martedì 31 marzo 2020

"Un'estate con la strega dell'Ovest", Kaho Nashiki


Giappone, un maggio degli anni ‘90. Mai ha 13 anni e non vuole più andare a scuola perché andarci la fa stare male. La madre, che la considera una bambina difficile, le propone di trascorrere un po’ di tempo dalla nonna, quella nonna inglese che loro chiamano “la strega dell’Ovest”. La donna, ormai vedova, vive da sola in montagna e Mai passerà con lei più di un mese, imparando a riconoscere erbe e piante, proprio da novella strega, ma la nonna le insegnerà anche altro: a potenziare la forza di volontà, a imparare a prendere decisioni e a portare a termine le cose iniziate…

Una piccola e deliziosa raccolta di racconti: oltre a quello principale che dà il titolo al libro, ce ne sono tre ancora più brevi, con le stesse protagoniste.
"La storia di Blackie”, un incrocio di labrador nero, il cane del nonno che si era adoperato per proteggere Mai quando era piccola.
"Un pomeriggio d’inverno”, l’unico dei quattro raccontato da Mai in prima persona ricordando un precedente soggiorno dalla nonna durante le vacanze invernali dell’ultimo anno delle elementari.
E “I rametti del fornello”, di cui preferisco non dire nulla per non rovinare la piacevole sorpresa di cui ho potuto godere leggendolo.

Una bella opera di formazione, con una Mai a volte tenera, altre insopportabile. La figura splendida di questa nonna, saggia, acuta e paziente. E uno scenario da sogno: faccio fatica a immaginare una piccola casa di montagna giapponese, ma le descrizioni del verde in cui è immersa – fra giardino, orto, collina e boschetti – sono così particolareggiate e intense che fanno immaginare di respirare il profumo della menta, di sentire il rumore del picchio, di avvertire il calore del sole o il freddo nelle ossa durante una giornata invernale di forte pioggia.

Da web vedo che l’autrice ha scritto moltissimi altri libri, spero ne traducano altri oltre a questo. Una lettura davvero piacevole e confortevole, consigliata a tutte le età.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia vagabonda di marzo "un libro ambientato in Giappone"

domenica 29 marzo 2020

"Persa nel tempo", Linda Castillo


Painters Mill (Ohio), metà ottobre 2011. Kate Burkholder e John Tomasetti sono riusciti a ritagliarsi un paio di giorni di relax fra un caso e l’altro, ma appena si registrano alla locanda Maple Creek Inn i due proprietari, Harley e Fannie, casualmente riescono a stuzzicare la curiosità di Kate per un cold case, quello di Angela Blaine, una bellissima ragazza scomparsa ventidue anni prima. Era stato proprio Harley a trovare i suoi vestiti insanguinati lungo il fiume. Tutti – polizia compresa - ai tempi sospettavano di Tucker Miles, il fidanzato violento della ragazza, ma l’uomo aveva un alibi di ferro.
Impossibile per i due investigatori non farsi coinvolgere: oltretutto con la pioggia è saltato il picnic che avevano in programma, tanto vale fare qualche domanda in giro…

La quinta puntata della serie non è un romanzo, ma un racconto lungo. Una lettura simpatica e piacevole che sfiora appena il mondo Amish. Grazie alla brevità (96 pagine), la Castillo rivanga solo una volta il passato di Tomasetti e mai (!!!) quello di Kate: strabiliante.

Carina l’idea del cold case, un genere che amo molto, ma la cosa più bella di questa lettura sono senza dubbio la descrizione iniziale della campagna dell’Ohio con le colline colorate dal fogliame autunnale e la calda atmosfera del Bed and Breakfast dove soggiornano i due protagonisti.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di marzo, lo collego a "Scomparsa" perchè scritti dalla stessa autrice


sabato 28 marzo 2020

"Scomparsa", Linda Castillo


Buck Creek (Ohio), maggio 2011. Annie King ha 15 anni quando scompare. Stava attraversando la fase di ribellione tipica dell’adolescenza, frequente anche fra i ragazzi Amish come lei, ma la polizia non pensa che si tratti di una fuga volontaria. Per loro il caso è collegato alla sparizione di altre due ragazzine Amish, Bonnie Fisher, di cui non si sa più niente da due mesi, e Leah Stuckey, svanita nel nulla addirittura da un anno. L’agente del BCI John Tomasetti propone di far entrare nella squadra di ricerca il commissario Kate Burkholder che, grazie al suo passato Amish, saprà interagire con le famiglie molto meglio di quanto possa fare la “polizia inglese”.

Quarto romanzo della saga, che valuto leggermente inferiore rispetto agli altri. Il colpo di scena finale avrebbe anche potuto essere bello, ma era abbastanza prevedibile, troppo per chi ama il genere thriller e non si stupisce tanto facilmente. Inoltre l’aver scelto di fissare l’acme proprio alla fine per aver il maggior impatto possibile, lascia qualche punto non chiarito sulla dinamica dei fatti, domande che non trovano risposta neppure nel breve epilogo che, forse, serve solo come trampolino verso una storia successiva. Vedremo…

Questa volta cambia (in parte) la localizzazione degli eventi, mentre continuano i rimandi al passato, per me sempre più esasperanti. La Castillo non perde mai occasione per far raccontare a Kate sia cosa successe a lei quando aveva 14 anni, sia la più recente tragedia familiare di Tomasetti. Ancora più clamoroso il fatto che questa volta spoilera completamente il suo primo romanzo, “Costretta al silenzio”.

Tutto questo "già detto" è il vero, grande limite dell’autrice, che spesso usa proprio le stesse parole (un esempio, non l'unico: “il poliziotto che è in me” ritorna più in una volta in ogni puntata), rende i suoi libri tanto ripetitivi (e, di conseguenza, anche le mie recensioni), difetto che probabilmente tendo a notare maggiormente perché lì sto leggendo in rapida successione. Cosa che comunque intendo continuare a fare perché, per quanto non possa ignorare questi difetti, le storie sono carine e la pacatezza con cui scrive, unita agli scenari rurali degli Amish, rende i suoi romanzi molto rilassanti, nonostante i temi trattati.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di marzo, lo collego a "Nelle terre estreme" perchè entrambi gli autori sono statunitensi

venerdì 27 marzo 2020

"Nelle terre estreme", Jon Krakauer


Denali National Park (Alaska), 28 aprile 1992. E’ questo il giorno in cui Christopher Johnson McCandless inforca lo Stampede Trail e si avventura nella foresta da cui uscirà solo da morto. L’epilogo di un viaggio iniziato nel luglio di due anni prima, quando Chris, fresco di laurea, senza informare la famiglia, devolve in beneficenza i suoi risparmi e comincia il suo viaggio solitario, un’immersione nella natura, lontano il più possibile dal mondo civilizzato. Un’esperienza che lo porterà a rischiare la vita prima nel deserto californiano del Mojave, poi nelle acque messicane dell’oceano Pacifico ed infine ad affrontare l’isolamento in Alaska con una scarsa quantità di cibo e con un’attrezzatura del tutto insufficiente. Il suo cadavere verrà ritrovato da un cacciatore all’interno di un autobus abbandonato. Fra i suoi pochi averi un diario, che permetterà a Jon Krakauer di scrivere un articolo sul ragazzo per la rivista "Outside" e successivamente questa biografia.

Era da tanto tempo che non mi succedeva di trascinare così a lungo la lettura di un libro, ben 17 giorni per appena 267 pagine. Libro per il quale mi sarebbe bastato leggere la sinossi per non inserirlo nella mia wish list e che, invece, c’è finito dietro consiglio di tre vecchi amici e che mi sono decisa a leggere solo per l’insistenza di uno di loro.

Conoscendolo capisco perché a lui sia piaciuto tanto. Il mistero è come lui, conoscendomi, abbia potuto pensare che piacesse a me, assolutamente priva di spirito d’avventura, non attratta dal pericolo, amante dei comfort, ecc…

Mai come questa volta il mio giudizio sul libro, del tutto negativo, è estremamente soggettivo: posso capire che possa piacere, ma io non sono minimamente rimasta coinvolta. Mi rendo conto di quanto sia brutto dirlo trattandosi di una storia vera con un così triste finale, ma il tema trattato è davvero estraneo alla mia sfera di interesse e lo stile giornalistico con cui è scritto lo ha reso per me ancora meno stimolante, portandomi a scegliere quasi sempre il secondo libro in lettura quando, durante questi 17 lunghissimi giorni, avevo tempo per leggere.

"Nelle terre estreme" appare per quello che è, un articolo giornalistico allungato per esigenze editoriali. Krakauer aumenta il numero di pagine raccontando anche le esperienze di viaggi estremi di altri personaggi, compreso quello da lui compiuto proprio in Alaska quando aveva 23 anni. Imprese che, per come sono fatta, riesco a definire in un unico modo: folli. Per pigrizia, ok, ma anche per raziocinio.

Il suo tentativo di far capire ai lettori che Chris non era inesperto e/o arrogante, come in tanti lo avevano giudicato in risposta all’articolo pubblicato su "Outside", con me ha fallito miseramente. Un viaggio di quel tipo, in quelle terre ancora più estreme di quanto immaginassi prima di questa lettura, va preparato e organizzato seriamente, non come (non) ha fatto Chris.

Un ragazzo particolare con cui non sono proprio riuscita a empatizzare, vuoi per quello che Krakauer racconta di lui (ad esempio il suo essere un grande sostenitore di Reagan indignandosi contemporaneamente per le ingiustizie sociali), vuoi per gli autoscatti che ho visto cercando il suo nome su Google immagini dove appare sorridente mentre mostra gli animali che ha ucciso.

Nel libro ci sono troppa caccia e troppa pesca, a livello per me insopportabile: l’Alaska, che in precedenza mi era del tutto indifferente, mi era già diventata invisa ai tempi di Sarah Palin, e questso libro ha rispolverato quell'antipatia fra trofei di caccia, adesivi sulle auto con la scritta “pesco dunque esisto” e vari conteggi di cadaverini, come se uccidere uno scoiattolo o un porcospino con un fucile potesse essere motivo di vanto e non materia per Sigmund Freud.

Straziante il punto in cui l’autore racconta di quando a bordo di un peschereccio ha incrociato lo sguardo terrorizzato di un cervo mulo in balia del mare di fronte a Petersburg!

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di marzo, lo collego a "Medioevo. Un secolare pregiudizio" perchè entrambi gli autori sono stranieri

lunedì 23 marzo 2020

"Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà", Luis Sepùlveda


Regione dell’Araucanìa, confine fra Cile e Argentina. Il branco di uomini ha provato a dargli un nome, ma lui un nome lo ha già: è Aufman, che in mapudungun significa leale e fedele. A darglielo è stato l’anziano Wenchulaf quando il giaguaro lo ha portato al villaggio, dopo averlo raccolto in mezzo alla neve sulla cordigliera. E in mezzo agli indios è cresciuto felice insieme a Aukaman, il cucciolo di uomo a cui il vecchio saggio lo ha donato. Ma un giorno è arrivato il branco, ha bruciato il villaggio e ha riconosciuto in lui un prezioso esemplare di pastore tedesco. Lo hanno preso e la sua vita è cambiata: non ci sono più stati il profumo del legno, il calore della lana e il sapore del latte, ma solo una corta catena a serrargli la gola e qualche tozzo di pane secco perché “un cane caccia meglio quando è affamato”. Non c’è più più stato affetto, ma solo calci, botte, ordini.
E adesso gli hanno ordinato di stanare un fuggitivo lungo il fiume…

Quarto racconto di Sepùlveda che leggo, un autore di cui vorrei recuperare tutto, ma a piccole dosi perché le meravigliose storie che racconta fanno male al cuore. Questa volta la sua enorme sensibilità arriva anche all’uomo, parlando dei Mapuche, il Popolo della Terra, una minoranza perseguitata da mille anni, prima dagli Incas, poi dai conquistadores spagnoli e quindi da Pinochet, che emanò una speciale legge antiterrorismo, una legge ancora in vigore che fa dei Mapuche un popolo vittima di discriminazioni.

Sepùlveda non entra in questi dettagli, non chiarisce nemmeno la datazione della storia, ma non è importante. Ci racconta dei Mapuche attraverso gli occhi di Aufman, a cui è impossibile non affezionarsi e non provare un gran bisogno di proteggerlo. Non solo lui. Come sempre questo splendido autore comunica tutto il suo amore e il suo grandissimo rispetto per la natura e per gli animali.

"Chi non coglie la tristezza negli occhi del cavallo, che dopo essere stato domato sente ancora sotto gli zoccoli la libertà perduta? Chi non percepisce la pena nello sguardo del bue legato al giogo e allontanato dalla prateria? Chi non avverte la propria piccolezza contemplando le pupille del condor, sovrano del cielo più alto

In tanti, in troppi. Ma ho la fortuna di non far parte di quei tanti e quindi di condividere (e, nel mio piccolo, di mettere in pratica) lo stesso amore e lo stesso rispetto: è così che si vive (e si lascia vivere!) meglio.
 
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di marzo "un libro con un articolo nel titolo"

domenica 22 marzo 2020

"Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa", Luis Sepùlveda


Stretto di Magellano, 20 novembre 1820. La baleniera Essex è salpata più di un anno prima da Nantucket. L’equipaggio ha già ucciso diverse balene, ma non bastano, ne servono altre per riempire i serbatoi e poter fare ritorno con il prezioso carico di grasso e ambra grigia. Hanno appena tirato a bordo una giovane femmina e il suo piccolo, quando appare un enorme capodoglio albino. L’animale non scappa, come potrebbe fare, ma attacca. I suoi assalti portano all’affondamento della baleniera, poi insegue e colpisce anche le scialuppe distruggendole a una a una. I pochissimi sopravvissuti salvati da un’altra baleniera, una volta tornati a Nantucket raccontano di questo mostro marino, immenso, crudele e bianco. Gli altri balenieri capiscono subito che si tratta di Mocha Dick, Moby Dick.

Ma era lui il mostro o erano loro?

Sepùlveda dà la parola a Moby Dick che ci racconta la sua storia dal principio, a partire da quando era un giovane cetaceo ingenuo e curioso, che si avvicina con fiducia agli uomini, quegli strani esseri che si avventurano nel mare pur non essendo adatti a viverci.

Capirà cosa sono gli arpioni quando il primo lacererà la sua carne. Vedrà come gli uomini si sono organizzati per riuscire ad avere la meglio su altri esseri viventi tanto più grandi e forti di loro. Assisterà alla cattura di altri suoi simili, li vedrà squartare e scoprirà che gli uomini li uccidono per prendere il loro grasso per avere la luce e per estrarre l’ambra grigia dai loro intestini per profumarsi.

Vedrà, scoprirà, ma non capirà.

Caro Moby Dick, vorrei potertelo spiegare io: per moltissimi miei simili voi animali non siete esseri viventi e senzienti, ma l’analogo di oggetti di cui l’uomo può usufruire a suo piacimento e - se nel 1820 c’erano poche scelte – adesso c’è un’alternativa etica per tutto.
Invece, abusiamo di voi in maniera ancora più crudele, perfino per puro divertimento. Caccia, pesca, palii, corride, zoo, acquari… Per fortuna esistono persone come Sepùlveda, che ha dato la parola a te, e come Valentina Rubini, che l’ha data ai delfini. Tu sai che una vasca, assurdamente definita oceanica, non può competere con l’immensità del mare, ma ascoltala lo stesso, ne vale la pena.
 
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di marzo "un libro con un articolo nel titolo"

sabato 21 marzo 2020

"La misura del tempo", Gianrico Carofiglio


Bari, febbraio 2013. La nuova cliente che ha fissato l’appuntamento delle 19 con l’avvocato Guerrieri si chiama Delle Foglie, un cognome che lo riporta al 1987, quando aveva quasi 25 anni e aveva condiviso quell’estate con Lorenza, più vecchia di solo cinque anni, ma con tanto più vissuto alle spalle rispetto a lui. Non è un cognome comune, ma neppure esclusivo. E quando la cliente entra nello studio Guido fatica non poco nel ritrovare in quella donna spenta, che dimostra più degli anni che ha, la ragazza forte e appassionata che un tempo ha in qualche modo amato.
Lorenza ha un figlio, Iacopo. Un mezzo balordo che due anni prima è stato condannato in primo grado per omicidio. Mancano poco più di due settimane all'udienza di secondo grado e serve un nuovo avvocato perché il primo rappresentante è morto a dicembre. Lorenza si è così ricordata di Guido. Lui si ritrova ad accettare anche se non vorrebbe, ci sono diversi fattori che vanno contro ai suoi principi. Ma conosceva l’avvocato Costamagna e sa come il suo lavoro negli ultimi anni fosse stato condizionato da quel male che gli stava divorando il cervello…

Sesta “puntata” della serie con protagonista l’avvocato Guerrieri, un bellissimo giallo giudiziario. Ma per poterlo apprezzare deve piacere il genere altrimenti temo che l’accuratezza degli interrogatori effettuati durante il processo potrebbe risultare pesante. Io l’ho amato per questo, ma non solo per questo: come sempre Carofiglio costruisce un’indagine particolareggiata, raccontando e spiegando al meglio il funzionamento della Legge, arricchendo la storia con citazioni intelligenti e ragionamenti profondi.

Avendolo usato come paragone nelle recenti recensioni dei romanzi della Castillo, torno a sottolineare come lui sia bravissimo nel riprendere la vita del suo protagonista senza ripetersi fastidiosamente, ma riuscendo comunque a farlo conoscere a chi per caso dovesse leggere soltanto un libro di quelli che compongono la saga.

Qui ritroviamo un Guido Guerrieri 52enne che manifesta preoccupanti segnali di stanchezza nei confronti del suo lavoro.

"Qualcuno ha scritto che bisognerebbe essere capaci di morire giovani. Non nel senso di morire davvero. Nel senso di smettere di fare quello che fai quando ti accorgi di avere esaurito la voglia di farlo, o le forze: o quando ti accorgi di avere raggiunto i confini del tuo talento, se ne possiedi uno. Tutto ciò che viene dopo quel confine è ripetizione. Uno dovrebbe essere capace di morire giovane per rimanere vivo, ma non accade quasi mai.

Non vorrei che Carofiglio avesse in mente di fargli chiudere la carriera con il prossimo romanzo, è già tremendo pensare che farà passare i soliti 4-5 anni prima di partorirne un altro!

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di marzo "un libro con un articolo nel titolo"

martedì 17 marzo 2020

"In un vicolo cieco", Linda Castillo


Painters Mill (Ohio), dicembre 2010. Sono passate poche settimane dall’eccidio dei Plank quando un’altra famiglia Amish viene duramente colpita. Questa volta il capo della polizia Kate Burkholder deve correre alla fattoria degli Slabaugh: padre, madre e uno zio sono caduti nel pozzo del letame trasformato in una camera a gas a causa della cattiva ventilazione. Kate, per via del suo passato, si sente profondamente vicina ai quattro orfani lasciati dalla coppia, un maschio e una femmina adolescenti e due bambini più piccoli. Ma quello che sembrava un incidente forse non è stato tale: l’autopsia rivela che uno dei due uomini è stato colpito alla testa prima di cadere nel pozzo. Possibile che ci sia un collegamento con gli atti vandalici perpetrati negli ultimi tempi ai danni della comunità Amish? Due uomini non identificati hanno già infierito sul bestiame, incendiato una stalla, malmenato un ragazzo. Magari questa volta hanno esagerato…

Terzo romanzo della saga con protagonista il commissario Burkholder.
Ho trovato ancora più fastidiose le ripetizioni di cui mi ero già lamentata con la precedente recensione. Sicuramente l’aver letto due libri della serie consecutivamente me le ha rese più noiose, ma davvero non era il caso di raccontare per ben tre volte il passato di Kate: una la capisco, tre mi danno l’idea di voler allungare il libro e non ce ne sarebbe stato bisogno perché è ben fatto e non sarebbe stato meno bello se leggermente più breve.

E continuano le mie perplessità sull’inverosimiglianza dei tanti crimini inseriti in un contesto così ristretto, sconcerto che si accentua per via dei tempi ristretti scelti dalla Castillo che fa accadere tutte e tre le vicende nello stesso anno.

Nonostante questi due aspetti disturbanti, che sicuramente riscontrerò anche nei prossimi romanzi, l’escalation continua: se il secondo mi era piaciuto più del primo, questo mi è piaciuto più del secondo. Rispetto ai primi due è più thriller che giallo: ci sono sia una discreta dose di suspense che un buon colpo di scena finale, niente di strabiliante, ma presente e apprezzabile.

Non si tratta di capolavori e di certo non li consiglierei a chi cerca adrenalina pura, ma sono letture piacevoli, coinvolgenti il giusto e a loro modo anche rilassanti. Una buona compagnia per questo momento #iorestoacasa (chi può). Anche nel libro viene ripetuto il mantra "andrà tutto bene": crediamoci...

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di marzo "un libro con un articolo nel titolo"





giovedì 12 marzo 2020

"La lunga notte", Linda Castillo


Painters Mill (Ohio), novembre 2010. I Plank erano una tipica famiglia Amish: un padre, una madre, una nidiata di figli. Una vita arcaica, scandita dal lavoro nei campi, dalla tradizione e dalla fede. Una vita semplice, senza segreti… oppure no?
Deve esserci un motivo se una notte qualcuno è entrato in casa loro e li ha uccisi tutti. A madre, padre e figli maschi, compreso il piccolo di appena due anni, hanno sparato, ma le due ragazzine, Mary e Annie, sono state violentate e martoriate.
Sarà il commissario Kate Burkholder a doversi occupare dell’indagine, un caso che la tocca da vicino perché era Amish e perchè da adolescente ha dovuto fare i conti con il serial killer chiamato “il macellaio”. Impossibile per lei non immedesimarsi in Mary, l’unica dei Plank su cui Kate indagando riesce a trovare qualcosa non in linea con le abitudini della comunità…

A tre mesi dalla lettura di “Costretta al silenzio” sono tornata nelle campagne dell’Ohio, questa volta prive di neve, ma in piena atmosfera autunnale.

Per descrivere questo secondo capitolo della serie con protagonista Kate Burkholder potrei fare un copia-incolla del primo (mi chiedo come farò a trovare parole nuove per gli altri undici titoli, che conto di leggere e che immagino tutti piuttosto simili!). Anche questo è un thriller vecchio stampo, la storia narrata mi ha preso più della precedente e mi piace lo stile della Castillo, semplice, diretto.

Ho trovato un po’ pesanti le ripetizioni con il primo romanzo, cosa che mi succede quasi sempre quando leggo libri appartenenti a una serie, dove l’autore è obbligato a riprendere gli aspetti che riguardano il passato dei personaggi e a dover raccontare gli episodi precedenti per permettere a chi dovesse leggere un singolo libro di capire i riferimenti. E non tutti gli scrittori sanno farlo bene: Carofiglio sì, dice quanto basta per non lasciare dubbi al nuovo lettore, ma senza mai annoiare i lettori fedeli e attenti. La Castillo non è altrettanto brava, si dilunga un po’ troppo.

Tolto questo particolare, la vicenda gialla è ben sviluppata e convincente, ma è il contesto a difettare di credibilità, cosa inevitabile avendo scelto di far accadere tanti crimini efferati quanti sono i libri della serie in una cittadina con poco più di cinquemila abitanti e, soprattutto, in seno agli Amish. E’ quel tipo di inverosimiglianza che già mi lasciava perplessa da bambina quando leggevo Diabolik dove le Giussani nella minuscola Clerville facevano succedere di tutto, incrociare reali da ogni parte del mondo, ecc… Ma probabilmente sono io che sbaglio a farmi tante domande su ciò che è semplice narrativa.

Un plauso all’epigrafe del libro:

"Tre persone possono mantenere un segreto, se due di loro sono morte”
Benjamin Franklin

Grandissima verità!

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di marzo "un libro con un articolo nel titolo"


lunedì 9 marzo 2020

"Medioevo. Un secolare pregiudizio", Régine Pernoud


Anni bui. Anni di ignoranza, violenza, carestie, epidemie, arretratezza, massacri e analfabetismo: è questo che comunemente si pensa dei quasi mille anni del Medioevo. Se l’opinione è così diffusa significa soltanto che quell’epoca storica viene studiata poco e male. Cinema, televisione e molti romanzi di ambientazione cavalcano l’idea della cupezza e spesso solo l’interesse personale porta a volerne sapere di più.

Questo saggio di Régine Pernoud, datato 1977, ha proprio il fine di smantellare i tanti, troppi luoghi comuni di cui è vittima questo lungo e affascinante periodo storico. Capitolo dopo capitolo vengono presi in esame i vari aspetti, architettura e urbanistica, arti figurative e letteratura, religione, sistema feudale, ruolo delle donne, ecc...

Uno stile di scrittura piacevolmente attuale, ma che nei contenuti ha deluso molto le mie aspettative. In parte perché non avevo capito che fosse incentrato esclusivamente sulla Francia, ma soprattutto perché mi ha lasciata molto perplessa il fervore dell’autrice. Parla del Medioevo e del Rinascimento con una rivalità che al confronto i derby di Genova sembrano partitelle fra scapoli e ammogliati. Un livore nei confronti del Rinascimento che credo si spieghi proprio col suo essere francese: ci sono troppe differenze fra la nostra storia e quella della Francia e ci tengo a dire che faccio parte di quella minoranza di italiani che non detesta i francesi, anzi, li stimo e li ammiro sotto molteplici aspetti, non fosse altro che – restando in ambito storico – la loro è stata l’unica Rivoluzione veramente riuscita, la sola a dar vita a uno Stato Unitario. E noi italiani probabilmente dovremmo smetterla di magnificare il Rinascimento e cominciare a studiarlo in maniera critica.

Però, pur trovandomi sicuramente in linea con le idee della Pernaud, non ho apprezzato il modo in cui le difende, cioè ribattendo denigrando chi denigra e bollando come “stupidaggini” le tesi altrui.

Non mi sono neppure ritrovata d’accordo con certe sue affermazioni, ad esempio è giusto ricordare che in epoca Medievale le donne godevano di molti più diritti rispetto a quelle vissute nei secoli successivi (e rispetto ad ancora troppe donne in molte parti del mondo odierno!) - diritto di voto nelle assemblee cittadine e rurali, diritto all’eredità, ecc… - però parlare con tanto entusiasmo della posizione che le donne potevano raggiungere grazie alle consuetudini feudali citando come esempi di donne medievali regine e badesse lo trovo sgradevolmente fazioso.

Ma soprattutto non condivido le considerazioni con cui difende l’ordine feudale. Ciò che lei giustifica parlando di protezione dei feudatari sui contadini per me era sfruttamento. Che poi lo sfruttamento maggiore sia avvenuto nel XVII secolo quando i borghesi cominciarono a pretendere dai contadini tributi caduti in disuso o addirittura riscattati a suo tempo dai contadini stessi, secondo me non rende meno gravi gli abusi dei ricchi feudatari medievali. Per contro è di altissimo livello l’analisi che fa sulle differenze fra la schiavitù nel mondo antico e la servitù del mondo medievale. Schiavitù che poi tornò nel XVII secolo, cosa su cui spesso non si riflette, così come si associa al Medioevo il termine oscurantismo dimenticando, o non sapendo, che il grosso dei processi avvenne dopo.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di marzo "un libro ambientato nel Medioevo"
 


venerdì 6 marzo 2020

"Tokyo Express", Seicho Matsumoto


Tokyo, anni 50. E' in corso un’indagine sui presunti loschi traffici dei funzionari del ministero X e quando il cadavere di un suo esponente, Sayama Ken’ichi, viene ritrovato su una roccia di una spiaggia del Kyushu, all’alba di una gelida mattina di gennaio, gli inquirenti non ci mettono molto a etichettarlo per quello che sembra, un suicidio per avvelenamento. Tanto più che accanto a lui c’è il corpo di Otoki, anch’essa morta per l’ingestione di cianuro. I suicidi di coppia, si sa, sono frequenti, inutile indagare, anche se Torigai Jutaro, anziano investigatore un po’ strampalato, non è convinto. Ma è l’unico della sua sezione, finché da Tokyo non arriva il giovane Mihara Kiichi, insospettito da alcuni particolari…

Un noir in piena regola scritto nel 1958 e tradotto per la prima volta in italiano nel '71 fra i Gialli Mondadori con il titolo “La morte è in orario”, quindi riproposto due anni fa da Adelphi col titolo attuale.

Avevo grandissime aspettative, avendone sentito parlare solo che bene. Non sono rimasta delusa, ma deve assolutamente piacere lo stile giapponese e con questo libro ho capito quanto piaccia a me: parecchio, perché altrimenti non avrei un giudizio positivo su una storia come questa dove succede davvero poco.

L’indagine poliziesca si basa esclusivamente su un’intuizione del protagonista, a cui viene lasciata libertà di agire dai suoi superiori (cosa impensabile in età moderna), e sui suoi ragionamenti che ruotano attorno a orari dei mezzi di trasporto e supposizioni. Il tutto con quel lento e ripetitivo ritmo nipponico che ha sul mio congenito nervosismo l’effetto del Laxotan, flemma accentuata dalla datazione, non per lo stile di scrittura di Matsumoto (piuttosto freddo, ma garbato, elegante e intelligente. Leggerò altro di suo, quel poco che è stato tradotto da noi), ma per la datazione della storia, un’epoca in cui si comunicava ancora attraverso i telegrammi e la birra la si teneva in fresco nei pozzi.

PS: da italiana non ho potuto fare a meno di pensare a cosa succederebbe da noi se anche qui fosse prassi comune suicidarsi quando l’interessato si sente in odore di arresto per un qualche scandalo politico o finanziario. Decisamente un uso che sarebbe bello imitare, altro che piazza pulita...

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia vagabonda di marzo "un libro ambientato in Giappone"



mercoledì 4 marzo 2020

"Mary Poppins", P.L. Travers


Londra, primi anni del 1900. La famiglia Banks risiede al 17 di Viale dei Ciliegi. Madre, padre, quattro bambini e tre domestici. Manca però una nuova tata, l’ultima se n’è andata senza preavviso. Ed è a questo punto che dal cielo arriva Mary Poppins…

Ci sono tre personaggi da cui mi sono sempre tenuta alla larga provando per loro una profonda antipatia preconcetta: Alice nel paese delle meraviglie, Pippi Calzelunghe e, appunto, Mary Poppins. Ci sarebbe anche Pinocchio, ma di lui avevo visto sia il film di Comencini che il cartone animato Disney, mentre ho vissuto cinquant’anni senza che le tre signorine citate riuscissero a disturbarmi più del necessario attraverso lettura o visione su piccolo o grande schermo.

Ma poi è arrivata Claudia e la sua Reading Challenge, dove “Mary Poppins” è stato scelto come una delle letture Gold (cioè letture di gruppo) del mese. E vuoi sputare su 5 punti facili (perché il libro è breve)? Sia mai!

E così ho conosciuto Mary Poppins…

Una favola per bambini: IBS indica i 10 anni come fascia di lettura, io la vedo più adatta come fiaba da leggere a bimbi in età prescolare o poco più. Sicuramente non appassionante per una tardona insensibile alla magia quale sono (ma, ricordando la bambina che sono stata, sono sicura che non l’avrei apprezzata nemmeno a 5 anni).

Però, parlando con mia sorella e leggendo le recensioni delle altre partecipanti, mi accorgo che senza il paragone con la Mary Poppins del film non ho avuto la delusione da confronto che invece hanno provato tante di loro. Anzi… A me questa Mary Poppins vanitosa che riesce a mettere in riga l’esuberanza dei bambini con uno sguardo e a farli tacere con un secco “no” non è dispiaciuta affatto.

Sia chiaro: non mi sogno affatto di leggere gli altri sei libri della serie! Fra me e Mary Poppins l’avventura finisce qua, ma in mezzo alle strampalate storie di ogni capitolo lei, nonostante svolazzi e abbia la borsa come le tasche di Eta Beta, mi è sembrata quella più centrata.

Il soggetto più odioso è quello della madre, quello a me più caro la signora degli uccelli e il fastidio che ho provato nel leggere di orsi polari scuoiati e di renne arrostite è stato compensato con la meravigliosa immagine dello zoo con gli animali liberi e gli esseri umani chiusi nelle gabbie!

Reading Challenge 2020: traccia gold del mese di marzo