sposo".

Per contro, però, mi sono beata delle descrizioni dei luoghi, in particolare di quelle di Poitiers di cui Eleonora fu regina (dei trovatori) più che in Francia o in Inghilterra. Mi sono letteralmente persa nel cercare in rete le immagini ammirando i tanti angoli della città arrivati fino a noi come li aveva visti Eleonora quasi mille anni fa, mentre non ho amato le lunghe parti dedicate alla poesia cortese nè i versi riportati, come:

"Oh Dio, Perchè non sono una rondine?"

Ma non potevano mancare, è alla corte di Eleonora che avviene la fusione fra spirito cortese, temi cavallereschi e miti celtici.

Eleonora che la Pernoud ci racconta da quando era una ragazza frivola e capricciosa fino al diventare una regina vecchia e saggia. Ce la presenta partendo dalle prime notizie documentate che la riguardano e che coincidono con il suo matrimonio con Luigi, erede al trono di Francia, il futuro Luigi VII, celebrato il 25 luglio 1137 nella cattedrale di Saint-André di Bordeaux. Seguiamo la crescita di entrambi in un'epoca in cui la situazione dei re di Francia non era quella fastosa di Luigi XIV, ma - anzi - erano i suoi vassalli ad avere domini maggiori. Una giovane coppia che aveva spesso reazioni sconsiderate, capaci di causare drammi come la guerra che sfociò nell'olocausto di Vitry nel 1142. Da lì la partenza per la seconda (disastrosa) crociata, fino all'annullamento del matrimonio durato 15 anni.

E si arriva a quello di Eleonora con Enrico Plantageneto, un matrimonio voluto da lei: uno dei più informati cronisti del tempo sembra non avere dubbi nel dire "che Eleonora ha voluto separarsi da Luigi e che lui vi ha acconsentito". Eleonora era davvero innamorata di Enrico (di dieci anni più giovane) con cui formò a lungo una coppia perfetta, unita dall'ambizione, e insieme dominarono tutta la Francia dell'ovest, dai Pirenei alla Manica, e poi anche oltre, con Eleonora attiva nell'amministrare il regno, rilasciando atti e ordini di pagamento a proprio nome, amministrando la giustizia e le sue carte con un tono che non ammetteva repliche: ecco un bell'esempio di donna emancipata per la Pernoud, ma un caso più unico che raro...

E' con Rosamunda che arriva la crisi coniugale: Eleonora beffata diventa regina vendicativa e nemica di Enrico, ma capace di viaggiare per i feudi alla morte di lui (6 luglio 1189) per riparare ai suoi abusi portando un vento di liberazione e aprendosi ai problemi dell'epoca, ad esempio stabilendo misure di capacità e di lunghezza per granaglie, liquidi e stoffe uniformi in tutto il regno, oltre a una moneta valida in tutta l'Inghilterra (elementi essenziali per un commercio equo, cose che in Francia si verificarono moltissimo tempo dopo).

La vita di Eleonora continua come regina madre di re e il figlio Riccardo, passato alla storia come Riccardo Cuor di Leone, le ruba i riflettori per una buona parte di questa biografia, di cui ho apprezzato soprattutto la prima, quella dell'Eleonora francese, ma sono consapevole del fatto che il mio giudizio sia influenzato dalla grande antipatia che ho sempre avuto per i Plantageneti.

Eleonora muore il 31 marzo o il 1° aprile 1204 nell'abbazia di Fontevrault, due anni dopo aver preso il velo. Ed è lì che riposa, a fianco di Enrico II.


Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia compleanno di giugno (l'autrice era nata il 17 giugno 1909)



venerdì 11 giugno 2021

"Caos calmo", Sandro Veronesi


Roccamare (Grosseto), 30 agosto 2004. Si può definirsi vedovo se la donna che è morta non la avevi ancora sposata, ma avresti dovuto farlo dopo cinque giorni? Eccome! E non solo perchè il matrimonio era imminente o perchè con quella donna ci vivevi da undici anni e insieme avevate fatto una figlia!
Pietro Paladini, quarantatreenne romano trapiantato a Milano, dirigente di una pay-tv e padre di Claudia, fa bene a definirsi vedovo di Lara, la cui morte improvvisa stravolge progetti, futuro e aspettative, lasciando il dubbio su cosa sia più giusto fare adesso, soprattutto per quella bambina di cui ora è il solo responsabile.
Il bisogno di farle sentire la vicinanza (o di averla vicina?) si traduce nel parcheggiarsi (letteralmente) davanti alla sua scuola per un giorno, che poi diventano due, poi tre, finchè l'accumulo comincia riguardare le settimane che a loro volta diventano mesi...
E sarà la vita - che irrimediabilmente non si ferma, perchè "il tempo scorre in un verso solo" - quella di Pietro, ma anche quella degli altri, del fratello, della cognata, dei colleghi e anche quella degli sconosciuti, ad andare da lui.

Romanzo datato 2005 e vincitore dello Strega 2006, premio vinto da Veronesi anche lo scorso anno con "Il colibrì" e che a mia volta ho letto (e adorato) esattamente un anno fa.
E proprio nell'immediatezza della proclamazione del vincitore 2020 mi era capitato di ascoltare un paio di interviste ai finalisti provando una forte antipatia per Veronesi uomo, sentimento che poi ho scoperto essere condiviso da molti. Ma l'arroganza con cui si pone non ha condizionato il mio giudizio sul suo libro, cosa piuttosto insolita per come sono fatta, e questa seconda lettura ha, viceversa, migliorato l'opinione che avevo della sua persona perchè il coraggio di ricordare in maniera così netta che l'Italia è un Paese laico non è comune e va degnamente sottolineato.

Così, a caldo ("Caos calmo" l'ho terminato una manciata di ore fa, scoprendo subito dopo con piacere che
Pietro Paladini è protagonista anche di "Terre rare"), non saprei dire se mi sia piaciuto più de "Il colibrì", ma i libri sono una delle pochissime cose su cui fatico a fare classifiche di gradimento (o di "sgradimento"): in mezzo ai tanti libri che vanno dal "bruttino" al "carino", quelli che trovo pessimi (e alcuni oggettivamente lo sono) e quelli che trovo meravigliosi (di cui la maggior parte oggettivamente lo è) riescono sempre a distinguersi con prepotenza e una volta finiti in una o nell'altra cerchia poco importa stabilire quale sia il più brutto dei peggiori o il più bello dei migliori.

Diciamo, quindi, che Veronesi con me è a punteggio pieno: due libri letti ed entrambi vanno nella categoria dei più belli di sempre. "Caos calmo" (due termini agli antipodi ed entrambi lontanissimi da me), oltre ad essere un gran bel titolo (ormai è impossibile capire se sia stato Veronesi a inventarsi questa definizione o se sia stato lui, e non Paladini, a trovare su web 2180 rimandi a "quiet chaos": adesso digitando le due parole ogni rimando in rete è collegato al suo libro o al film che ne è stato tratto e che recupererò nei prossimi giorni, nonostante Moretti sia un altro personaggio che non amo, ben peggio di Veronesi), è un romanzo potente, scritto da un uomo intelligente, più del suo protagonista che probabilmente ha più fragilità del suo creatore, che con un personaggio immobile riesce a toccare tante tematiche, tutte importanti, pesanti, difficili da trattare e da gestire, e lo fa davvero bene, grazie anche a quell'insolenza fiorentina così distinguibile da essere unica.

"Ma quale vita precedente, si vedono ogni giorno tante di quelle facce che quando incontri una persona e hai l’impressione di averla già vista molto probabilmente l’hai già vista"

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla prima traccia annuale, "dieci libri a scelta da leggere entro la fine dell'anno"
 

giovedì 3 giugno 2021

"La vita bugiarda degli adulti", Elena Ferrante


Napoli, primavera 1992. Brutta cosa origliare i discorsi dei genitori. Bruttissima cosa parlare male dei figli. Orribile quando le due cose succedono contemporaneamente, soprattutto se hai quasi 13 anni e crescendo ti stai pian piano rendendo conto che non sei l'adorabile e splendida principessa che mamma e papà ti hanno fatto credere di essere per tutta la tua infanzia.
E' quello che succede a Giovanna Trada quando un giorno sente il (venerato) padre dire alla madre che lei, la loro bambina, stava diventando sempre più brutta. In realtà il padre non ha usato proprio questi termini, ma forse ha fatto di peggio: ha detto che sta diventando come Vittoria!
Vittoria, la sorella di lui, quindi la zia che Giovanna non ha mai nè conosciuto nè visto in fotografia perchè quella parente della "Napoli bassa" è così mostruosa da aver messo - ben prima che lei nascesse - tutta la famiglia contro ai suoi genitori. Per questo non ha mai incontrato nessuno del ramo familiare paterno.
Ma ora - adesso che sa di stare diventando brutta come zia Vittoria - deve assolutamente poterla incontrare almeno una volta, giusto per capire in cosa si sta trasformando...

Fra settembre e ottobre del 2019 mi ero goduta la tetralogia de "L'amica geniale" più "L'amore molesto". L'idea era quella di recuperare in tempi brevi tutti gli altri (pochi) romanzi della Ferrante, ma come al solito i miei progetti di lettura sono troppi e fanno a spintoni fra loro.

"La vita bugiarda degli adulti", attualmente l'ultimo romanzo dell'autrice, è stato scritto proprio due anni fa. Solo finendolo mi sono ricordata che ai tempi dell'uscita, quando tutti ne parlavano, avevo deciso di rimandarne la lettura perchè in molti lamentavano un finale non finale che dava motivo di pensare a un seguito. Magari succederà, del resto Giovanna, di cui seguiamo la crescita fino ai 16 anni, è una protagonista con l'intera vita davanti e il libro, raccontato in prima persona da una versione di lei adulta, potrebbe essere anche anziana, si presta senz'altro a uno o più seguiti. Ma questo un finale lo ha, in linea con l'età della protagonista e per questo molto logico.

Le lamentele di altri lettori mi hanno fatto ricordare la delusione di mia madre e delle mamme delle mie amiche quando ci avevano portate al cinema a vedere "Il tempo delle mele" che per loro aveva un finale assurdo, ma che per noi ragazzine rappresentava la nostra realtà.

"Bugie, bugie, gli adulti le vietano e intanto ne dicono tante"

A prescindere dal modo in cui possa venire accolto il finale della Ferrante, il romanzo è oggettivamente bello perchè lei scrive bene e perchè riesce
a costruire trame con pochissimi elementi e scava, scava, scava, portando immancabilmente a riflessioni profonde, a volte dolorose.
Usa i suoi personaggi per fare emergere il peggio dell'animo umano
, debolezze, fragilità, rancori, invidie, tradimenti e perbenismi.

"L'amore è opaco come i vetri delle finestre dei cessi"

Qui in particolare svela l'arte del mentire dicendo la verità ed evidenzia come chi la verità la chiede di solito è anche chi è meno disposto ad accettarla, se non è quella che vuole sentire.

Muovo un'unica critica alle descrizioni che mi sono sembrate anacronistiche rispetto agli anni in cui si svolge la storia (1992-96): i rapporti fra i vari personaggi, i dialoghi, gli atteggiamenti, anche l'abbigliamento descritto, tutto sembra collegato a un'epoca più vecchia, addirittura di qualche decina d'anni.


Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla prima traccia annuale, "dieci libri a scelta da leggere entro la fine dell'anno"