giovedì 31 agosto 2023

"La spiaggia degli affogati", Domingo Villar

 

Panxón (Galizia), autunno inoltrato di un anno non precisato. La spiaggia più piccola del borgo, quella riparata dal Monteferro, si è guadagnata il triste appellativo di "spiaggia degli affogati" perché quando qualcuno muore in mare è molto probabile che le correnti finiscano col portare il cadavere a riva proprio in quel punto. E' esattamente quello che succede con Justo Castelo, 42 anni, pescatore del posto. Uomo taciturno e solitario, con un passato di tossicodipendenza, negli ultimi tempi era apparso insolitamente nervoso e aveva anche smesso di fischiettare, cosa che faceva meccanicamente, senza neanche rendersene conto. Il suo suicidio non sembra qualcosa di impensabile neppure per la sorella. Ma l'ispettore Leo Caldas nota subito un particolare stonato: le fascette che stringono i polsi del morto - espediente usato da chi sceglie di farla finita in mare per non correre il rischio di cambiare idea mettendosi a nuotare - sono state chiuse dalla parte dei mignoli, cosa che da solo non avrebbe potuto fare. A Caldas basta questo per decidere di non archiviare subito l'indagine e cominciare a scavare nella vita dell'uomo, una ricerca che presto lo porterà a un fatto accaduto dieci anni prima, quando Castelo insieme ad altri due pescatori si era salvato dal naufragio del peschereccio su cui lavorava.

Ed eccola la spiaggia degli affogati:


Scritto tre anni dopo "Occhi di acqua", opera prima di Villar che avevo letto il mese scorso, "La spiaggia degli affogati" è il romanzo che decretò il suo successo e in effetti è molto più maturo del precedente.

Un bel giallo dove il protagonista arriva a risolvere le dinamiche del presente soltanto dopo aver ricostruito i fatti del passato, ostacolato da omertà e superstizioni. Ho ritrovato il suo stile pacato, senza la truculenza che mi aveva ricordato "Io uccido" di Faletti, mentre ho di nuovo visto sorridere Camilleri fra le righe.

Indagini alla vecchia maniera anche in questo lungo romanzo (492 pagine), con intrecci ben calibrati e un finale che - pur non essendo sbalorditivo - regala comunque qualche colpo a sorpresa, cosa non facile data la cerchia ristretta di personaggi implicati nel crimine.

Villar anche questa volta prende posizione contro lo scempio causato dall'uomo con l'edilizia selvaggia.

"Era difficile immaginare che un tempo quella superficie fosse ricoperta dalla sabbia, che le dune di Gaifar si estendessero per centinaia e centinaia di metri verso l’interno. Quello era stato il paesaggio per secoli e secoli, fino a che qualcuno l’aveva dichiarato terreno edificabile e le dune, ricoperte dalla colata di cemento delle seconde case, erano state ridotte a un lembo di sabbia talmente stretto che in inverno spariva sommerso dall’alta marea."

A disturbarmi è stato il gran parlare di pesca, ma con un pescatore morto e l'ambientazione in un villaggio di pescatori non poteva essere altrimenti. Fortunatamente Villar ha inserito biasimo verso la razzia dell'uomo sul mare ("C’è poco pesce?" "E come potrebbe essercene? Il mare ha bisogno di tirare il fiato, come noi. Se non glielo lasciamo fare, non può riprodursi."), ma ha anche fatto parlare i suoi personaggi pescatori da pescatori e il suo ispettore come un amante del pesce nel piatto.

"Caldas aprì il sacchetto. C’era una mezza dozzina di branzini. Nelle branchie di alcuni palpitava ancora la vita."

Quanta tristezza in questa frase, quanto egoismo. Un branzino non è una lattuga. Non ci pensate che quella che viene definita freschezza quando si parla di alimenti animali significa che quell'animale è appena morto? E la morte non è forse l'esatto contrario della freschezza? Provate a pensare quanto sia ripugnante l'idea del cannibalismo: davvero vi basta che un essere vivente non abbia l'uso della parola per rendere la sua carne morta commestibile?!?

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