venerdì 30 luglio 2021

"La bella stagione", Roberto Mancini e Gianluca Vialli

Wembley Stadium (Londra), 11 luglio 2021. La Nazionale italiana batte ai rigori quella inglese vincendo gli europei di calcio. Nella conferenza stampa del dopo partita la prima domanda che viene fatta al c.t. Roberto Mancini è questa:
"Ciao Roberto, grandissima emozione. Volevo chiederti: a chi la dedichi questa vittoria? Immagino al gruppo, ma una dedica personale tua...?"
E il Mancio risponde:
"La dedico a tutti gli italiani, all'estero e in Italia, ma per me è una cosa particolare e un pezzo di questa coppa la voglio dedicare a Paolo Mantovani, che era qua con me trent'anni fa quando purtroppo la perdemmo in finale col Barcellona. E anche ai sampdoriani, che quel giorno soffrirono, e credo che questa coppa, che racchiude tutti gli italiani, sì, credo che un pezzettino sia soprattutto loro".

Conoscendo lui e il suo attaccamento alla maglia blucerchiata ero sicura che non avesse mai dimenticano nè digerito quel 20 maggio 1992: perdemmo la Coppa dei Campioni contro il Barcellona al 112° dei tempi supplementari per un gol di Koeman, che segnò su punizione grazie a un fallo inesistente.

La vittoria all'europeo è stato un riscatto più per lui (che ha tutto il merito della vittoria) che per noi (perchè la nazionale non è la Samp) ed ero sicura che ci avrebbe dedicato un pensiero e forse anche qualche parola, magari in un'intervista al quotidiano locale o a un'emittente genovese...
Ma quando ha pronunciato quelle parole subito, alla primissima domanda ricevuta, l'ho sentito vicino a noi come tutte le tante volte in cui l'ho visto correre sotto a noi tifosi dopo un gol o farsi espellere per un torto subito (non necessariamente da lui, ma dalla Samp).


A quella finale ci arrivammo dopo aver vinto il nostro unico scudetto e "La bella stagione" racconta proprio l'annata 1990-91. Fu unica e irripetibile e non solo per noi: fu l'ultimo scudetto vinto da una "piccola" e non per caso. La serie A era ancora composta da 18 squadre e alla vittoria andavano due punti, non tre. I giocatori non avevano procuratori. Non c'erano ancora le Pay TV, le nove partite si giocavano contemporaneamente (fu proprio alla fine di quel campionato che alle tre squadre ancora impegnate nelle coppe europee venne concesso per la prima volta di giocare al sabato, per avere un giorno in più di preparazione). E si poteva avere in rosa fino a un massimo di tre stranieri.

Ma la cosa che rende maggiormente l'idea di quanto il calcio sia cambiato (per lo spettacolo probabilmente in meglio, ma io rimpiango la maggior semplicità di un tempo) è questo numero: 16. Tanti erano i giocatori che componevano la rosa della Sampdoria e con quei 16 (e con tre gravi infortuni che tennero per parecchio tempo fuori dal campo Vialli, Cerezo e Pellegrini) vincemmo lo scudetto, arrivammo in finale di coppa Italia e ai quarti di finale della Coppa delle Coppe!
E qui vorrei tanto sapere cosa risponderebbe Roberto Mancini allenatore a un suo giocatore che osasse lamentarsi per il carico di lavoro (ma me lo immagino, perchè i suoi otto livelli di incazzatura descritti nel libro me li ricordo benissimo e non ci credo che sia cambiato perchè quelli che nascono con un carattere come il nostro ci muoiono anche ^^).

L'idea del libro pare sia nata da Marco Lanna, difensore, genovese e sampdoriano di nascita. La storia comincia dal 5 maggio 1991, giorno del big match Inter - Sampdoria. Vincemmo noi per 2-1. Ero nel terzo anello e fu quando Pagliuca parò il rigore a
Matthäus che capii (come tutti gli altri sampdoriani, squadra compresa) che al di là della matematica ce l'avevamo fatta, avevamo vinto lo scudetto!

Il libro stilisticamente non è un granchè, non so chi sia il ghost writer, ma sicuramente scriveva sapendo che sarebbe stato letto da chi normalmente non è abituato a leggere: una scrittura semplice, con una frase ad effetto quasi a ogni paragrafo. Un libro neppure troppo ricco di aneddoti per chi, come me, facendo parte del tifo organizzato quei fatti li ha vissuti fianco a fianco della squadra. Un libro che vale più la pena avere che leggere, ma che è comunque una miniera di ricordi: dopo la partenza con la partita decisiva torna indietro e ripercorre tutto il campionato fin dall'estate precedente, dal raduno a Bogliasco al ritiro al Ciocco...


...le amichevoli precampionato e poi tutte le partite delle tre competizioni. E io mi sono rivista tutti gli highlight grazie a YouTube, che poi sarebbero i servizi delle due trasmissioni dell'epoca, "90° minuto" e "La domenica sportiva", a cui il ghost writer ha attinto a piene mani, prendendo però qualche cantonata (la pioggia torrenziale a Bari proprio non me la ricordo e a Cesena Branca non sbagliò un passaggio clamoroso a Mancini perchè il Mancio era influenzato e non era in campo, ma vide la partita sugli spalti con noi tifosi).

Un libro che è riduttivo, a partire dal titolo, perchè non ci fu solo quella bella stagione: tutta l'era Mantovani non fu solo bella, ma meravigliosa, e se lo scudetto fu la vittoria più grande, non fu però l'unica (anche se vincemmo molto meno di quello che avremmo potuto e meritato).



Ma la più grande vittoria di Paolo Mantovani e di quella Sampdoria è spiegata da questa foto:



Una delle tante che testimoniano cosa quell'uomo (e Vujadin Boskov) fosse riuscito a creare: non solo una squadra, ma un gruppo di amici che in trent'anni non si sono mai persi di vista, che ogni tot mesi si ritrovano per una cena o una partita con addosso i nostri colori, che hanno chiamato Sampdoria la loro chat su WhatsApp e che prima o poi torneranno, uno da presidente e l'altro da allenatore, con tutto il loro seguito, adesso stanno solo facendo le prove.

Non ci credete? In tanti non credevano nemmeno che avremmo vinto lo scudetto...

NB: i proventi del libro vanno all'ospedale pediatrico Gaslini di Genova, come quelli dei biglietti di auguri di Natale con la foto in stile anni '20 che fecero l'anno dello scudetto:



Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia cascata di luglio (lo collego a "Dal Titanic all'Andrea Doria" perchè la nave e la mia squadra hanno il nome del grande ammiraglio genovese)


 

giovedì 29 luglio 2021

"Una merce molto pregiata", Jean-Claude Grumberg


Europa centrale, inizio marzo 1943. La guerra imperversa, la fame annienta. Una coppia non più giovane, ma nemmeno vecchia, vive in un bosco. Lui viene impiegato dagli invasori per i lavori definiti "di pubblica utilità", lei passa le giornate raccogliendo fascine di rami e rametti nei dintorni della loro capanna. E ogni giorno corre per riuscire a veder transitare i treni. Non ne ha mai visti altri, non può fare paragoni. Il marito le ha detto che sono treni merci e lei vorrebbe sapere cosa trasportano, magari quel cibo di cui hanno tanto bisogno. Quello che vede spuntare dall'unica finestrella di ogni vagone sono delle mani, mani che ogni tanto le lanciano dei biglietti, ma lei non sa leggere, non capisce quali messaggi le vengono affidati. Finchè un giorno una mano lascia cadere sulla neve un fagotto e dentro lei trova quello che ha sempre sognato di avere, la merce più preziosa di tutte.

Nessuna parola scritta sull'Olocausto è sprecata e più aumentano gli anni che ci separano dalla seconda Guerra Mondiale più bisogna stare attenti a non dimenticare.

Fatta questa doverosa premessa, la mia opinione su questo librino si può riassumere in tre lettere: mah.

IBS mi informa che l'autore è un drammaturgo, sceneggiatore e scrittore francese. E nel suo scritto si riconosce uno stile diverso, non so se definirlo teatrale, ma comunque particolare e che si distacca dalla narrativa tradizionale.

L'impronta è quella di una fiaba:

"C'era una volta, in un grande bosco, una povera boscaiola e un povero boscaiolo..."

La storia inizia così e prosegue con il tono lento e delicato che hanno le favole per bambini, boscaiolo e boscaiola sono sempre preceduti dall'aggettivo povera/o, gli ebrei non vengono mai espressamente citati  ("la razza maledetta, quelli senza cuore che hanno ucciso Dio e che hanno voluto la guerra") e neppure i nazisti (i crucchi).

Esistono molti testi migliori di questo per spiegare la Shoah a un bambino e comunque non è a loro che Grumberg si rivolge.
Classe 1939, come mia madre che gli ultimi anni della guerra se li ricordava bene nonostante li avesse vissuti quando era una piccola bambina, e sono sicura che anche lui - figlio e nipote di deportati nei campi di sterminio - non abbia dimenticato.

Come Modiano per "Dora Bruder", anche Grumberg parte da una flebile traccia (un annuncio su un vecchio quotidiano per il primo, i nomi di una famiglia e le date di nascita e di deportazione trovate sul Memoriale della deportazione degli ebrei di Francia per il secondo) e vi costruisce attorno una storia.
E se in Modiano mi era pesato il distacco che avevo percepito, qui ho trovato troppa leggerezza.

L'Olocausto è una storia che bisogna continuare a raccontare, ma non può trasformarsi in una fiaba, neppure se scritta bene.


Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia compleanno di luglio (l'autore è nato il 26 luglio 1939)
 

mercoledì 28 luglio 2021

"Va', metti una sentinella", Harper Lee



Maycomb (Alabama), 1961. Jean Louise "Scout" Finch è diventata adulta: ha 26 anni ed è una donna emancipata. Vive a New York e la città le ha fatto quasi dimenticare il divario razziale che ancora imperversa nel profondo sud del Paese. Un'arretratezza culturale con cui si scontra le volte in cui torna nella cittadina natia. Ma questa volta la (brutta) sorpresa la troverà molto più vicina a lei, proprio fra le mura domestiche.

Dieci giorni dopo aver terminato "Il buio oltre la siepe" (e aver recuperato anche la visione film), oggi è la volta del secondo romanzo di Harper Lee. Secondo che in realtà fu il primo scritto dall'autrice, o che addirittura fu una prima stesura di quello che poi divenne il suo capolavoro. "Va', metti una sentinella" è rimasto chiuso in un cassetto per parecchi decenni per essere poi pubblicato negli Stati Uniti nell'agosto 2015 (da noi a novembre dello stesso anno), quindi appena sei mesi prima della morte della Lee, a novant'anni. Con il mio scarsissimo inglese mi sembra di aver capito che il suo consenso alla pubblicazione sia stato considerato da molti un caso passabile di circonvenzione di incapace e mentre leggevo la prima parte ne capivo il perchè. In diversi punti della prima metà il libro sembra quasi una bozza, o per lo meno un testo con un forte bisogno di un buon editing.

Poi cambia.

E qui l'opinione comune si spacca. In principio perchè sbalordita da quello che stavo leggendo e in seguito perchè dubbiosa delle mie capacità nel darne la giusta interpretazione, ho cercato pareri di conferma o di smentita in rete, dove però ho trovato considerazioni opposte: in estrema sintesi, alle persone che hanno vissuto come un affronto personale la trasformazione di Atticus Finch da paladino dei neri a membro del Ku Klux Klan si oppongono quelli che rispondono: "Se la pensate così, allora non avete letto il libro fino alla fine".

Io l'ho fatto e capisco il perchè di questa risposta, ma capisco anche la delusione degli altri. Lo splendido personaggio dell'avvocato de "Il buio oltre la siepe" ha lasciato il posto a un uomo anziano e malconcio, che però ha mantenuto la sua autorevolezza all'interno della società e le cui idee non vengono chiarite in maniera certa.

Se la Lee conforta con le parole dello zio alla nipote ("Jean Louise, stai facendo un grosso errore se credi che tuo padre sia una di quelle persone che vogliono che i negri stiano al loro posto"), subito dopo toglie ogni speranza facendo dire ad Atticus cose tipiche dell'ottusità dei razzisti ("Vuoi vagonate di neri nelle nostre scuole, nelle nostre chiese e nei nostri teatri? Vuoi che facciano parte del nostro mondo?") per poi correggere il tiro motivando il suo pensiero con la preoccupazione di uno Stato governato da persone non in grado di farlo, senza però prendere neppure in considerazione quel diritto indiscutibile alle pari opportunità (ma questo non può far storcere il naso visto che anche in epoca attuale siamo ancora molto lontani dal traguardo, e non solo per le persone di colore).

O almeno questo è quello che credo di aver capito. Non è semplice e solo l'autrice avrebbe potuto fare chiarezza sulle sue intenzioni, ma dubito che lo abbia mai fatto, non ce ne sarebbe stato bisogno senza la pubblicazione del libro, avvenuta quando ormai era troppo tardi per dire la sua, creando così due fazioni con interpretazioni opposte.

Ma io sono stata "salvata" dalla mia ignoranza: l'Atticus Finch del buio è entrato nella mia vita solo due settimane fa, a differenza degli altri lettori che hanno avuto fino a 55 anni di tempo (quello intercorso fra la pubblicazione dei due libri) per fare di lui un eroe, un esempio, un personaggio amato.
Personaggio che anch'io ho amato, ma il ricordo non ha avuto il tempo di attecchire al punto da idealizzarsi. E non avendo patito il crollo del mito ho potuto, forse, apprezzare di più quella che è la grande protagonista di questo sequel: Scout.

"E a proposito di Dio, perché non mi hai spiegato bene che Dio creò le razze e mise i neri in Africa per tenerveli in modo che i missionari potessero andargli a dire che Gesù li amava, ma voleva che stessero là? Che averli portati qui è stato solo un errore da parte nostra, ed è pure colpa loro? Che Gesù amava tutta l’umanità, ma che esistono tipi diversi di uomini con recinti separati intorno a loro, perché Gesù voleva che ogni uomo si spingesse fin dove voleva, ma sempre all’interno di quello steccato..."

Mi piace pensare (ed è l'impressione che ho avuto) che Harper Lee abbia fatto dire ad Atticus cose atroci per poter far rispondere Scout con le sue verità:

"Eravamo prontissimi a farli venire qui quando ci facevano guadagnare (...) Tu neghi che siano esseri umani (...) Togli loro ogni speranza. Ogni uomo al mondo, Atticus, ogni uomo con una testa, due braccia e due gambe nasce con la speranza nel cuore. Non lo troverai scritto nella Costituzione"

"Il buio oltre la siepe" è un libro magnifico, un libro curato e perfetto, cosa che non si può dire di questo, che però nella sua seconda metà è ancora più coraggioso e netto.

E che chiama il football americano con il suo nome ^^

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia normale di luglio (un libro ambientato in una nazione con sbocco sul mare)

 

martedì 27 luglio 2021

"Viaggio a Norimberga", Hermann Hesse

E' nella primavera del 1925 che Hermann Hesse accetta l'invito a una pubblica lettura da fare in autunno a Ulm. Letture che non ama fare, almeno quanto la prospettiva di mettersi in viaggio rappresenta per lui una grande fonte di angoscia. Ma Ulm non dista molto da Blaubeuren, cittadina in cui vive un amico che ha promesso di andare a trovare, una coincidenza che sarebbe un peccato non sfruttare. In primavera, quando il viaggio era ancora lontano, gli era sembrata proprio una buona idea, ma man mano che la data della partenza si avvicina crescono tentennamenti e malumori.
Basterebbe un telegramma per dare forfait, invece alla fine parte per quella che trasforma in un'avventura durata quasi due mesi...

Esattamente dieci anni dopo aver letto "L'incisore di Bruges", un titolo che contiene una città che ho visitato, e tanto (in entrambi i casi) amato, è tornato a "fregarmi": nel librino (perchè breve, non perchè di scarsa qualità) di Pascal Quignard l'incisore lasciava Bruges fin dalle prime pagine, mentre in quest'altro librino (idem, 110 pagine appena) Hermann Hesse arriva a Norimberga solo quando il mio Kindle indicava già l'88%, vi soggiorna per un tempo brevissimo e ne resta perfino deluso. Certo specifica che "l'orribile impressione" che gli fece la città derivò soprattutto da lui e dal suo sentirsi a disagio con tutte quelle macchine e con l'inquinamento che producevano, ma a quel punto (pur condividendo totalmente il suo amore per l'antico e condannando come lui la bruttezza del moderno in architettura, e non solo) il mio rammarico nel non aver letto una storia ambientata nella città tedesca che - fra le tante visitate - aveva messo d'accordo me e mio marito trovando il giusto compromesso all'ipotetica domanda del "dove andremmo a vivere se ci trasferissimo in Germania?", bè, la mia amarezza si sarebbe un po' stemperata se almeno nelle ultime pagine avessi trovato qualche commento positivo che senza dubbio Norimberga avrebbe meritato (però cita anche Genova e quando la trovo, tanto più se inaspettatamente, è sempre una gioia per il mio cuore).





Meritato soprattutto all'epoca del viaggio di Hesse (che ha preceduto di 9 anni i bombardamenti del 30 marzo 1944 che rasero letteralmente al suolo la città), quindi nel pieno della sua autentica bellezza. Credo che in Germania solo Dresda abbia patito una sorte peggiore.



Una delle prime cose che visitai a Norimberga il 20 agosto del 2008 fu una mostra fotografica del bombardamento, il prima e il dopo: lo strazio davanti ai miei occhi era così immenso da portarmi per la prima volta nella vita a sentire un groppo alla gola per i tedeschi, nonostante tutto il male che hanno fatto alla mia famiglia partigiana.

Quell'anno la base della nostra vacanza fu Bamberga, ma un giorno solo per Norimberga sarebbe stato troppo poco, così ci tornammo il 23.

Ma di nuovo non riuscimmo a completare la visita, in particolare trovammo la casa del boia già chiusa per esserci persi a guardare questa adorabile nutria giocare lì di fianco:


E così, il 26 agosto di quattro anni dopo, da Ratisbona abbiamo raggiunto per la terza volta Norimberga, riuscendo a completare il puzzle con tutte le tessere mancanti... eccetto la casa del boia che quel giorno era chiusa!! Quella è stata l'ultima nostra vacanza tedesca, ma sono tantissimi i posti che ancora vorremmo non solo vedere, ma vivere a modo nostro, e trovandoci in zona sarà d'obbligo tornare a Norimberga, anche perchè sono passati così tanti anni che rivisiterei tutto da capo, a cominciare dalla casa di Albrecht Durer, l'unico pittore capace di suscitarmi ammirazione davanti a un dipinto.

Se con Hesse non avremmo condiviso l'opinione su questa città,  saremmo stati di sicuro accomunati dal piacere per lo slow travel, ma qui non posso competere, aveva il tempo libero che io avrò solo da pensionata e soprattutto aveva una situazione economica che io non avrò mai. Grazie a questi due fattori il suo viaggio a Norimberga si trasformò in un bel tour che lo vide soggiornare presso amici e conoscenti, da Locarno a Baden, da Zurigo a Blaubeuren, da Ulm ad Augusta, da Monaco a (finalmente) Norimberga per scappare subito tornando a Monaco e quindi nel "suo" Canton Ticino.

Non posso dire di aver trovato il libro "esilarante" come viene descritto nella sinossi: due belle risate me le ha strappate, sì, ma certi suoi capricci da bambino viziato qua e là mi hanno seccato non poco, fastidio stemperato dalla sua consapevolezza di essere un privilegiato, grazie al fatto di "aver commesso, in un'incomprensibile follia giovanile, l'errore di fare di un talento una professione!".

Sembra davvero avere dubbi sulla qualità dei suoi scritti che non esenta dal globale impietoso giudizio che esprime verso la letteratura tedesca della sua epoca. Io non avevo mai letto nulla di suo, ma anche solo con questo volumetto (e soprattutto cercando su Google i suoi acquarelli) non mi sono stupita del fatto che venga osannato come scrittore e non come pittore: anche la mia amica Chiara mi ha detto "c'è di peggio", commento che non può definirsi un complimento e lei di arte pittorica dice di capirne (cosa di cui tendo a dubitare viste le cose che mi propina come pregiate ^^).

Ma Hesse scrittore vale e provo imbarazzo nello specificarlo da tanto è ovvio. Ho adorato i suoi periodi lunghissimi e non mi ha pesato l'assenza di capitoli (il testo è anche quasi del tutto privo di andate a capo), dimostrazione (per quel poco che può valere il mio personale parametro) di grande fluidità e capacità narrativa.

Del resto i Nobel per la Letteratura non subiscono giochetti editoriali come certi premi nostrani...



Reading Challenge 2021:
questo testo risponde alla traccia compleanno di luglio (l'autore era nato il 2 luglio 1877)
 

 

sabato 24 luglio 2021

"Scomparsa", Chevy Stevens



Clayton Falls, isola di Vancouver (Canada), 4 agosto di un anno recente. Gli open house che si svolgono alla domenica attirano soprattutto persone in cerca di un passatempo, non seriamente interessate all'acquisto. Annie O'Sullivan, 32 anni, agente immobiliare, lo sa bene, per questo non si sorprende per non aver concluso nulla. Ma quando sta chiudendo la casa per andare dal fidanzato Luke che la aspetta per cena arriva un ritardatario, un uomo piacevole, che ha chiaramente soldi da spendere. Annie pensa che un ulteriore tour della casa non le porterà via molto tempo, senza sapere che invece le verrà rubato un intero anno della sua vita, una vita che comunque non sarà mai più quella di prima.

Avevo molte aspettative su questo romanzo - opera prima Chevy Stevens, pseudonimo della canadese Rene Unischewski - derivanti dal sapere che era stato eletto fra i dieci migliori thriller del 2010 dall'Associazione librai americani e dalla Kirkus Reviews. Considerata la quantità di thriller che gli anglofoni sfornano ogni anno, ho dato per scontato che dovesse essere proprio eccezionale, cosa che invece non è.

L'asticella alta è solo parzialmente responsabile della delusione provata. Analizzando i vari aspetti riesco a trovare più difetti che pregi.

E' sicuramente un libro particolare, dove è la protagonista a raccontare la sua storia in prima persona, non a chi legge, ma a Nadine, l'anziana psicoterapeuta che comincia a seguirla alcuni mesi dopo la ritrovata libertà: ogni capitolo corrisponde a una seduta ed è un monologo di Annie alla terapeuta. Uno stratagemma narrativo che per me ha rappresentato una novità e di cui quindi ho apprezzato l'originalità.
 
Fin dal principio, e già dalla sinossi prima ancora di iniziare il libro, si sa che il rapimento di Annie avrà una fine e che ne uscirà viva. Una scelta ardita che sottrae all'autore moltissimi appigli per generare suspense e altrettanti possibili sviluppi della vicenda. Stabilendo subito l'inizio e quale sarà la fine bisogna essere molto bravi per riuscire a generare adrenalina e interesse in chi legge, cosa che alla Stevens è riuscita solo in parte, è carente l'introspezione psicologica della vittima e manca del tutto quella del sequestratore, fino ad arrivare a una risoluzione del rapimento troppo rapida per soddisfare chi è appassionato del genere.

Ed è qui, quando la narrazione si sposta sulle indagini di polizia e i conseguenti esiti, che il libro declina in maniera imbarazzante: non definisco la storia inverosimile perchè nella realtà non c'è mai limite al peggio, ma il passato (sia quello più recente che quello meno) viene ricostruito e spiegato davvero male, ci sarebbe stato bisogno di un po' più di logica, che non si può ottenere inventandosi semplicemente un personaggio svampito.

Ma a non piacermi è stata soprattutto la caratterizzazione della protagonista: la Stevens, volendo rappresentare il muro che questa donna innalza attorno a sè dopo la liberazione (quindi quando la conosciamo noi), la fa risultare così respingente da ostacolare quell'empatia che è giusto e normale provare per una persona sottoposta a un calvario del genere, ma qui si torna alla mancanza di introspezione dei personaggi ed Annie, soprattutto, non riesce a emozionare come dovrebbe, rendendo il libro meno profondo di quello che sembrerebbe leggendone la sinossi.

Degli altri sei romanzi (più un racconto) scritti in seguito dall'autrice, al momento soltanto due sono stati tradotti in italiano e vorrei leggere qualcos'altro di suo per cercare un'evoluzione, anche perchè mi rendo conto che se "Scomparsa" è entrato in quella prestigiosa graduatoria probabilmente sono stata io a non riuscire a cogliere qualcosa.


Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla terza traccia annuale, "sei libri, l'iniziale dei titoli deve formare la parola Austen"
 

giovedì 22 luglio 2021

"12 anni schiavo", Solomon Northup


Saratoga Springs (Stato di New York), primavera 1841. Solomon Northup era un uomo di colore nato nel luglio 1808 a Minerva, nella contea di Essex. Nel 1829 aveva sposato una mulatta, Anne Hampton. Avevano avuto tre figli: Elizabeth, Margaret e Alonzo. Nel marzo 1834 si erano trasferiti a Saratoga. Lui lavorava come agricoltore e come musicista di violino, lei come cuoca. Il sogno era quello di risparmiare abbastanza per comprare una fattoria e fu per questo che nella primavera 1841 Solomon decise di seguire due galantuomini, Merrill Brown e Abram Hamilton, che lo convinsero ad andare con loro a New York dove avrebbe guadagnato bene arricchendo con la musica del violino i loro spettacoli circensi. Ma giunti in città gli fecero una nuova proposta: andare a Washington.
Solomon accettò, senza valutare il rischio corso da un nero nell'entrare in uno Stato schiavista...

Se tanto mi ha toccato la vicenda di Tom Robinson ne "Il buio oltre la siepe", ben maggiore è stato il mio sgomento nel leggere l'odissea di Solomon Northup. Robinson è un personaggio di fantasia, sì, ma fino a un certo punto: Harper Lee lo ha usato per raccontare l'esistenza di migliaia di persone come lui. Ma Northup è vissuto realmente e ha realmente vissuto ciò che ha raccontato in questo libro scritto nel 1853, dopo la sua liberazione.

Nato come uomo libero, dopo essere stato rapito e drogato da quella sorta di gatto e la volpe di Brown e Hamilton, era stato da loro venduto come schiavo e deportato in Luisiana dove, cambiando diversi padroni, per dodici anni ha vissuto ed è stato trattato come un oggetto o anche peggio.

"Per quanto strano possa sembrare, da questa stessa casa era pienamente visibile il Campidoglio, che la sovrastava con la sua imponente altezza. Le voci dei deputati della patria che blateravano di libertà e di uguaglianza quasi si mescolavano al clangore delle catene degli schiavi. Un recinto per gli schiavi proprio all'ombra del Campidoglio!"

Schiavisti stretti osservanti dei dettami religiosi. E che dalle loro sacre scritture potevano facilmente attingere per convincersi e dimostrare di avere ragione:

"Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse"
(Vangelo secondo Luca, verso 47)

Ogni sua descrizione è raggelante: condizioni di vita, maltrattamenti, sfruttamenti, percosse, umiliazioni, tutto quello che migliaia e migliaia di persone hanno dovuto patire in un'epoca che non è troppo lontana dalla nostra. Per lui situazioni rese ancora più insopportabili dalla consapevolezza di essere nato libero.

E qui bisogna fare uno sforzo enorme per riuscire contestualizzare la sua storia. Perchè se è bello immaginare il sollievo di quest'uomo quando finalmente gli è stata restituita la sua libertà, è inevitabile chiedersi: e gli altri? Nessuno si sarebbe mosso per dimostrare che Eliza, Patsey, lo zio Abram, Wiley, Bob, Henry, la zia Phebe, ecc, avevano altrettanto diritto a quella libertà perchè per legge non era così e questo pensiero è straziante.

"La felicità, per lei, era l'assenza di frustate"

Quanto siamo ignoranti noi uomini, quanto male sappiamo fare. Uso il presente, non il passato, perchè non tutto il mondo si è liberato dalla schiavitù e anche là dove è cambiata la forma, troppe volte resta la sostanza. E sarà sempre così perchè fra noi non smetterà mai di esserci chi si sentirà superiore ad altri, per un colore diverso, per un accento diverso, per uno stato sociale diverso o anche solo per avere l'uso della parola.

"La vita è cara a ogni essere vivente. Persino il verme che striscia sulla terra si batterà per conservarla"

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla seconda traccia annuale, "tre libri di cui esiste il film o la serie TV"
 

domenica 18 luglio 2021

"Il buio oltre la siepe", Harper Lee


Minneapolis (Minnesota), 25 maggio 2020. George Floyd ha tristemente ricordato al mondo che negli Stati Uniti avere la pelle nera può essere ancora molto pericoloso e può costarti la vita. Figuriamoci, quindi, quante possibilità potesse avere un Tom Robinson qualunque accusato di stupro da una donna bianca nel profondo sud del Paese nel 1935: ovviamente nessuna.

Maycomb è una cittadina di fantasia, l'Alabama no e Harper Lee va ammirata per aver avuto il coraggio di raccontarla così bene nel 1960: ricordiamoci che le leggi sui diritti civili vennero approvate soltanto nel 1964/65 e che solo allora venne abolita la segregazione razziale.

Ma se anche esistono leggi a tutela, le discriminazioni non finirono e non finiranno mai, e gli Stati Uniti hanno ancora moltissima strada da fare prima di poter davvero insegnare ad altri la democrazia.

Mi fa sorridere l'ingenuità manifestata nella sinossi italiana:

"Non si esagera dicendo che non c'è americano che non l'abbia letto da bambino o da adolescente e che non l'abbia consigliato a figli e nipoti"

Sorridere fino a un certo punto, è offensivo verso tutti far finta di non sapere che i razzisti hanno solo cambiato l'oggetto dietro a cui nascondersi passando dal cappuccio alla tastiera,  perchè tutto si evolve, ma la vigliaccheria resta.

Ovviamente gli americani non hanno l'esclusiva su razzismo e ipocrisia, ma non tutti hanno la loro presunzione di essere quelli da prendere come esempio positivo. A saggiare le due facce dell'America fu anche questo libro, premiato con il Pulitzer nel 1961 e contemporaneamente messo al bando in molte scuole e biblioteche.

La mia vergogna nei suoi confronti è quella di essere arrivata a 51 anni prima di leggerlo: invecchiando mi sto rendendo conto che la mia preferenza per l'attualità mi fa perdere molte perle del passato. Non diventerò mai un'amante dei classici alla Jane Austen nè mi appassionerò alla letteratura russa, però sono contenta di aver imparato a uscire dalla mia comfort zone pescando anche indietro: se la tematica è rilevante, ne vale la pena.

E l'invecchiamento sta anche smussando la mia antipatia verso gli stili di scrittura non contemporanei (ma temo che questo dipenda anche dal cominciare a sentirmi meno a mio agio con lo stile contemporaneo di oggi): quello di Harper Lee mi è piaciuto davvero tanto e soprattutto ho trovato bello e originale fare di una bambina di otto anni la voce narrante. Anche furbo: grazie all'innocenza di Jean Louise "Scout" Finch l'autrice ha affondato più volte la lama nel fianco dell'America perbenista e bigotta (e razzista):

"Ma se gli uomini sono di un tipo solo, come ti spieghi che non vanno mai d'accordo tra loro? Se sono tutti eguali, perchè passano la vita a disprezzarsi a vicenda?"

Da animalista ho anche molto apprezzato l'intervento di Jem quando blocca la sorella mentre sta per schiacciare un centopiedi dando alla domanda di lei ("Perchè non dovevo schiacciarlo?") una risposta capace di fermare molte dita assassine, se solo ci si fermasse a riflettere che anche l'animale più piccolo non è un oggetto ("Perchè sono bestioline che non fanno male a nessuno"), mentre da moglie di un ex giocatore di football americano sono obbligata (da lui) a dire che il football si è sempre chiamato football, anche nel 1935, e che "palla ovale" non si può sentire... e per fortuna a lui non ho detto che il Rose Bowl è stato tradotto con Coppa della Rosa ^^

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla seconda traccia annuale, "tre libri di cui esiste il film o la serie TV"
 

 

venerdì 16 luglio 2021

"Dal Titanic all'Andrea Doria. Storia di naufragi del XX secolo", Giancarlo Costa

In questo testo - uno dei più interessanti e appassionanti che abbia mai letto - il giornalista e pubblicista Giancarlo Costa analizza i maggiori disastri che nel secolo scorso hanno coinvolto navi e sommergibili.

Forse il titolo corretto avrebbe dovuto essere "Dal Titanic al Kursk" perchè l'autore segue l'ordine cronologico, ma per fortuna ci ha messo di mezzo l'Andrea Doria altrimenti me lo sarei perso: infatti il mese scorso mi sono imbattuta in questo libro cercando una biografia dell'ammiraglio, che devo ancora scegliere e comprare, ma questo ho voluto leggermelo subito.

La competenza di Costa in materia è più che evidente, ma non cade mai in quella boria che mi è capitato di trovare nella saggistica. Scrive bene e spiega bene: cosa non scontata, ma essenziale quando si affrontano argomenti che possono essere letti anche da chi è spinto solo da un interesse, senza avere nozioni specifiche. Come nel mio caso che di navi e sommergibili non so nulla, ma Costa - pur non semplificando nè lesinando sui termini di settore - è riuscito a rendermi la lettura agevole e più che comprensibile.

"Il mare cela una vecchia canaglia, scaltra e pericolosa"

Scritto nel 2000, il saggio dedica il primo capitolo al Titanic, naufragato al quarto giorno del viaggio inaugurale, il 15 aprile 1912, al largo di Terranova in seguito alla collisione con un iceberg. Costa approfondisce la storia di questa nave ben più (e ben più seriamente) di quanto abbiano fatto il film di Cameron del 1997 e i tanti romanzi che hanno usato il Titanic come ambientazione. Come per tutti gli altri disastri, ne racconta la storia e ne fornisce le caratteristiche, analizza le cause del disastro e quindi informa sulle successive inchieste.
Con i suoi 1.852 morti il naufragio del Titanic non è soltanto quello più famoso, ma anche quello che più rappresenta il divario fra i ceti sociali e le conseguenti ingiustizie.

Due anni dopo, il 29 maggio 1914, una nave norvegese a causa della nebbia speronò la Empress of Ireland nel golfo del fiume St Lawrence, in Canada, facendola affondare in appena 14 minuti con a bordo 1.477 fra passeggeri ed equipaggio. Ne morirono ben 1.012, ma la prima guerra mondiale, scoppiata dopo due mesi, si prese tutta la scena e questo impressionante naufragio non ha "goduto" della fama del Titanic.

1.198 morti nell'affondamento (18 minuti) del Lusitania, silurato dal sommergibile tedesco U-20 il 7 maggio 1915 al largo della punta meridionale dell'Irlanda.

Il Britannic era il transatlantico gemello dell'Olympic e del Titanic, trasformato in nave ospedale durante la guerra. Il 21 novembre 1916 mentre era in navigazione sul mar Egeo con 1.035 persone a bordo incappò in una mina navale tedesca. Affondò in 55 minuti, ma le lance furono sufficienti per tutti e morirono solo le trenta persone che senza aspettare l'ordine del comandante ne occuparono due lasciando la nave mentre era ancora in movimento, finendo per essere risucchiati dalle eliche parzialmente emerse a causa dell'inclinazione.

La Principessa Mafalda venne costruita nel cantiere di Riva Trigoso, era la nave più grande e più veloce a collegare la mia Genova a Buenos Aires. Usata come alloggio ufficiali durante la guerra, riprese le sue rotte al termine del conflitto, patendo gli anni di ferma in porto e la mancanza di manutenzione. Il deterioramento fu la causa dell'affondamento che avvenne in poco meno di sei ore a 85 miglia dalla costa del Brasile il 25 ottobre 1927. A bordo 1.250 persone fra passeggeri ed equipaggio. Ne morirono 314.

Morro Castle è il nome del forte che domina l'entrata del porto de L'Avana, nome che venne dato a una bella nave che offriva una crociera a quegli americani così ricchi da non aver patito la crisi del '29. Il susseguirsi degli eventi che si verificarono a bordo dal momento in cui la nave - il 5 settembre 1934 - salpò precipitosamente da Cuba per evitare l'uragano in arrivo potrebbero definirsi tragicomici se non fossero una storia vera che causò la morte di 159 persone.

Il capitolo successivo è dedicato ai sommergibili, i cui naufragi sono ancora più impressionanti di quelli delle navi.

Il 9 giugno 1931 il Poseidon stava compiendo delle esercitazioni al largo delle coste cinesi con 53 uomini a bordo quando avvenne una collisione con un mezzo di superficie. Si inabissò raggiungendo una profondità di 42 metri e imbarcando acqua. Vi furono solo 5 sopravvissuti.

Il 1° giugno 1939 a bordo del Thetis c'era un vero e proprio ricevimento inaugurale con, oltre all'equipaggio, più di cinquanta persone fra tecnici, osservatori militari, operai specializzati civili e due camerieri! Appena il sottomarino lasciò gli ormeggi fu subito chiaro che qualcosa non funzionava come avrebbe dovuto ostacolando i comandi di immersione. Durante le verifiche iniziò a imbarcare acqua affondando sul fondale di 53 metri con una forte inclinazione di prua. Morirono 99 persone, anche a causa dell'incapacità di usare la campana di soccorso.

Campana che solo pochi giorni prima, il 23 maggio, aveva permesso di recuperare i 33 superstiti del sommergibile Squalus inabissato a causa di un'avaria durante un'esercitazione di immersione rapida. Per i 26 uomini rimasti a poppa non vi fu nulla da fare.

Il 17 giugno 1940 venne dato ordine al Lancastria di imbarcare il maggior numero possibile di inglesi per riportarli in patria e metterli al sicuro dalla guerra. Su una nave che avrebbe potuto trasportare al massimo 3.000 persone ne salirono infinitamente di più, tanto che si parla di un numero di vittime compreso fra le 4.500 e le 7.000 con un numero di superstiti di circa 2.500!
La nave venne bombardata dagli aerei tedeschi e andò a fondo di prua in un fondale di 26 metri spargendo attorno a sè 1.400 tonnellate di nafta che impedirono di salvarsi a chi cercò di abbandonarla a nuoto. Fu il peggior disastro marittimo della storia inglese. Gli atti della commissione d'inchiesta sono secretati fino al 2040.

La storia dell'Indianapolis, l'incrociatore affondato
nella notte fra il 28 e il 29 luglio 1945 dopo aver trasportato in gran segreto la bomba atomica, è diventata famosa per tutti dopo essere stata ricordata da Spielberg nel film "Lo squalo".
La nave venne colpita da due siluri lanciati dal
sommergibile giapponese I-58. Priva di prua, affondò in 12 minuti trascinando con sè circa 300 uomini dell'equipaggio, mentre gli altri 900 finirono in mare. I soccorsi arrivarono soltanto quattro giorni dopo e solo grazie a un avvistamento casuale: la loro missione era talmente segreta che nessuno diede l'allarme neanche quando non arrivò a Guam il giorno previsto.
I superstiti furono soltanto 317: Costa precisa che probabilmente venne esagerata la questione degli attacchi degli squali e che la maggior parte dei marinai morì per altre cause (stanchezza, mancanza di sonno, ferite, ecc), ma resta il fatto che 56 corpi recuperati erano stati mutilati dai morsi degli squali.
Quello che il film non racconta, e che non sapevo, è che il comandante dell'Indianapolis, Charles Butler McVay divenne il capro espiatorio usato dai vertici della marina per coprire le loro colpe. Venne addirittura portato davanti alla corte marziale e giudicato colpevole contro ogni evidenza del contrario. Morì suicida nel 1968 e il suo nome venne riabilitato soltanto nel 2000 con un decreto firmato da Clinton.

Sei mesi prima dell'Indianapolis, nella notte fra il 30 e il 31 gennaio 1945, a naufragare nel mar Baltico fu il transatlantico Wilhem Gustloff. Impegnata nella manovra di evacuazione della Germania invasa dagli alleati, salpò dal porto polacco di Gotenhafen (l'attuale Gdynia) con oltre 10.000 passeggeri a bordo: la Germania non aveva mai fatto distinzione fra civili e militari nemici e ora toccava a loro essere ripagati alla stessa maniera. Il Gustloff venne colpito da tre siluri lanciati dal sommergibile russo S-13 affondando in 50 minuti. Sopravvissero appena 996 persone.
Dieci giorni dopo toccò alla Steuben e ad aprile alla Goya: le vittime dei tre affondamenti, quasi tutti fra i civili, furono quasi 20.000.
Costa cita l'affermazione dello storico navale tedesco Heinz Schon, sopravvissuto del Gustloff:

"Noi eravamo gli invasori. Noi abbiamo attaccato la Polonia. Noi abbiamo scatenato la guerra"

Più onesto di quelli che ora vorrebbero far passare i nostri partigiani per terroristi!

Il caso dello Champollion fu davvero particolare. La nave salpò da Marsiglia il 15 dicembre 1952 diretta a Beirut con a bordo 111 passeggeri e 120 membri dell'equipaggio. Una settimana dopo, in dirittura d'arrivo, il disastro: in plancia si accorsero di aver scambiato, a causa della nebbia, le luci dell'aeroporto con quelle del faro che segnalava l'ingresso del porto solo dopo aver urtato gli scogli. La nave si incagliò a 200 metri dalla riva in posizione parallela rispetto alla spiaggia, rischiando il capovolgimento. Vento e onde ostacolarono le operazioni di salvataggio. La nave si spezzò in due. Il giorno dopo 72 persone si gettarono in mare per raggiungere la riva a nuoto, ma solo in 57 ce la fecero. Gli altri naufraghi vennero salvati da due fratelli abilissimi piloti del porto di Beirut che dovettero fare avanti e indietro con la pilotina per sette volte prima di riuscire ad evacuare la nave.

E arriviamo all'Andrea Doria. Costruita nei cantieri della Ansaldo di Sestri Ponente, cioè a pochi chilometri da casa mia, era la nave più moderna e sicura della sua epoca.
Poteva trasportare 1.290 passeggeri e 575 membri dell'equipaggio. Le 16 lance potevano contenere oltre 2.000 persone, quindi un numero superiore alla capienza della nave. Era dotata di radar, bussola giroscopica, aria condizionata. Definita come una "galleria d'arte galleggiante", era anche stata progettata in modo tale da non poter inclinarsi per più di 15°.
Il viaggio inaugurale, Genova-New York, avvenne il 14 gennaio 1953. Il 17 luglio di tre anni dopo l'Andrea Doria lasciò per l'ultima volta la mia città. Alle 23.15 del giorno 20, in prossimità del faro di Nantucket, la motonave Stockolm entrò con la sua punta rinforzata (perchè progettata per navigare fra i ghiacci nordici) sul fianco di dritta della nave genovese causando una falla gigantesca. Alle 2.45 tutti i superstiti erano stati evacuati grazie alle numerose imbarcazioni che risposero all'SOS. Alle 10.09 l'Andrea Doria si inabissò.
Morirono 49 persone, più 3 passeggeri della Stockolm. Le due compagnie raggiunsero un accordo stragiudiziale impedendo di arrivare a una conclusione certa dei fatti, fatti che Costa elenca e spiega perfettamente mettendo in luce le mancanze non solo delle persone coinvolte direttamente, ma anche quelle dell'intero sistema che antepone, ad esempio, il risparmio di denaro ottenuto grazie al rispetto degli orari anche quando la situazione in mare è tale da mettere a rischio la sicurezza.

Il Thresher era un sommergibile nucleare d'attacco, il primo ad essere dotato di un sistema di computer digitale. Il 10 aprile del 1963, dopo un giorno di prove di immersione e di emersione al largo di Boston, scomparve con il suo equipaggio di 129 persone dopo aver segnalato di avere qualche problema.

Quello della petroliera Torrey Canyon, che il 18 marzo 1967 andò a sbattere negli scogli al largo della Cornovaglia spezzandosi in due e riversando in mare tonnellate di greggio, fu il primo dei disastri ecologici più gravi avvenuti, oltre 1.300 dal 1955 al 2010.

Invece quello del Dona Paz fu il più grave incidente marittimo avvenuto in tempo di pace. Il 20 dicembre 1987 un numero di persone
spropositato (4.341 secondo la stima più accurata, per difetto) si imbarcò su un traghetto omologato per 1.500 passeggeri. Venne investito da una petroliera che viaggiava a luci spente e che prese fuoco trasmettendo l'incendio al traghetto. Si salvarono soltanto 23 uomini e 2 donne. I cadaveri recuperati erano stato quasi tutti mutilati dagli squali.

Altra petroliera, altro disastro ambientale: quello che ebbe per protagonista la Exxon Valdez la quale, pur riversando in mare una quantità di greggio inferiore rispetto ad altri casi, causò il maggior danno ecologico per gli effetti su animali, ambiente e natura. Avvenne in Alaska nella notte fra il 23 e il 24 marzo 1989. La nave era da poco salpata da Alyeska diretta in California con a bordo appena venti uomini dell'equipaggio e oltre duecento milioni di litri di greggio.
Le cause dell'incidente, ben spiegate da Costa e tutte imputabili a quelle che l'autore definisce magnanimamente "una serie di superficialità a bordo", sono raccapriccianti e portarono la nave a urtare le rocce, incagliandosi e riversando in mare milioni di greggio.

"Solo due anni prima il consorzio delle compagnie petrolifere americane aveva stabilito che nello stretto non c'era alcun pericolo per l'ambiente"

Dice bene Costa quando afferma che "gli animali furono quelli che, come al solito, pagarono nel modo più duro l'insensibilità degli uomini". Le stime più ottimistiche del disastro conteggiano la morte di 250.000 uccelli marini, 2.800 lontre, 300 foche, 250 aquile, 22 orche, miliardi di uova di salmone e di aringhe. Undici anni fa, quando è stato scritto il libro, nessuna specie era ancora tornata alla quantità precedente al disastro.

L'Achille Lauro è nota soprattutto per il sequestro del 1985 da parte dei palestinesi, ma non sapevo dell'imbarazzante collezione di incidenti che ne scandirono l'esistenza:
- 1964: esplosione a bordo con conseguente incendio durante i lavori di ristrutturazione
- 1971: speronò un peschereccio napoletano, una vittima
- 1972: incendio
- 1975: speronò una piccola nave libanese, una vittima
- 1981: incendio, tre vittime, passeggeri che presi dal panico si gettarono in mare annegando
- 1982: sequestro a Tenerife per il mancato pagamento dei diritti portuali
- 1985: il sequestro, una vittima
- 1986: incagliamento nel porto di Alessandria
- 30 novembre 1994: l'ultimo incendio che ne causò l'affondamento al largo della Somalia.

La Estonia era una nave traghetto di quelle con i portelloni che si aprono vicino alla linea di galleggiamento per permettere un veloce imbarco e sbarco dei veicoli.
Varata nel 1980, fu protagonista di tre incagliamenti e di due speronamenti. Affondò in appena 34 minuti la notte del 27 settembre 1994 con circa 900 persone a bordo fra passeggeri ed equipaggio. I superstiti furono appena 132 e le cause del naufragio non vennero mai chiarite: tutte le tre nazioni coinvolte (Svezia, Finalandia ed Estonia) avevano interesse a insabbiare e manipolare le inchieste successive e lo hanno fatto.

L'ultimo capitolo è quello dedicato al Kursk, il sottomarino nucleare russo inabissatosi la mattina del 12 agosto 2000 durante un'esercitazione nel mare di Barents. Una vicenda che ricordo bene, non solo perchè è la più recente, ma anche per l'impressione che fece e per l'angoscia che suscitò. Divenne la tomba di tutti i 107 membri dell'equipaggio e solo grazie ai messaggi ritrovati nelle tasche di alcuni di essi si seppe che la maggior parte morì nell'esplosione causata da uno dei siluri e che 23 di loro riuscirono a rifugiarsi momentaneamente nel compartimento 9 dove morirono probabilmente per intossicazione da monossido di carbonio.

Molto, molto interessanti e del tutto condivisibili le considerazioni di Costa sull'assurdità di Russia, Stati Uniti, Inghilterra, Francia, ecc, nel continuare a spendere somme enormi per la costruzione e il mantenimento di sottomarini nucleari.

"Ammiragli e generali sono convinti che questi war games unitamente alle loro insulse manovre siano una necessità, ma i parenti dell'equipaggio del Kursk e di tutti gli altri sottomarini che non sono più riemersi, no"

Il libro presenta una quarantina di fotografie in bianco e nero, ma è quel tipo di lettura per la quale è bello perdersi facendo ricerche in rete (ad esempio ho avuto modo di scoprire dei fari stupendi). E' davvero un peccato che sia ormai fuori catalogo, io ho avuto la fortuna di trovarlo sul sito del Libraccio a poco più di 10€, ma è una lettura che può essere davvero appagante per chiunque sia interessato all'argomento. Se lo siete, dategli la caccia (cacciare libri è entusiasmante e non uccide nessuno!).

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla traccia  cascata di luglio (un libro con il mare in copertina)
 

 

mercoledì 14 luglio 2021

"Umami", Laia Jufresa



Città del Messico, 19 settembre 1985. Poco dopo le 7 del mattino un devastante terremoto colpì il Messico causando oltre diecimila morti. Nonostante l'epicentro fosse a 350 km di distanza, sulla costa, le scosse arrivarono anche alla capitale.
Fra gli edifici crollati ci fu la casa natia dell'antropologo Alfonso Semitiel. La campana che decorava la facciata dell'edificio cadde al suolo conficcandosi nel terreno in modo tale da ricordare la spada nella roccia...
E fu attorno a quella campana che Alfonso e la moglie Noelia, cardiologa, costruirono il comprensorio Villa Campanario, ispirandosi alla lingua umana e alle sue papille gustative, con casa Dolce, casa Amaro, casa Acido, casa Salato e anche casa Umami, il quinto sapore percepito dalla lingua umana su cui Alfonso ha scritto anche dei libri...



E vicino all'accesso, sulla strada, c'è un albero di jacaranda: vale la pena cercarlo su Google immagini...

Non avevo mai letto autori messicani e la Jufresa mi ha regalato un esordio felice. Opera prima scritta nel 2015, quindi all'età di 32 anni, "Umami" è un romanzo intelligente per stile e struttura, delicato per i temi trattati e strampalato il giusto, senza quegli eccessi che mi è capitato di trovare in alcuni scrittori sudamericani.

Il libro si divide in quattro parti; in ognuna i capitoli, di lunghezza variabile, non sono numerati, ma sono distinti dagli anni di riferimento che vanno dal 2000 al 2004. Ogni anno ha la sua voce narrante.

C'è Ana, classe 1991, la figlia maggiore dei Walker Pérez, la coppia di musicisti che occupa due case del comprensorio, casa Salato, dove vivono, e casa Dolce, dove ha sede la loro scuola di  musica. Ana nell'estate del 2004 non vuole andare con i fratelli nel Michigan dalla nonna materna e per convincere i genitori ha progettato di trasformare il loro giardino in una milpa.

C'è Marina Mendoza, che ha affittato casa Amaro nel 2002, a 19 anni, e che nel 2003 ha fatto qualcosa che ha portato Linda, la madre di Ana, a toglierle perfino il saluto. Marina si definisce pittrice. Inventa i nomi dei colori associando i suoi stati d'animo alle varie sfumature: biansibile, giallansia, rosentirosso, griste, dorasmo, verdegno, nettrico...
Marina va in analisi e prende lo Xanax...

Naturalmente c'è Alfonso, che per sè ha tenuto casa Umami. Nel 2002 ha 65 anni e vive nel ricordo della moglie morta di cancro l'anno precedente.

C'è Pina, che ha la stessa età della sua amica Ana e che vive a casa Acido con il padre Beto, mentre Chela - la madre - li ha lasciati nel 2000.

E' c'è Luz, la figlia minore dei Walker Pérez, che ha tanta voglia di visitare il castello dell'imperatore Umami in fondo al lago...

La parte centrale del romanzo non è entusiasmante, rallenta, ma la Jufresa è convincente nel dare voce a personaggi di sesso, età ed estrazione così differenti fra loro ed è davvero molto brava nel costruire il grande puzzle attraverso cui racconta vita e sensazioni dei vari abitanti del comprensorio. Capitolo dopo capitolo, facendoci andare a ritroso nel tempo per poi risalire e ricominciare la discesa, fornisce tutte le tessere necessarie per capire cosa è successo ai suoi personaggi e - come direbbe Ana - alle sue personagge.

Ci sono più dispiaceri che gioie, ma la beltà del libro deriva anche da questo.

"Forse morire è proprio questo, no? Quel momento in cui uno smette di portare il proprio peso"

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla terza traccia annuale, "sei libri, l'iniziale dei titoli deve formare la parola Austen"
 

sabato 10 luglio 2021

"Un estraneo al mio fianco", Ann Rule

Seattle (Stati Uniti), 1974. Ann Rule è una donna divorziata di 43 anni che - da sola, con quattro figli - fatica a tirare avanti con il suo lavoro di giornalista freelance. Per via della sua precedente esperienza in polizia, si occupa di cronaca nera. In quel momento sta scrivendo degli articoli per la rivista "True detective" su una serie di omicidi irrisolti di giovani donne. La somiglianza fra le vittime e il modus operandi hanno già spinto gli investigatori a parlare di un serial killer. Ci sono anche delle testimoni, ragazze che grazie alla fortuna o alla diffidenza solo in seguito hanno capito di aver rischiato la vita quando un uomo giovane e bello si era avvicinato a loro chiedendo se potevano aiutarlo. Un uomo che si era presentato con il nome di Ted.
E' a quel punto che Ann Rule si rende conto che ogni dettaglio e ogni descrizione sembrano descrivere un ragazzo che lei ha conosciuto tre anni prima quando era volontaria al telefono amico della Crisis Clinic: Ted Bundy.

Una conoscenza fortuita che, a mio modo di vedere e senza biasimo, la Rule sfruttò alla grande, non solo con la stesura di questo libro e di centinaia di articoli, ma anche con interviste, dibattiti e consulenze che avevano fatto di lei un'esperta di serial killer, cosa che secondo me non era. La profilazione criminale richiede competenze specifiche che - ammesso che la Rule le avesse - non emergono dal libro. Ho avuto anche la netta impressione che abbia opportunamente esagerato nel descrivere la profondità e l'importanza del suo legame con Bundy e la reciproca conoscenza.

Un compagno di bevute notturne, o simil tale, lo abbiamo avuto tutti e tutti sappiamo come determinate circostanze generino un clima favorevole alle confidenze, la cui portata è spesso inversamente proporzionale al livello di conoscenza che abbiamo dell'altra persona. Non metto in dubbio che nel '71 l'allora venticinquenne Bundy sia stato un buon ascoltatore per gli sfoghi della quarantenne Rule - fresca di divorzio, con un futuro professionale incerto e con una situazione economica precaria - e che sia stato capace di infonderle fiducia convincendola che valeva "ancora qualcosa, che ero una donna con molto da dare e da prendere. Era presente, mi ascoltava, mi rassicurava, dava credibilità a quello che stavo cercando di diventare". Ma resta il fatto che i due parlavano più o meno brevemente nei ritagli di tempo fra una telefonata e l'altra in arrivo a telefono amico, senza frequentarsi al di fuori di quel contesto, perdendosi di vista alla cessazione dell'attività presso la Crisis Clinic e che solo i reciproci ruoli di sospettato e di giornalista interessata alla vicenda hanno successivamente portato alla ripresa dei contatti.
A me sembra poco per arrivare a considerare quell'uomo come un figlio o come un fratello e fatico a credere alla sincerità dell'autrice quando afferma: "Sotto molti aspetti mi è stato più vicino di qualunque altro uomo".

Di sicuro lei con lui non ha dato prova di particolari abilità di profiling, tanto che in tutta la parte che costituisce il libro originario scritto nel 1980 (in questa edizione vi è l'aggiornamento del 1986, un ultimo capitolo scritto nel 1989 tre mesi dopo l'esecuzione di Bundy e un'ultima appendice del 2000) la Rule dubita della colpevolezza di Bundy.

"Se, come molte persone credono oggi, Ted Bundy ha stroncato vite umane, bisogna dire che ne ha anche salvate. So che è vero perchè ero presente quando è accaduto"

Sì, va bè, anche Hitler amava i gattini...

Non voglio addentrarmi in un discorso riguardante la validità delle prove a carico, nè disquisire sulla pena di morte: il processo che ne sancì la condanna alla sedia elettrica riguardava tre casi (gli ultimi tre omicidi compiuti in Florida), ma lo stesso Bundy in seguito confessò di aver ucciso 26 donne e c'è il sospetto che siano state molte di più. Dal libro emerge anche il dubbio che il primo assassinio non sia stato compiuto nel '74, ma addirittura nel 1961, quando Bundy aveva appena 15 anni!

Sono contraria alla pena di morte, ma di certo non si può dire che quel 24 gennaio 1989 il mondo abbia perso qualcuno degno di respirare ancora. E avrei preferito che dalla Rule arrivassero parole di condanna, non solo di dispiacere. Il fatto che fosse un suo conoscente per me non giustifica la scarsa empatia manifestata nei confronti delle vittime, i rimorsi per aver danneggiato quel "povero ragazzo" con i suoi articoli, il rimpianto per non aver fatto nulla per evitargli la pena di morte.

Non puoi dire di un serial killer di questo calibro: "Le donne furono la sua maledizione"!!

Ma la Rule mi ha fatto una brutta impressione non solo come persona, ma anche come scrittrice: lo stile è giornalistico, ma non certo da grande firma, piuttosto in linea con quello adatto a una rivista come "True detective" che immagino simile a quelle italiane tipo "Giallo" che - con il loro gossip macabro - per me rappresentano il livello più basso di ciò che arriva in edicola.
E, nonostante l'asso nella manica dell'aver conosciuto Bundy, il suo modo di scrivere tende più ad annoiare che a coinvolgere. Arriva a 555 pagine ripetendosi e dilungandosi con descrizioni e dettagli inutili, ma senza aggiungere nulla di concreto rispetto alla pagina dedicata all'assassino su Wikipedia.

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla seconda traccia annuale, "tre libri di cui esiste il film o la serie TV"
 

 

lunedì 5 luglio 2021

"Alice", Barbara Abel

Una città qualunque del Belgio, 10 novembre 2018. E' un pomeriggio autunnale, reso ancora più cupo dalla fitta pioggia. Con un tempo del genere bisogna guidare con la massima concentrazione, non certo con la mente offuscata dalla marijuana. E, anche senza aver assunto droghe e in una bella giornata di sole, non si dovrebbe mai distrarsi per cercare qualcosa dentro al cruscotto mentre si sta guidando. Basta un attimo per invadere l'altra corsia e andare a sbattere contro un altro mezzo...
L'impatto è tremendo, muoiono un bambino di 7 anni e un ragazzo di 19, ma quell'incidente finirà per stravolgere e spezzare anche la vita di tante altre persone coinvolte più o meno direttamente: Solange, Nicole, Maude e, ovviamente, la Alice che dà il titolo al romanzo...

Giusto una decina di giorni fa parlando con mio marito mi lamentavo per la ripetitività dei thriller psicologici che tendono a sfruttare sempre i soliti tre o quattro filoni (la protagonista senza memoria, la ragazza che torna a casa dopo essere stata rapita da bambina e segregata per anni, i due gemelli che per un qualche motivo non si sa più come distinguere, ecc) generando la fastidiosa sensazione di "già letto".

E chiudevo il discorso dicendo: "E poi non c'è mai un autore che abbia il coraggio di..."...
Ecco, di fare quella cosa che, invece, la Abel ha fatto. Un qualcosa di spiazzante che, unito alla trama diversa dal solito, rende il suo libro decisamente originale.

Come ne "La bambina nel bosco", opera prima letta due anni fa, anche questa volta l'autrice crea un storia cupa e un intero ventaglio di personaggi spregevoli, tutti poco inclini ad assumersi le proprie responsabilità, tutti incuranti del prossimo, anche quando quel prossimo è molto legato a loro.
Situazioni estreme che portano a reazioni e a conseguenze altrettanto esagerate, da cui non tutti riescono a uscire e dove quelli che ce la fanno non ne escono comunque bene.

Anche questo romanzo, come il precedente, è di quelli che fanno male: i thriller, anche quelli cruenti, appartengono alla narrativa di svago, ma la Abel colpisce duramente arrivando a privare il momento della lettura della sua funzione di passatempo e, se anche certe tematiche fanno male, questa non è una cosa negativa perchè fa riflettere e, esattamente come con l'altro suo lavoro, rincuora, per lo meno chi può onestamente pensare di non essere infame come i personaggi che sta leggendo.

Ed è un libro che merita di essere letto, meglio se preparati a quello che si sta per affrontare, ma di cui non tutto mi ha convinta...

Lo stile narrativo -  con l'uso del presente e di frasi per lo più brevi, che penso sia finalizzato a rendere più pungente e incalzante il racconto - mi ha disturbata.

L'abuso di frasi ad effetto: nesuna è utile alla storia, finiscono solo per appesantire il libro che sarebbe stato più piacevole se più snello.

Un aspetto della storia si basa su un conflitto di interesse clamoroso e non basta che l'autrice scriva: "La burocrazia ha permesso una tale situazione solo grazie alla differenza di cognome..." per ottenere quel nulla osta inconcepibile nella vita reale.

Da favorevole, quale sono, alla legalizzazione delle droghe leggere, non condivido la criminalizzazione arbitraria che ne fa l'autrice.

Ma soprattutto mi ha dato molto, molto fastidio la discriminazione che fa della famiglia allargata rispetto a quella tradizionale, arrivando ad affermazioni come "Le famiglie allargate hanno i loro limiti" e a domande come "La famiglia allargata è davvero una famiglia?".

Sì che lo è, così come i limiti possono esserci in una famiglia "tradizionale": i pro e i contro non vengono determinati dalla tipologia, ma dalle persone che la compongono e quando sono delle latrine umane come i personaggi che ti inventi, cara la mia Abel, non si salva nessuno!

Reading Challenge 2021: questo testo risponde alla terza traccia annuale, "sei libri, l'iniziale dei titoli deve formare la parola Austen"