sabato 14 luglio 2018

"La scomparsa di Stephanie Mailer", Joel Dicker


Orphea, cittadina immaginaria degli Hamptons, il 30 luglio del 1994 viene sconvolta da un quadruplice omicidio: il sindaco Gordon, la moglie e il loro bambino vengono uccisi all'interno della loro casa. Anche Meghan, la giovane commessa della libreria locale, viene freddata sul marciapiede di fronte alla villetta, probabilmente perchè ha visto e riconosciuto l'assassino. L'indagine, assegnata agli agenti Jesse e Derek, porta all'arresto di Ted, novello ristoratore del posto.

Vent'anni dopo, il 23 giugno del 2014, la giornalista Stephanie Mailer affronta Jesse accusandolo di aver incriminato la persona sbagliata e assicurando che presto sarà in grado di dimostrarlo. Ma di Stephanie si perdono le tracce e l'indagine che la riguarda riapre anche il vecchio caso perchè la sera della scomparsa aveva appuntamento con qualcuno che conosceva la vera identità dell'assassino del 94.

L'autore segue quindi lo stesso schema usato per "La verità sul caso Herry Quebert" e per "Il libro dei Baltimore", cioè raccontare le vicende seguendo diversi piani temporali, cosa che mi piace (però sarebbe anche ora che variasse un po'), ma questo libro non mi ha entusiasmato come gli altri due.

Apprezzo lo stile di Dicker proprio per i motivi per cui viene criticato da chi lo accusa di scrivere in modo troppo semplice, di creare personaggi di scarso spessore, ecc, ecc... Sono fattori che, secondo me, rendono i suoi libri molto scorrevoli, nonostante siano dei bei tomi (qui abbiamo 640 pagine e il cartaceo fa abbastanza "impressione", anche perchè è stata usata una carta molto porosa).
E ancora, pur capendo chi lo accusa di allungare troppo il brodo con parti inutili, come raccontare il passato di personaggi marginali di cui ai fini della trama non sarebbe necessario conoscerne i trascorsi, queste ministorie nella storia le trovo piacevoli e non mi distraggono, come invece ho sentito dire da altri.
Ma la cosa che più mi piace è il modo in cui riesce a creare decine e decine di climax, più o meno importanti, che portano chi legge a pensare di aver capito tutto per poi smontare la costruzione nelle pagine immediatamente successive, ripartendo subito con un nuovo crescendo di ansia e aspettativa: ci sono thriller dove tutto ciò non succede neppure una volta!

Quello che proprio non capisco, e che trovo irritante come lettrice e svilente per lui come scrittore, sono le impennate di idiozia che sparge qua e là!
In Quebert c'erano le inutili telefonate fra Marcus e la madre chioccia e nei Baltimore l'invadente vicino di casa, sempre di Marcus, ma qua ha dato il peggio con diversi personaggi, due in particolare assolutamente demenziali che immagino abbiano portato più di una persona ad abbandonare la lettura.
Non solo, ci sono più situazioni surreali e penso che la cosa sia intenzionale, un modo per sdrammatizzare, per non prendersi sul serio, per strappare dei sorrisi anche in una storia gialla, ma farlo con simili fesserie fa solo perdere credibilità al romanzo abbassandone il livello.

Altro fattore fortemente negativo è che questa volta la storia fatica a stare in piedi ed è un peccato perchè l'idea di base era buona, ma l'ha  resa poco verosimile con troppi intrecci, eccessive coincidenze e un passaggio totalmente privo di logica.
Darò sicuramente altre chance a Dicker, sperando che si evolva: se questa fosse la sua opera prima sarei stata meno critica, ma rispetto a Quebert e ai Baltimore lo considero un brusco passo indietro.

Reading Challenge 2018: questo testo risponde al requisito "un libro narrato da almeno quattro punti di vista diversi" (numero 9 indizi difficili)