New York, metà giugno 2000. Una protagonista assoluta di cui non verrà mai detto il nome. Di lei si sa soltanto che è nata nell'agosto del 1973, che da circa sei mesi è stata lasciata - o, per meglio dire, messa da parte - da Trevor, un uomo di una decina d'anni più vecchio con cui trascinava una relazione tossica, che ha una laurea in storia dell'arte, che aveva un lavoro da cui si è licenziata, che adora Whoopi Goldberg, che ha un'amica più disagiata di lei, che non ha più i genitori e che, grazie alla loro eredità, può permettersi di mettere in pausa la sua vita per un anno.
Un anno di riposo e, soprattutto, di oblio.
Dopo aver letto "Eileen" tre anni fa e dopo aver recuperato a maggio "McGlue" (primo romanzo dell'autrice tradotto in italiano soltanto l'anno scorso), sono finalmente giunta all'opera (scritta nel 2018) cui deve la fama internazionale.
Un romanzo molto particolare, incensato dalla quasi totalità dei lettori (tanti per convinzione, ma molti per ostentazione, come succede con tutti i titoli "di moda") e detestato da una minoranza.
Il mio giudizio oscilla fra i due estremi. Apprezzo e ammiro le capacità stilistiche della Moshfegh, ma dopo tre esperienze mi è chiaro che a non piacermi sono le storie che racconta, opprimenti e deprimenti. Più invecchio e meno ho voglia di letture grevi, soprattutto se la pesantezza è molesta e fine a sé stessa, non andando al di là della protagonista e delle sue vicissitudini.
O forse la mia interpretazione è condizionata proprio dall'età, da quella maturità che mi porta a sentirmi (e a essere) estranea per target alle vicende raccontate in certi libri (esattamente il motivo per cui dopo "Parlarne tra amici" non ho più avuto il coraggio di leggere altro della Rooney, pur avendo già acquistato i suoi romanzi successivi) e la sinossi ufficiale conferma la mia ipotesi.
Non credo che la protagonista sia rappresentativa della generazione a cui appartiene e non solo perché ben pochi ventiseienni (di qualunque epoca) potrebbero permettersi il lusso di mettere in pausa la propria vita nell'Upper West Side di Manhattan.
Combattere la solitudine e la mancanza di amore (perché alla fin fine il libro è questo) isolandosi e impasticcandosi è un sistema che è meglio relegare nella finzione letteraria. E per la protagonista ci sarebbe voluto un vero aiuto medico, non una dottoressa più sciroccata di lei.
Deludente il finale, quell'ultimo (brevissimo) capitolo da cui mi aspettavo una folgorazione e che invece ho trovato prevedibile (impossibile non far caso alle date di ambientazione e a un precedente accenno a un trasferimento) e anche irrispettoso nei confronti della persona (reale) che viene descritta.
Un anno di riposo e, soprattutto, di oblio.
Psichedelico
Dopo aver letto "Eileen" tre anni fa e dopo aver recuperato a maggio "McGlue" (primo romanzo dell'autrice tradotto in italiano soltanto l'anno scorso), sono finalmente giunta all'opera (scritta nel 2018) cui deve la fama internazionale.
Un romanzo molto particolare, incensato dalla quasi totalità dei lettori (tanti per convinzione, ma molti per ostentazione, come succede con tutti i titoli "di moda") e detestato da una minoranza.
Il mio giudizio oscilla fra i due estremi. Apprezzo e ammiro le capacità stilistiche della Moshfegh, ma dopo tre esperienze mi è chiaro che a non piacermi sono le storie che racconta, opprimenti e deprimenti. Più invecchio e meno ho voglia di letture grevi, soprattutto se la pesantezza è molesta e fine a sé stessa, non andando al di là della protagonista e delle sue vicissitudini.
O forse la mia interpretazione è condizionata proprio dall'età, da quella maturità che mi porta a sentirmi (e a essere) estranea per target alle vicende raccontate in certi libri (esattamente il motivo per cui dopo "Parlarne tra amici" non ho più avuto il coraggio di leggere altro della Rooney, pur avendo già acquistato i suoi romanzi successivi) e la sinossi ufficiale conferma la mia ipotesi.
"Per la sua capacità di graffiare, di accogliere l’urlo di una generazione poco compresa e restituircela con ferocia e tenerezza, ironia e compostezza, il romanzo di Moshfegh si afferma nel panorama letterario internazionale
come un vero classico del futuro, una lente per osservare quel che
succede sotto la pelle del mondo."
Non credo che la protagonista sia rappresentativa della generazione a cui appartiene e non solo perché ben pochi ventiseienni (di qualunque epoca) potrebbero permettersi il lusso di mettere in pausa la propria vita nell'Upper West Side di Manhattan.
Combattere la solitudine e la mancanza di amore (perché alla fin fine il libro è questo) isolandosi e impasticcandosi è un sistema che è meglio relegare nella finzione letteraria. E per la protagonista ci sarebbe voluto un vero aiuto medico, non una dottoressa più sciroccata di lei.
"Potevo immaginare me stessa, il mio passato, la mia psiche, come un camion della spazzatura pieno di rifiuti. Il sonno era il pistone idraulico che sollevava il cassone del camion, pronto a buttare tutto da qualche parte, ma Trevor era incastrato nello sportello, e bloccava il flusso. Temevo che le cose sarebbero rimaste così per sempre."
Deludente il finale, quell'ultimo (brevissimo) capitolo da cui mi aspettavo una folgorazione e che invece ho trovato prevedibile (impossibile non far caso alle date di ambientazione e a un precedente accenno a un trasferimento) e anche irrispettoso nei confronti della persona (reale) che viene descritta.