domenica 30 agosto 2020

"Per l'amore basta un clic", Rainbow Rowell

Omaha (Nebraska), estate 1999. Quando Lincoln – 28 anni e plurilaureato – aveva risposto all’annuncio del “Curier” per un posto di addetto alla sicurezza informatica non si aspettava di dover rivestire l’odioso ruolo di controllore della posta elettronica altrui. Perchè in quegli anni gli editori non avevano ancora capito che il vero nemico del cartaceo era l’informazione via web: a spaventarli erano i possibili attacchi dei pirati informatici e che i dipendenti usassero la rete per scopi personali durante l’orario di lavoro!
Lincoln si trova così a dover controllare le mail che per l’uso di parole classificate come a rischio finiscono nella sua casella di controllo. Un lavoro noioso, solitario, notturno, ma ben pagato (non che lui abbia grandi spese, visto che vive ancora con la madre…).
A vivacizzare le sue serate ci pensano inconsapevolmente Beth e Jennifer, due redattrici del quotidiano sue coetanee che ogni giorno usano la posta elettronica per aggiornarsi sulle novità, lamentarsi, consolarsi, sfogarsi, ecc…
Lincoln dovrebbe segnalare l’abuso, invece continua a spiare quegli scambi perché in fondo sono innocui e perché, dopo anni col cuore infranto, sembra che la sconosciuta Beth stia riuscendo ad aggiustarlo…

Avevo inserito questo libro in wish list perché si adattava a una delle cento tracce della Reading Challenge del 2018, preferendone poi un altro, ma era rimasto nella wish per via della copertina così carina. E "carina" è l’aggettivo che attribuisco anche alla storia: nulla di più e nulla di diverso da ciò che mi aspettavo. Un romanzetto chick-lit al 100%, mieloso il giusto, non troppo stupido, non irrealizzabile, solo un po’ troppo lento e “pulito” rispetto ad altri del suo genere, ma più originale di tanti altri per via dell’alternanza fra i capitoli che riguardano Lincoln e quelli che sono lo scambio di mail fra le due ragazze, sorvolando sull’inverosimiglianza che due migliori amiche comunichino solo in questo modo e solo durante l’orario di lavoro, senza mai una telefonata o un incontro.

Un libro da ombrellone, che non ispira certo grandi riflessioni, men che meno alla mia età, ma che a suo modo mi ha portato a pensare ai tanti cambiamenti nei modi di comunicare a cui ho assistito nei miei cinquant’anni di vita. Nelle note l’autrice spiega la scelta di ambientarlo nell’anno del tanto temuto Millenium Bug, perchè nel presente (è stato pubblicato nel 2011) si aveva già un’idea diversa di internet e della posta elettronica, ed è vero. E ciò che usavamo solo nove anni fa adesso ci farebbe sorridere.

Io, che ricordo addirittura il telefono a muro in bachelite a casa di mia nonna, forse dovrei piangere…

Ma a farmi piangere sono due errori clamorosi: un “quant’è bravo” scritto “quante bravo” e un “com’è vestita” scritto “come vestita”. Brutta cosa fare l’editing con i correttori automatici!!

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di agosto "un libro con un disegno in copertina"
 

 


lunedì 24 agosto 2020

"L'abito da sposo", Pierre Lemaitre

 
Parigi, 27 maggio 2002. Léo ha sei anni e sta trascorrendo il pomeriggio ai giardinetti con Sophie, la sua strana baby-sitter. Sophie non è socievole come tutte le altre tate, anche quel giorno all'improvviso cambia umore e gli tira un gran ceffone quando lui si impunta perché non vuole tornare a casa. Ma Sophie agli occhi dei ricchi genitori ha il grande pregio di adattarsi a tutti i loro orari e ai repentini cambi di programma. Quella sera rientrano così tardi che Sophie per la prima volta accetta la proposta di fermarsi a dormire lì. Si sveglia quando è già mattina inoltrata, i coniugi Gervais sono sicuramente già andati al lavoro facendo attenzione a non svegliare né lei né il figlio, ma adesso è ora. Sophie entra nella stanza del bambino, vede la sagoma del corpicino sotto alle coperte. C'è troppo silenzio, non lo sente respirare, nessun movimento quando lo chiama. E quando lo scopre capisce perché: Léo ha polsi e caviglie legati, il visino verdastro privo di vita e quello che è stato stretto attorno al suo esile collo fino a penetrarne le carni è chiaramente uno dei lacci degli scarponi di Sophie.
Ed è qui che inizia la fuga di Sophie Duguet, perché lei non ricorda nulla, ma è da due anni che qualcosa non funziona più nella sua testa e adesso può solo scappare, senza sapere di essere già inseguita...

Il libro mi era stato regalato qualche anno fa dalla mia gemellina Lorena, che me lo aveva descritto come uno dei thriller più angoscianti che avesse mai letto, opinione confermata da mia sorella che lo ha letto di recente. Ed è per colpa loro (^__^) e delle altissime aspettative che avevano creato con i loro giudizi che sono rimasta delusa, e non poco.

Non posso dire che sia brutto (ce ne fossero...), ma il nervoso che mi ha provocato la situazione descritta ha di gran lunga superato la suspense, che indubbiamente non manca.

È un libro particolare, diviso in quattro parti.
La prima racconta in terza persona il presente e il passato di Sophie Duguet, questa giovane donna di 28 anni fortemente disturbata e per la quale - nonostante la pena per i recenti lutti subiti - diventa difficile provare empatia.
Nella seconda si passa al narrato in prima persona, è la parte migliore del libro, che cambia marcia diventando incalzante e coinvolgente. È qui che in me è nata la rabbia e forse l'angoscia di sorella e amica.
Nelle ultime due si torna alla terza persona. Credo che la quarta per molti rappresenti la parte più adrenalinica, mentre per me è stata quella più deludente. Le "strategie impeccabili" decantate nella sinossi le ho trovate inutilmente artificiose e se anche alla fine tutto viene ripreso, collegato e spiegato come amo, l'epilogo non segue quel raziocinio che avrebbe avuto una situazione del genere nella realtà, salvo avere a che fare davvero con una persona squilibrata.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia artista di agosto
 

sabato 22 agosto 2020

"La vita è un cicles" Margherita Oggero



Torino, 24 febbraio 2017. Da qualche mese è Massimo Brusasco, classe 1993, a tirare su la serranda dell'Acapulco's, uno dei tanti bar più o meno loschi della degradata zona nord della città. Una laurea (non spendibile) in lettere antiche, si adatta a ogni mansione pur di guadagnare qualcosa e non dipendere totalmente dai genitori, con cui ancora vive. Quello all'Acapulco's è un lavoretto che lo impegna solo per un paio d'ore, deve preparare i panini e scongelare le brioches prima dell'arrivo dei poco pretenziosi clienti del locale, mansione che in realtà spetterebbe a Gervaso, detto Gerry, il figlio del proprietario, ma il ragazzo è allergico alle alzatacce...
E così tocca a Massimo rinvenire il corpo di un uomo nel retro del bar: il volto devastato (probabilmente da un colpo di pistola) e la cassaforte (di cui Massimo ignorava l'esistenza) spalancata e vuota spingono il ragazzo a chiamare la polizia prima ancora dei suoi datori di lavoro.
Per il commissario Gianmarco Martinetto e per la sua squadra comincia un'indagine dove, alla vecchia maniera, sono le soffiate a permettere di capirci qualcosa. E il morto, ancora privo di identificazione, li spinge in più di una direzione: c'entra la 'ndrangheta calabrese? Oppure la mafia veneta così attiva nel torinese? Ma non sarà invece opera dei soliti stranieri, questa volta slavi?

A volte, dopo aver finito un libro e aver scritto la mia recensione, do un'occhiata a quelle su IBS: seppur passivo, è sempre un modo di confrontare le proprie opinioni. Molto raramente lo faccio prima di aver letto un libro (certi utenti sarebbero da bannare per gli spoiler che fanno, soprattutto su Amazon!) e questo è stato uno dei rari casi perché colpita dal basso numero di stelline. Dopo aver letto le tre recensioni su IBS sono passata a quelle di Amazon ritrovando la stessa critica: in molti si lamentano per il finale, lo definiscono monco, aperto, dicono che chiaramente il libro non finisce qui. Per questo avevo deciso di rimandare la lettura a quando sarebbe stato pubblicato il seguito. Ma poi è arrivata la traccia normale di agosto che vuole la lettura di libri con un disegno in copertina e ho pensato che, essendo passati già due anni dalla pubblicazione, non doveva mancare molto per quella dell'avventura successiva e così mi sono decisa, forse spinta anche dai tanti accenti torinesi che sto sentendo a Bordighera, dove anch'io sono in vacanza...

Finito il libro sono tornata su IBS e Amazon a rileggere le recensioni e ora mi chiedo (non per la prima volta) se tutte le persone che leggono libri li capiscono anche.

Con questo evidentemente c'è stato qualche problema. O meglio: se si pretende che un crimine letterario si chiuda con la risoluzione del caso da parte degli investigatori, e magari anche con arresto e condanna dei colpevoli, allora ha ragione chi parla di finale monco.

Ma è un dare ragione agli allocchi, perché il libro ha il suo finale ed è pure molto bello: al lettore non solo viene detto chi ha ucciso e perché, ma anche che le indagini andranno avanti (con calma, senza dover fare gli straordinari...) ed è chiaro che il commissario con la sua squadra risolverà il caso dell'omicidio e farà luce anche su tutti i crimini minori in cui sono incappati durante le indagini.

Perché questo è un giallo che va a toccare tutto il marcio della malavita, gioco d'azzardo, prosituzione, droga, coinvolgendo cosche di ogni latitudine ed etnia. Un giallo forse lento che non ricorre ai metodi cui ci hanno abituati i vari CSI, ma a suo modo dinamico, con convocazioni in centrale, uso degli informatori, perquisizioni improvvise, ecc...

Un giallo che avrebbe potuto benissimo essere un altro capitolo della saga con protagonista la professoressa Baudino. Ma è finita la serie televisiva di "Provaci ancora prof"? Questo commissario Martinetto potrebbe essere un nuovo personaggio, più interessante e più credibile della professoressa: in questo senso sì, sarei felice se "La vita è un cicles" fosse la prima puntata della sua saga.

Sempre brava la Oggero: seppur la preferisca nella narrativa contemporanea, quando crea romanzi ben più profondi e di ottimo livello, anche da giallista è godibilissima, capace di costruire delle storie logiche, con dei begli incastri e dotate di personaggi - anche quelli minori - ben delineati, ognuno con una personalità definita, con un passato e un presente che non si limita alla sola professione.

Brava anche nell'intrecciare slang (il cellu fa sanguinare le orecchie, ma non mi sorprende sapere che qualcuno dica così) ed espressioni latine con assoluta naturalezza.

E bravissima, come sempre, a spingere a riflettere su temi importanti, il lavoro precario, la criminalità, il degrado delle periferie, ma anche su quanto sia saggio archiviare un legame finito anziché cercare di riesumarlo.

Non si può bocciare un libro perché delude il mancato arresto senza cogliere la profondità di certi argomenti.


Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di agosto "un libro con un disegno in copertina"


domenica 16 agosto 2020

"Cecità", José Saramago

In un giorno non precisato di un anno non precisato in una città non precisata di una nazione non precisata, un uomo – di cui non ci verrà mai detto il nome – è fermo al semaforo rosso a bordo della sua auto. Quando scatta il verde le macchine ai lati della sua si muovono, quelle incolonnate dietro di lui no: l’uomo ha perso la vista, non può ripartire.
Sarà lui il paziente zero di quell’epidemia che verrà definita “mal bianco”, una cecità che non fa “vedere” tutto nero, ma che cala un sipario biancastro davanti agli occhi. Una cecità inspiegabile e inspiegabilmente contagiosa. Il paziente zero la trasmetterà all’uomo che lo aiuterà riaccompagnandolo a casa, a sua moglie, all’oculista da cui lei lo porterà, alla segretaria di quest’ultimo, a tutti i pazienti in sala d’attesa e tutti quanti contageranno le persone con cui avranno contatti. Il Governo spaventato rinchiuderà i primi nuovi ciechi in un ex manicomio mettendo a guardia l’esercito. E mentre all’interno la situazione diventerà via via sempre più destabilizzante, all’esterno il mal bianco finirà per colpire tutti. Eccetto la moglie dell’oculista.

Da anni mi riprometto di leggere “Il racconto dell’ancella” senza poi farlo perché il distopico mi disturba, sia nei libri che sullo schermo. Cedere a “Cecità” proprio nell’anno del Covid non è stata una scelta particolarmente felice. Per fortuna - nonostante la tragedia dei lutti, le difficoltà economiche di molti e il disagio generale - il mondo reale non si è fermato come quello immaginato da Saramago, ma l’idea del rischio di contagio con relative conseguenze è sufficiente a far nascere il pensiero che forse sarebbe stato meglio leggere frivolezze.

Nel caso di “Cecità” non si abusa del termine parlando di capolavoro letterario, non c’è da stupirsi se tre anni dopo averlo pubblicato è stato assegnato il Nobel all’autore.

Uno stile unico, a cominciare dalla scelta di non collocare la storia né in un luogo né in un tempo definiti. Ancora più particolare quella di non dare un nome a nessuno dei protagonisti, che impariamo a conoscere e a distinguere solo per un fattore che li contraddistingue, che sia l’occupazione (come “il dottore”), lo stato civile (“la moglie del dottore”), qualcosa di fisico (“il ragazzo strabico”) o un semplice oggetto (“la ragazza dagli occhiali scuri”). A volte mi capita di fare confusione con i personaggi minori, specialmente se hanno nomi stranieri, e di dover quindi tornare indietro per ricordare chi sono John o Jack. Con “Cecità” non mi è mai successo: Saramago delinea ogni suo innominato in modo nitido e preciso, personalizzando ognuno di loro senza avere neppure il bisogno di ricorrere a grandi descrizioni.

Un livello altissimo che in ogni frase riesce a trasmettere il dramma vissuto da queste persone, in particolare quello dell’unica che ha mantenuto la vista, quella a cui in principio si pensa come all’unica fortunata, per poi rendersi conto che forse è lei la più sfortunata di tutti. Perchè se senti urlare un disperato, se mangi del cibo marcio, se tocchi degli escrementi o se senti l’odore di un corpo in putrefazione senza vedere nulla di tutto ciò è terrificante, ma se queste cose le senti, le assapori, le tocchi e le fiuti guardandole è senz’altro ancora peggio.

E la vista - senza voler sminuire l’importanza degli altri quattro sensi – è quello più importante perché ci dà l‘indipendenza: un mondo popolato di sordi troverebbe senz’altro il modo per funzionare lo stesso, ma un mondo di ciechi si ferma, marcisce e muore.

E ovviamente una situazione così estrema tira fuori il meglio, ma soprattutto il peggio dalle persone: in un mondo dove non c’è modo di ritrovare le persone care – perché perderle di vista qui ha un significato letterale – si formano nuovi nuclei, persone in partenza accomunate dal caso che li porta ad essere fisicamente vicine in un dato momento, ma che poi restano accanto a quelle con cui sentono di avere un’affinità d’animo. E ai piccoli gruppi formati dagli altruisti mischiati ai bisognosi, si contrappongono i gruppi, ben più numerosi, di quelli che anche in una situazione tanto disperata mirano subito al potere, che ottengono col sopruso e la violenza.

Un libro che inquieta e che fa riflettere. E la mia conclusione è netta: non serve uno scenario apocalittico per conoscere le miserie dell’animo umano. Basta un semplice “ma”: “Non sono razzista, ma...”...

Eh già, ma...

Crediamo davvero di poterci considerare civili e civilizzati solo perché ci laviamo (e perché abbiamo la fortuna di poterlo fare)?

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di agosto "un libro con un disegno in copertina"
 




venerdì 14 agosto 2020

"Peglite", Filippo Rissotto



Genova – Pegli, una primavera dei primi anni del 2000. E’ triste la vita di una spia: un mestiere rischioso che, oltre a sballottarti di qua e di là, ti porta facilmente a chiudere la carriera senza avere né radici né affetti. E’ esattamente quello che sta sperimentando Antonio Vicini che, a causa di dissapori con il capo, si ritrova già pensionato a poco più di cinquant’anni. Sul dove andare a vivere definitivamente ha solo l’imbarazzo della scelta: il padre ha seguito l’abitudine fortemente radicata a Genova di investire sul mattone e, da benestante qual era, ha lasciato in eredità all’unico figlio appartamenti sparsi in tutta la Liguria. E la scelta di Antonio cade sull’appartamento di Viale Modugno bassa, a Pegli, dove ha vissuto i primi 8-9 anni della sua esistenza e di cui incredibilmente non ricorda più nulla. Ma facendo un giro delle proprietà in compagnia dell’amministratore dei suoi beni, non resiste all’attrazione di quella casa che necessita di una ristrutturazione totale e di quel bel micio bianconero che bazzica in giardino. E non sa ancora che finirà con l’innamorarsi perdutamente di Pegli!

Pegli è un quartiere sul mare del ponente genovese che ha dato i natali a Fabrizio De Andrè, a Renzo Piano e a… Filippo Rissotto. A Pegli ci lavoro da 24 anni e da 22 ci abito: pur riconoscendone la beltà, la comodità di avere la spiaggia sotto casa, la piacevolezza degli inverni miti, ecc, ecc, continuo e continuerò sempre a sentirmi una “foresta” (forestiera), perchè noi genovesi siamo attaccatissimi alla città e guai a chi ce la tocca, ma ritrovandoci fra noi scatta il campanilismo rionale e fra gli abitanti dello stesso quartiere quello zona per zona, via per via, ecc...

Io non sono e non sarò mai pegliese, ma sempre e solo sampierdarenese. Della Sampierdarena alta. Zona ospedale. Giusto per essere precisi ^^

La gente di Sampierdarena è molto diversa da quella di Pegli e i pegliesi sono simpatici a pochi. Probabilmente anche per invidia perché Pegli è l’unico quartiere del ponente cittadino che è riuscito ad arginare porto, Italsider, Fincantieri, porto petroli e VTE, conservando incredibilmente l’aspetto rivierasco.

 

Quindi Pegli è bella, indubbiamente, peccato che non si possa dire lo stesso di “Peglite”.

Quando uscì fu un caso editoriale senza confronti all’interno del quartiere, cosa piuttosto singolare se si pensa che anche Sara Rattaro è di Pegli e non se la fila nessuno… sicuramente perché non ha mai ambientato qui un suo romanzo!

Nel 2008, invece, tutti volevano “Peglite” (ne ho vendute davvero tantissime copie in edicola), tutti leggevano “Peglite”, tutti parlavano di “Peglite”… un incubo!! Noi foresti ridacchiavamo alle spalle dei pegliesi (io anche in faccia) per questa loro esaltazione, peglite sembrava il nome di una malattia, non quello di una roccia…


Uno dei primi a leggerlo fu, manco a dirlo, mio marito, che ha un attaccamento al quartiere in parte immotivato (lui è nato in centro, da madre istriana e padre milanese) e spesso imbarazzante. Io per 12 anni ho fatto muro, non per principio, ma proprio per disinteresse. Ma quando Claudia ha proposto per la traccia cascata del mese di agosto della Reading Challenge “un libro ambientato nel posto in cui vivi” ho subito capito che nessuno avrebbe potuto trovare qualcosa di più calzante di questo. Perchè “Peglite” non è semplicemente ambientato a Pegli, ma proprio nella mia zona: solo una casa separa la mia da quella in cui va a vivere il protagonista del libro, che poi è quella in cui viveva la famiglia dell’autore, proprio di fianco a dove abitava mio suocero da ragazzo.


Antonio Vicini andando in giro per il quartiere passa più volte sotto casa mia, davanti alla mia edicola e cita posti e persone che fanno parte del mio quotidiano: per questo motivo è stata sicuramente una lettura particolare e divertente.


"Peglite" da molti è stata definita una guida di Pegli con un romanzo attorno: Rissotto si dilunga in descrizioni storiche e turistiche facendo toccare al suo protagonista ogni parco, museo, villa, punto panoramico, ecc, degno di nota, ma lo penalizza con una personalità a dir poco antiquata e con un’esperienza professionale inusuale, che può essere utile per certe dinamiche del racconto, ma avrebbe raggiunto lo stesso scopo con un qualunque ex poliziotto, più banale, ma anche più credibile.

Certo è che nella trama di credibile c’è ben poco: in principio sembra un giallo scritto per avere come protagonisti il commissario Basettoni e la Banda Bassotti, poi vira verso una sorta di fantascienza comicamente (o presumo fastidiosamente, se appassionati del genere) surreale e si conclude con un lunghissimo pippone religioso in quello che è l’ultimo capitolo più brutto che abbia mai letto.

Così, dopo averlo faticosamente finito, ho capito perché mio marito mi aveva più volte consigliato l’improponibile, cioè di interrompere la lettura al penultimo capitolo! 

 
 

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia cascata di agosto "un libro ambientato nel posto in cui vivi"



giovedì 13 agosto 2020

"Le signore in nero", Madeleine St John



Sidney, dicembre 1959. Patty Williams ha 31 anni e da dieci ha anche un marito, Frank; quello che non ha – e che tanto vorrebbe – è un figlio. Fay Baines ha 28 anni e vorrebbe sia un marito che dei figli, ma non ha né l’uno né gli altri. Magda Szombathelyi è sulla quarantina, ha un marito e una vita glamour che non necessita di figli. Tre donne molto diverse tra loro che hanno in comune il luogo di lavoro: i grandi magazzini Goode’s. Reparto abiti da cocktail le prime due, modelli esclusivi per la terza.
E poi, in previsione del Natale e dei successivi saldi, viene assunta come assistente commessa (temporanea) anche Lesley Miles. Fresca di diploma e ancora giovane per pensare a marito e figli, sa bene cosa vuole: innanzi tutto un nome diverso da quello ambiguo che ha, ad esempio Lisa, così inequivocabilmente femminile. E poi poter proseguire gli studi andando all’università. Serviranno voti eccellenti per poter accedere alla borsa di studio e, soprattutto, per convincere il padre a darle il permesso di continuare a studiare anche se è una femmina…

Il libro è preceduto da un’approfondita prefazione di Helena Janeczek che sarebbe meglio leggere alla fine perché - riportando interi passaggi del libro - per i miei gusti spoilera un po’ troppo, ma contemporaneamente fornisce un’interessante biografia dell’autrice che aiuta nella comprensione del testo. Trattandosi, come dice la Janeczek, di una commedia brillante (e io aggiungo: molto, molto carina, davvero una lettura piacevole e rilassante) teoricamente non dovrebbe esserci molto da interpretare: abbiamo queste quattro figure femminili di cui seguiamo il presente per circa sei settimane scoprendone anche il passato e i sogni per il futuro. Quattro personaggi molto diversi tra loro e molto ben delineati dall’autrice.

Il bisogno di interpretazione in me nasce dal non aver ritrovato nel libro quel femminismo che, stando a quanto scritto nella sinossi, sarebbe il fil-rouge comune a tutti quelli scritti dalla St John. Vale a dire questo romanzo più quelli della trilogia Notting Hill, di cui per ora è stato tradotto in italiano soltanto il primo e che leggerò senz’altro.

"Le signore in nero” descrive gli anni ‘50 australiani del tutto simili a quelli europei: gli studi per la maggior parte delle donne si interrompevano precocemente. e l’esperienza lavorativa successiva era vista come una parentesi in attesa di trovare marito, parentesi che si sarebbe chiusa con l’inizio della prima gravidanza. Non erano scelte, non erano nemmeno imposizioni, era così per tutte, è stato così anche per mia madre. Se poi a qualcuna il destino negava il matrimonio e l’arrivo dei figli, bè, si trattava di situazioni innaturali da compatire.

E’ così per Patty, è così per Fay. Se Magda rappresenta la donna emancipata che non sente il bisogno di avere figli, allora non lo è per me: niente del suo personaggio esprime questo, anzi, la vediamo molto concentrata nel ruolo di “accoppiatrice” di amici per far sì che quelli involontariamente single possano accasarsi e solerte nel migliorare l’aspetto della dimessa Lesley-Lisa, in modo che anch’essa possa conquistare il cuore di un ragazzo.
E lei, Lesley-Lisa, che ha ben chiaro il suo obiettivo, quello di continuare a studiare – cosa che potrebbe essere un esempio di emancipazione femminile – in realtà non manifesta mai un desiderio di indipendenza né rivendica la parità di diritti.

E se è corretto non trovare un femminismo conclamato in una storia ambientata sul finire degli anni ‘50, quando la lotta delle donne non aveva ancora raggiunto i livelli del decennio successivo, mi sarei aspettata di trovare ben altro in un libro che comunque è stato scritto nel 1993. Forse quel fil-rouge riguarda soprattutto la trilogia?

Quello che, invece, secondo me emerge dal libro è l’ostilità dell’autrice nei confronti della sua natia Australia (che poi finì col ripudiare) e degli australiani. Leggendo i punti salienti della sua biografia, ben riportati nella prefazione, non c’è da stupirsi che andasse fiera delle sue origini europee (la madre era francese), ma dal modo in cui descrive le differenze fra gli immigrati dall’Europa dopo la seconda guerra mondiale e gli australiani (cioè quelli che lo avevano fatto prima) forse ha dimenticato che il nuovissimo continente già alla fine del settecento era stato usato dall’Inghilterra per liberarsi degli ergastolani più pericolosi e anche in seguito, per un lunghissimo periodo, dall’Europa non era certo sbarcato il fior fiore della società, Italia compresa, a cominciare da mio cugino Michele.


Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia vagabonda di agosto "un libro ambientato in Australia"


sabato 8 agosto 2020

"La piccola erboristeria di Montmartre", Donatella Rizzati


Parigi, novembre 2004. Viola Consalvi ad appena 21 anni ha lasciato Roma rompendo i rapporti con i genitori per realizzare il suo sogno, quello di poter frequentare la scuola di naturopatia nella capitale francese. Un giorno, passeggiando per Montmartre, si imbatte in un’erboristeria d’altri tempi, quella delle sorelle Fleuret-Bourry. Ed è a loro, in particolare a Gisèle, che pensa quando 11 anni dopo si ritrova già vedova, incapace di reagire al dolore. Tornare a Parigi è l’unica cosa che sembra avere un senso e capisce di aver fatto la scelta giusta quando scopre che l’antica bottega naviga in cattive acque: sa che potrà ricambiare il conforto materno e l’ospitalità dell’amica aiutandola a risollevare le sorti del negozio con i suoi corsi di ricette di bellezza naturale e con le sue consulenze di naturopatia e iridologia. 
E poi c’è Romain, quel barista impertinente che forse riuscirà a convincerla a riaprire il suo cuore all’amore…
 
Ho scelto questo libro per la traccia annuale della Reading Challenge che chiede di leggere sei libri ambientati in sei capitali diverse e mentre leggevo ho più volte pensato: “Ma con tutti i bei libri ambientati a Parigi dovevo buttarmi proprio su questo?!?”. 
 
E’ un romanzo rosa con qualche pretesa di essere qualcosa di più, ma è senz’altro un libro che può piacere – e anche moltissimo – alle amanti del genere, dell'erboristeria e della medicina alternativa. Da appassionata di cosmesi quale sono, le erboristerie mi hanno sempre attratta tantissimo, ma non in modo serio: mi piace fare acquisti in erboristeria come in profumeria, quindi delle prime il mio interesse è sempre stato limitato ai prodotti commerciali che vendono. C’è stato un periodo, una decina d’anni fa, in cui avevo intrapreso un percorso più serio: attraverso il famosissimo forum di Lola avevo cercato di capire qualcosa degli inci dei cosmetici che usavo e le nozioni basilari ancora oggi condizionano (positivamente) i miei acquisti. Ma i tentativi di “spignatto” cosmetico sono naufragati quasi subito scontrandosi con la stessa mancanza di voglia e di interesse che ho anche nel cucinare. 
 
Il libro, di cui ho (come recita la fascetta gialla) “la nuova edizione arricchita, contiene pillole di guarigione, i consigli della naturopata”, quasi in ogni capitolo propone ricette di tisane, miscele di Fiori di Bach, rimedi per i chakra, schede iridologiche, ecc, una particolarità sicuramente piacevole per chi apprezza questo mondo, un po’ meno per me che bevo le tisane solo se me ne piace il gusto, ma non riscontrando in loro neppure un effetto rilassante e che nei confronti di naturopatia, cromoterapia, floriterapia, aromaterapia, iridologia, chakra e Reiki sono -  a dir poco - scettica. 
 
Credo che l’autrice abbia un pochino esagerato e l’inserimento di tutti questi consigli erboristici a volte è inopportuno, ad esempio nel punto in cui c’è un bacio appassionato e lui prende in braccio lei per portarla in camera da letto far proseguire la lettura con la ricetta per la tisana per allentare le tensioni muscolari è stato abbastanza destabilizzante! 
 
Avrei preferito un’immersione nella bottega a livello sensoriale, ma la Rizzati non trasmette questo tipo di emozione, come non riesce a evocare le atmosfere di Parigi. 
 
Non amando i romanzi rosa, non sono stata in grado di appassionarmi alla storia. Ho trovato discutibile la scelta di una protagonista vedova a 32 anni, un macigno di tristezza che grava sul personaggio, già ripudiato poco più che ventenne dalla famiglia (inspiegabilmente senza ripercussioni economiche, una scelta piuttosto comoda). E ho trovato tutto stereotipato: i personaggi, i ruoli, i rapporti, i personaggi, i contesti… 
 
Citando una frase del libro: “Sembra il soggetto di una telenovela di quarta categoria”.

 

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia annuale "sei libri ambientati in sei capitali diverse"


venerdì 7 agosto 2020

"I giustizieri della rete", Jon Ronson


Sottotitolo: “La pubblica umiliazione ai tempi di internet”.

In generale non amo i libri dal taglio giornalistico, cosa che però mi aspettavo dato che la professione dell’autore è quella, ma lo stile di Ronson non mi è sembrato quello di una grande firma e la ripetitività di quello che racconta mi ha reso pesante e noiosa la lettura, che infatti ho trascinato per più di due settimane. Ma non è per questo che il suo libro non mi è piaciuto.

Questo saggio era entrato nella mia wish list appena pubblicato, nel 2015, grazie (diciamo a causa…) di una invitante recensione letta su una rivista femminile. La giornalista ne consigliava la lettura a chiunque, in particolare ai giovani per metterli in guardia dai rischi che si corrono quando si pubblica sui social.

Dalla sinossi sapevo che il libro raccontava casi di persone reali le cui vite erano state rovinate dopo essere state prese di mira in rete.

Così, fra il trafiletto sulla rivista e la descrizione del libro, avevo inteso che parlasse di innocenti vittime del bullismo virtuale. Invece no.

Se non posso dare torto a Ronson quando afferma: “Questo libro parla di persone che non hanno fatto granchè di sbagliato”, perché effettivamente nessuno di loro è reo di azioni violente o di reati gravi, non posso nemmeno condividere il modo in cui minimizza le loro azioni, anche in nome di quella libertà di espressione a cui invece ognuno di noi dovrebbe porre dei sani limiti dettati per lo meno dal buon gusto.

Per Ronson il truffatore, la razzista, il nazista, ecc, di cui parla sono state vittime dei social. Per me se sono finite sotto attacco è stato a causa delle cose condannabili che hanno scritto o fatto, diventando al limite vittime della loro ignoranza e/o arroganza.

Justine Sacco lavorava come PR e nel 2013 venne licenziata dopo gli oltre centomila commenti negativi arrivati nell’arco di poche ore in risposta a un suo Tweet razzista postato mentre stava per partire per una vacanza in Sud Africa: “Going to Africa. Hope I don’t get Aids. Just kidding. I’m White!” (“Sto andando in Africa. Spero di non prendere l’AIDS. Sto scherzando. Sono bianca!”).

L’anno prima anche Lindsey Stone venne licenziata a causa dell’inferno che si scatenò dopo che ebbe postato questa fotografia scattata accanto a una tomba nel Cimitero Nazionale di Arlington: 

 

Ronson di entrambe dice: “Non hanno fatto nulla di male”. Certo non hanno ammazzato nessuno, ma per me già è difficile comprendere come possa venire in mente di fare una foto del genere trovandola divertente, ancora meno come si possa esserne così compiaciuti da volerla condividere sui social. Se però si è così imbecilli poi non ci si può stupire se c’è chi si indigna, datori di lavoro o utenti dei social che siano.

Ammetto che in certi casi ci sia stata una sproporzione fra quello che gli imbecilli hanno fatto e la portata degli attacchi subiti, ma questa è l’era di internet e chi fruisce dei social sa benissimo come funziona. Nessuno dei casi raccontati nel libro tratta di persone stritolate dalla gogna mediatica senza aver fatto nulla (come quelle che vengono derise per il proprio aspetto o per il proprio orientamento sessuale, tipiche vittime di bullismo, virtuale e non), ma sempre e solo di persone adulte finite nel mirino per aver oltraggiato, deriso o truffato qualcun altro, vivo o morto.

Sul finale Ronson arriva a mettere sullo stesso piano gli episodi raccontati fino a quel momento con l’umiliazione patita da una sedicenne sul banco dei testimoni durante il processo contro il ragazzo che l’aveva violentata (nel libro è riportato uno stralcio del dibattito, inqualificabile che all’avvocato della difesa sia stata permessa una simile libertà!). La ragazza si suicidò due settimane dopo l’udienza. Non mi è chiaro perché l’autore abbia inserito la sua storia in un libro che parla di umiliazione patita in rete, ma lei per me è l’unica vera vittima di cui il libro parla.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di agosto "un libro con un disegno in copertina"