mercoledì 30 settembre 2020

"Il tempo dell'attesa", Elizabeth Jane Howard

 
Sussex (Inghilterra), settembre 1939. E’ passato un anno dalle precedenti vicende e con l’invasione della Polonia da parte della Germania, Home Place non rappresenta più soltanto il luogo in cui i Cazalet si riuniscono in occasione delle vacanze, ma diventa il rifugio per i tanti di loro che non devono continuare a vivere a Londra per lavoro o a partire per il fronte. Ritroviamo quindi la grande famiglia seguendone gli sviluppi fino al dicembre 1941, con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti dopo l’attacco di Pearl Habor. 
 
Quindici mesi che vedranno nascite, decessi, scomparse. Affetti e tradimenti. E di nuovo tematiche pesanti, dall’aborto agli abusi, dal cancro alla terapia dell’elettroshock. Legami che si rafforzano con i personaggi più giovani che - proprio per via dell’età – subiscono i maggiori cambiamenti. 
 
Se già ne "Gli anni della leggerezza" le donne avevano un ruolo di maggior rilievo, qui è assolutamente primario, con i capitoli intervallati che si concentrano soprattutto sulle vicende e sui punti di vista delle tre adolescenti della famiglia, Clary, Polly e Louise, usando anche lettere e diari personali per raccontare gli eventi, una mescolanza che ho apprezzato moltissimo. 
 
Come continuo ad amare lo stile descrittivo della Howard: mi rendo conto che se non avesse particolareggiato, come ha fatto, ogni singolo personaggio, ambiente, situazione, ecc, il libro avrebbe potuto essere lungo più o meno la metà, ma è questo tratteggio meticoloso a rendere vivo il romanzo rendendo più partecipe il lettore. 
 
Solo la guerra non beneficia di approfondimenti e – se da un lato l’autrice fa un bel lavoro seguendone lo sviluppo con minimi accenni a fatti rilevanti – dall’altro avrei voluto un maggior approfondimento perché in questo modo la guerra, pur scandendo i tempi mese per mese diventando così il filo conduttore, in realtà si riduce a un mero scenario di sfondo. Questo in parte è giustificato dal fatto che fra le voci narranti non ci sono quei pochi personaggi che la stanno combattendo attivamente, ma abbiamo comunque le mogli, i figli, i genitori, i nipoti… 
 
Leggere questa cosa che l’autrice fa dire a Clary:
 
"E' solo che mi sembra una guerra finta, Poll, in cui non succede niente e non c'è niente di cui preoccuparsi"
 
(Clary che poco dopo si renderà duramente conto della superficialità di questa sua affermazione e che per il resto si presenta come una ragazzina molto saggia e intelligente, anche molto sfortunata, attualmente il mio personaggio preferito), bè, mi ha fatto arrabbiare tantissimo e che si tratti delle parole di una quindicenne non giustifica una simile leggerezza.
 
Ma forse la Howard ha attribuito volutamente una certa dose di vacuità a questa famiglia benestante per evidenziare la divisione in classi sociali e i soprusi della borghesia dell'epoca.
E non solo di quei tempi, perchè quello che Stella Rose dice a Louise ("per far stare la gente là dove nessuno vuole stare, non c'è niente di meglio che negare un'istruzione e pagare male") non è mai cambiato.
 
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia annuale "una saga composta da cinque libri"


martedì 29 settembre 2020

"Il primo cadavere", Angela Marsons

 
Birmingham (Inghilterra), 15 dicembre 2014. L’ispettore capo Woodward ha ricevuto addirittura due messaggi di cordoglio da parte dei colleghi: nessuno gli invidia il nuovo membro con cui avrà a che fare. Kim Stone, detective ispettore, ha fama di essere intrattabile e ingestibile, motivo per cui questo è il suo ennesimo cambio di sezione. Quello che né Kim né i colleghi di Woodward sanno è che è stato proprio lui a richiederla e non solo per l’altissima percentuale di casi risolti.
E il primo di cui dovrà occuparsi riguarda il brutale omicidio di un uomo: lo hanno inchiodato al terreno con dei chiodi di ferro, gli hanno mutilato i genitali e lo hanno decapitato. Kim e la sua nuova squadra dovranno scoprire chi è e chi lo ha ucciso, intuendo subito che non si tratta di un caso isolato e che forse il morto quella fine orribile se l’è meritata...
 
 
I numeri sono belli. I numeri piacciono alle persone precise. Io amo i numeri. Quando c'è bisogno di fare chiarezza il modo migliore è farlo attraverso i numeri.

Quindi vediamo: Angela Marsons ha recentemente dichiarato che la saga con protagonista Kim Stone si chiuderà con il sedicesimo romanzo. Al momento ne sono stati pubblicati tredici. In Italia avevano tradotto soltanto i primi sei. Ma questo non è il settimo libro della serie, bensì il dodicesimo. Immagino che la Newton Compton abbia deciso di tradurlo prima del settimo, dell'ottavo, del nono, del decimo e dell'undicesimo perchè si tratta del prequel e racconta l'arrivo della protagonista alle dipendenze di Woodward e di come si è formata la sua squadra. 
 
Io della serie avevo letto soltanto il primo, “Urla nel silenzio”. Cerco sempre di seguire l’ordine cronologico con cui i libri sono stati scritti, ma non ho mai subito il fascino dei prequel (anzi, mi disturbano abbastanza), per cui ho preferito dare la precedenza a questo e sono contenta della scelta, nonostante così mi sia venuto a mancare il piacere di scoprire le origini dei rapporti, cosa che ha sperimentato chi aveva già letto anche i romanzi successivi. Non io perché la vicenda del prequel avviene proprio a ridosso di quella raccontata in “Urla nel silenzio” dove i quattro elementi della squadra (i sergenti Bryant e Dawson, l’agente Wood e naturalmente Kim), al pari di altri personaggi (Woodward e il medico legale Keats), sono ancora dei semisconosciuti fra loro e quindi anche per me. 
 
Resta il piacere di un discreto thriller che alla fine non ha nulla di particolarmente originale, che sfrutta un po’ troppo le coincidenze e che affida la risoluzione a un’intuizione poco credibile, ma che è stato strutturato molto bene, con un piccolo colpo di scena alla fine di quasi ogni capitolo, un buon sistema per tenere sempre alta la suspense.

Certo la Marsons meriterebbe traduzioni migliori di quelle offerte dalla Newton Compton!

Reading Challenge 2020: traccia gold del mese di settembre


 

domenica 20 settembre 2020

"Il coraggio della signora maestra. Ovvero, storia partigiana di ordinario eroismo", Renzo Bistolfi


Genova – Sestri Ponente, giugno 1961. Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, al termine di una funzione, riconosce fra i fedeli Vittoria Barabino, la maestra che nel ‘43 - a poco più di vent’anni – era riuscita a sventare un attentato nazista salvando la vita a un centinaio di persone. L’uomo, non rendendosi conto del disagio della donna, elogiandola per la medaglia al valore militare ricevuta per meriti della Resistenza, racconta altri dettagli della storia suscitando l’ammirazione dei presenti. Di tutti tranne uno, qualcuno che all’epoca ha tradito e che fino ad allora non sapeva nulla del coinvolgimento della maestra e che ora ha paura… 
 
Bistolfi non ha all’attivo moltissimi libri e, dopo aver letto i primi due nell’autunno 2018, mi ero ripromessa di recuperarli tutti abbastanza in fretta e invece sono già passati due anni prima di leggere il terzo. Un altro libro garbato: aggettivo ispirato dal secondo romanzo e che continuo ad usare per descrivere lo stile di scrittura dell’autore perché lo trovo azzeccatissimo. 
 
Questa storia ha un prologo, un epilogo e cinque parti centrali in cui i capitoli si alternano su due piani temporali: le vicende degli ultimi anni della guerra e quelle dell’estate del ‘61, dove ritroviamo le tre anziane sorelle de “I garbati maneggi delle signorine Devoto” invecchiate di tre anni, ma sempre ugualmente acute. 
 
Un libro di 281 pagine che ho impiegato un’eternità a finire, la bellezza di 13 giorni, perché riuscivo a leggerlo solo alla sera e poco per volta. Troppi pianti per leggerlo di giorno prima di essermi struccata gli occhi. Troppa rabbia per leggerne tante pagine di sera e poi poter dormire tranquilla.
 
Perchè il titolo completo dell’opera è questo: “storia partigiana di ordinario eroismo”. Per me non una storia partigiana qualunque, ma la storia del ramo materno della mia famiglia. Gli stessi episodi che mi raccontava mio nonno da bambina, le vicende partigiane da lui vissute in prima persona, proprio le stesse, avvenute al confine fra Liguria e Piemonte, fra Genova e Alessandria. E quello che ha patito la mia città dopo l’8 settembre del 1943, in particolare Sestri Ponente (quartiere dell’autore) e Sampierdarena (il mio), ma anche Voltri, Cornigliano, Rivarolo… 
 
L’area industriale di Genova, insomma, quella che i tedeschi per via del porto e delle industrie minacciavano di far saltare se i partigiani avessero ostacolato la loro ritirata (e alla fine, come Bistolfi ben racconta, ci tengo anch’io a sottolineare come Genova fu l’unico caso in Italia in cui i tedeschi si arresero ai partigiani!).
 
Mentre leggevo mi era chiaro che Bistolfi non si era documentato sui testi di storia per raccontare questi fatti e la conferma l’ho avuta leggendo le note dell’autore: uno dei punti più toccanti del libro riguarda il rastrellamento di 1488 lavoratori delle fabbriche sestresi realmente avvenuto il 16 giugno del 1944. I tedeschi imbarcarono quegli uomini su un treno diretto a Mauthausen: il fratello di mio nonno era su quel treno e morì nel campo di concentramento austriaco, invece il padre di Bistolfi fu uno dei tre che riuscì a scappare prima di varcare il confine.  
 
Un altro dei tre, spiega l’autore, era il marito di una maestra partigiana, come nel libro. 
 
La parte del ‘61, quella ”gialla”, non regge il confronto con quella degli anni della guerra, ma credo che Bisolfi l’abbia inventata per raccontare quello che gli stava più a cuore, storie che non vanno dimenticate, soprattutto a distanza di tanti anni, quando – per ignoranza o per interesse – c’è chi cerca di mettere tutti sullo stesso piano, non facendo distinzioni fra chi il fucile lo ha imbracciato per ferire e conquistare e chi per difendersi. 
 
"La differenza fra aggressori e aggrediti, tra vittime e carnefici, quella deve restare 
 
Bravo Bistolfi, hai perfettamente ragione, i morti non sono tutti uguali!

 

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di settembre "un libro con protagonista un maestro o un professore"

 

lunedì 14 settembre 2020

"Il mio nome era Dora Suarez", Derek Raymond

Londra, febbraio 1990. Un triplice omicidio sconvolge la notte della capitale: in un appartamento a South Kensington, due donne vengono barbaramente uccise. Betty Carstairs, l’anziana proprietaria, viene trovata con il cranio fracassato dentro alla vecchia pendola, ma la sorte peggiore è toccata alla giovane affittuaria, Dora Suarez, massacrata a colpi di ascia! A distanza di appena un’ora viene ucciso anche Felix Roatta, consigliere municipale corrotto e proprietario del Parallel Club, squallido locale noto per spaccio e prostituzione. La Factory – perennemente a corto di organico – decide di reintegrare nella sezione Delitti Irrisolti un sergente che un anno prima era stato sospeso dal servizio per avere picchiato un ispettore mettendolo a investigare sul “killer della mannaia”. Sarà lui a collegare i due casi grazie a una foto che ritrae Dora Suarez all’interno del locale Parallel Club. 

Avevo inserito questo titolo in wish list l’anno scorso dopo averne letto una bellissima recensione e gli entusiastici commenti alla stessa in quello che fra me e me definisco “il gruppo colto” fra quelli di FB dedicati ai libri a cui sono iscritta. Un gruppo dove la maggior parte delle letture è di livello alto (e poco commerciale) e da cui prendo spunti con timore consapevole di non avere il bagaglio culturale di quei lettori. Il più delle volte, per fortuna, anch’io sono riuscita ad apprezzare i libri consigliati, invece questo è uno di quei casi in cui non sono stata in grado di coglierne i pregi.

Dopo averlo finito ho riletto quella recensione e quello che è stato scritto da altri utenti nei commenti. Che non si tratti di un thriller, come Fanucci ha indicato in copertina, ma di un noir lo avevo capito anch’io, così come anch’io penso che la mancanza di caratterizzazione di alcuni personaggi, e soprattutto del protagonista, sia imputabile al fatto che si tratta del quarto volume di una pentalogia. Una mancanza che mi ha fatto quasi sentire in colpa per tutte le volte in cui ho criticato Linda Castillo per come in ogni romanzo della serie con protagonista Kate Burkholder ripete le vicende passate della stessa: e dico "quasi" perché deve pur esistere una buona via di mezzo, saper spiegare un personaggio anche a chi non ha letto i titoli precedenti senza che chi lo ha fatto debba sentirsi ripetere ogni volta tutto quanto. Alcuni ce la fanno (Gianrico Carofiglio, per esempio).

Qui Raymond dice pochissimo del suo protagonista, a cui non dà neppure un nome: sappiamo solo che ha 45 anni e che in passato è stato colpito da un lutto gravissimo, il peggiore in assoluto, ma l’autore vi accenna in maniera così superficiale da non dar modo all’evento di diventare un lasciapassare per il modo di porsi di questo sergente che attorno al 40% della storia da uomo triste - senza che niente spieghi la metamorfosi - si trasforma in un personaggio spocchioso e arrogante che sembra essere uscito da uno di quei film degli anni ‘70 con Maurizio Merli che piacevano tanto a mia madre.

E non è solo per questo che ho trovato la storia antiquata, anche rispetto all’anno in cui è stata scritta (1990): lo è in generale, nei metodi di indagine (pedinamenti, interrogatori violenti, falsi annunci sui quotidiani, ecc…), nei dialoghi (“Siamo poliziotti, per cui togliti dalle palle e vai a chiamare il tuo capo, se non vuoi un biglietto di seconda classe, solo andata, per dove dico io”) e nella narrazione. 

Non solo antiquata, ma anche sessista, con noi donne relegate ai ruoli di cadaveri, prostitute, segretarie da sbattere o semplici passacarte.

Ma ciò che più di tutto mi trova in disaccordo con chi lo ha tanto apprezzato nel “gruppo colto” sono la crudezza e lo stile senza filtri del romanzo, per loro vere chicche, per me puro e disturbante splatter. E con un assassino necrofago e coprofago mi tengo caro il mio giudizio!

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di annuale "sei libri ambientati in sei capitali diverse" 

 


 

domenica 13 settembre 2020

"Quando parlavamo con i morti", Mariana Enriquez


Un librino dal delizioso formato A6 che raccoglie tre racconti, uno breve e due brevissimi, per un totale di appena 101 pagine. Tre storie surreali, tutte ambientate a Buenos Aires, che l'autrice sfrutta per raccontare i drammi della sua Argentina. 
 
Nel primo raccontino, che dà il titolo alla raccolta, abbiamo i desaparecidos i cui fantasmi vengono evocati da cinque ragazzine attraverso la tavola ouija (che comprano in edicola: per fortuna questa in Italia ancora manca!). 
 
Il secondo, "Le cose che abbiamo perso" - altrettanto corto e che a sua volta dà il titolo a un'altra raccolta di racconti brevi dell'autrice – vuole denunciare la violenza sulle donne. Abbiamo un marito tradito che cosparge di alcool il corpo della moglie e le dà fuoco. In seguito un calciatore fa lo stesso con la fidanzata modella. Entrambi cercano di far credere che siano state le due donne a darsi alle fiamme nel corso di un litigio. Diventa un contagio, mariti e fidanzati danno fuoco a mogli e compagne, finché sono le donne a buttarsi nei roghi da sole, al ritmo di un caso alla settimana. 
 
L'ultimo racconto, quello più lungo, "Bambini che ritornano", rimanda ai numerosissimi casi di bambini scomparsi in Argentina. Nella storia all’improvviso i bambini ritornano, ma senza essere invecchiati (diciamo cresciuti), come se fossero scomparsi il giorno prima, mentre sono passati mesi o anni. 
 
Per gran parte della vita mi sono tenuta alla larga dagli autori giapponesi convinta che mi sarei scontrata con la loro mentalità e invece, pur avendo avuto conferma delle varie diversità, da quando ho cominciato a leggerli nessuno mi ha mai delusa. Anche quelli sudamericani non mi attiravano, seppur per motivi diversi, ma in questo caso rimango quasi sempre insoddisfatta, anche questa volta. 
 
Mariana Enriquez, scrittrice, ma soprattutto giornalista, fa bene a parlare di questi drammi, ma lo fa attraverso la metafora ed è una cosa che non riesco proprio a farmi piacere semplicemente perchè spesso non la capisco e anche quando poi trovo in rete le spiegazioni di quello che non sono stata in grado di cogliere resto sempre molto perplessa. Un tipo di sensazione disturbante molto simile a quella che provo di fronte al 99,99% delle (così definite...) opere di arte contemporanea.

Della Enriquez ho anche “Qualcuno cammina sulla tua tomba. Il mio viaggio nei cimiteri”, ma non so proprio quando mi verrà la voglia di affrontarlo.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di settembre "un libro scritto da un autore straniero"
 

 

giovedì 10 settembre 2020

"Gli anni della leggerezza", Elizabeth Jane Howard


Sussex (Inghilterra), estate 1937. I Cazalet, ricchi mercanti di legname, vivono a Londra, ma ogni anno in occasione delle vacanze estive, natalizie e pasquali si riuniscono a Home Place, la grande casa di campagna della famiglia. Abbiamo “il generale” William e sua moglie Kitty, “la duchessa”: ormai anziani, ma sempre attivi, lui ad apportare continue modifiche alle sue proprietà, lei a dirigere la casa nel benessere condizionato dalle rigide regole vittoriane in cui ancora crede. L’unica figlia femmina, Rachel: 38 anni e nubile (ma non sola). I tre figli maschi: Hugh, Edward e Rupert. Le rispettive mogli: Sybil, Villy e Zoe. I tanti figli delle tre coppie: otto in tutto. E poi le anziane due sorelle di Kitty e quella di Villy, con relativa famiglia. E i domestici: dalle governanti alle cameriere, dalle bambinaie all’istitutrice, dal giardiniere allo stalliere all’autista. E non mancano nemmeno due gatti domestici...
Un vero e proprio microcosmo, tanti personaggi, ognuno con i propri sentimenti, il proprio ruolo, i propri legami, i propri pensieri e le proprie preoccupazioni, delle quali una è comune a tutti: lo spettro del possibile scoppio di un’altra guerra. 
 
Ho affrontato questa lettura con qualche esitazione perché un’amica me ne aveva parlato come di un romanzo lunghissimo e noiosissimo: con le sue 606 pagine lungo lo è senz’altro, ma noioso neanche un po’! Ormai mi è chiaro che, pur continuando a ritenermi un’appassionata di thriller, è nella narrativa contemporanea che trovo titoli capaci di darmi piena soddisfazione. E di amare particolarmente i romanzi corali come questo. 
 
La Howard, con uno stile meraviglioso, elegante, fluente ed estremamente descrittivo (cosa criticata da tanti, ma che invece per me rende ancora più bello il libro) – oltre a caratterizzare alla perfezione ogni suo personaggio, compresi quelli minori che appaiono anche solo in un paio di pagine – grazie alla continua alternanza fra loro ci fornisce almeno due punti di vista differenti su ogni episodio narrato, importante o meno. E’ così che scopriamo pregi, mancanze, debolezze e colpe di ognuno. E c’è tanto da scoprire perché siamo negli anni ‘40, epoca in cui etichetta, ceto, età e genere sessuale a seconda dei casi fornivano libertà o comportavano obblighi che venivano accettati senza neppure prendere in considerazione un’alternativa. 
 
E l’autrice inserisce nella storia carichi non da poco: molestie, violenze, infedeltà, omosessualità, bullismo. E, naturalmente, la famiglia. Con i Cazalet abbiamo ogni genere di legame: fra coniugi, fra genitori e figli adulti, fra genitori e figli bambini e adolescenti, fra fratelli e sorelle, fra nonni e nipoti, fra zii e nipoti, fra cugini. C’è chi nasce, chi cresce, chi invecchia... 
 
E attraverso le loro vicende ci racconta l’Inghilterra e l’Europa di quegli anni, cosa che mi ha piacevolmente ricordato la saga de “L’amica geniale" della Ferrante. 
 
Sono passati meno di vent’anni dalla Grande Guerra: Hugh ed Edward vi hanno combattuto, il primo riportando profonde ferite fisiche e interiori. Nelle due estati raccontate nel libro si passa dal sottovalutare Hitler (“un omarino isterico”) nel ‘37 al prepararsi al peggio facendo incetta di maschere antigas nel ‘38. 
 
I Cazalet ancora non sanno che ci sarà un’altra guerra mondiale e che sarà ancora più lunga della prima. La vivrò con loro, felice di poterli ritrovare negli altri quattro volumi.
 
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di annuale "una saga composta da cinque libri" 
 

domenica 6 settembre 2020

"I fantasmi", César Aira

 
 
Buenos Aires, quartiere Flores, un 31 dicembre della seconda metà degli anni ‘80. Avrebbe dovuto essere la data della consegna delle chiavi a chi - un anno prima - ha acquistato un piano di quello che diventerà uno dei tanti lussuosi condomini della capitale, ma il caseggiato è ancora uno scheletro di cemento, cosa che non dispiace a nessuno. Non ai ricchi compratori (che potranno rimandare il saldo dell’immobile), non ai costruttori (che potranno aggiungere costi), non agli operai (che vedranno prolungato il periodo di lavoro), non al capocantiere cileno (che potrà continuare a vivere abusivamente all’interno del cantiere con la sua famiglia). E non agli irriverenti fantasmi che fluttuano attraverso pareti e soffitti in costruzione sghignazzando senza riguardo. 
 
Non è mai buon segno quando leggendo un libro mi trovo più volte a pensare: “Questo piacerebbe a Chiara”. Perchè riesco benissimo a immaginare la mia amica alle prese con una lettura così astrusa, un genere che proprio non si adatta al mio bisogno di coerenza e di linearità. 
 
E così, a quasi un anno di distanza dal mio primo approccio ad Aira (“Il mago”), adesso mi chiedo se riuscirò mai ad affrontarlo per la terza volta: non sono masochista, è solo che ho già preso “Come diventai monaca”, cioè il titolo che mi aveva fatto scoprire questo autore. 
 
Autore che è senza dubbio un grande “inventore di storie”, come viene definito nell’interessante nota dell’editore, e sono d’accordo anche con tutti gli altri aggettivi che gli vengono attribuiti: surrealista, dadaista, sperimentale, postmoderno, onirico, d’avanguardia… Caratteristiche da cui scappo sempre spaventata, come il leprotto citato in questo romanzo.
 
Ma non posso negare i miei limiti: sicura che - come per “Il mago”- il libro nascondesse un messaggio specifico, ho fatto una ricerca in rete trovando dotti riferimenti a un simbolismo che io proprio non ho colto e che vede l’immagine del cantiere come una proiezione della letteratura e, per estensione, l’autore come artigiano e i lettori come fantasmi. 
 
Io, al solito, avevo colto spunti di tutt’altro genere: la contrapposizione fra i ricchissimi compratori e i poverissimi muratori, fra argentini (inconsapevoli della profonda crisi economica che li colpirà dieci anni dopo) e immigrati cileni, senza però riuscire effettivamente a trovare un senso per questi irriverenti e buffi fantasmi che diventano via via sempre più determinanti portando a un finale che, se anche prevedibile, è teatralmente atroce.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia annuale "sei libri ambientati in sei capitali diverse"