Stati Uniti, fine anni '90. Nathan (Skip) Zuckerman, affermato scrittore over 60, partecipa per la prima volta alla riunione degli ex studenti, la quarantacinquesima. A sorpresa (perchè sapeva che viveva in Florida) incontra Jerry, il ragazzino che lo stracciava sempre a ping pong e che lui amava frequentare per poter vivere sotto alla luce riflessa dallo Svedese: Seymour Irving Levov, fratello maggiore di Jerry e campione di football, baseball e basket a Newark (New Jersey), dove vivevano.
Nathan lo aveva rivisto poco tempo prima a New York, quando lo Svedese durante una cena gli aveva proposto di scrivere un libro su suo padre, morto l'anno prima. Ma quando Jerry gli dice che anche suo fratello è morto da pochi giorni e che lui è presente al raduno proprio perchè si trovava in zona dopo essere stato al suo funerale, Nathan decide di scrivere un libro non sul padre dello Svedese, ma sullo Svedese: ed ecco "Pastorale americana".
Scritto nel 1997, è il primo romanzo della cosiddetta "trilogia americana" di cui ho già letto "La macchia umana": sciaguratamente, per come amo rispettare la cronologia degli autori, a maggior ragione quando c'è un legame fra le storie raccontate che in questo caso è Nathan Zuckerman. Qui Philip Roth dà al suo alter ego un ruolo che - partendo da protagonista - diventa via via sempre più quello che è, la voce narrante della storia di un altro uomo.
Probabilmente se un autore di minor livello avesse sfruttato lo stesso espediente narrativo (far diventare un libro il raccontare di volerne scrivere uno) in due romanzi scritti a quattro anni di distanza lo avrei criticato, ma quando si scrive come Roth cosa gli si può criticare?
Su una trama semplice, nel senso che può essere riassunta in poche frasi, costruisce non solo la storia di un uomo, soprattutto di un padre, e di tutta la sua famiglia, ma quella di un'intera nazione, i grandi Stati Uniti d'America, capaci però di raggiungere livelli molto più bassi dei tanti (tutti) Paesi a cui si sentono superiori.
Con le sue infinite digressioni (che adoro, al pari del suo disfattismo) Roth ci racconta quello che furono gli anni '70 in America, con la guerra in Vietnam, il Watergate, le lotte per i diritti civili (e gli immigrati, le religioni, purtroppo anche - e dettagliatamente - di come vanno fatti i guanti di capretto!) e grazie al suo genio lo ha fatto attraverso lo Svedese, l'esempio dell'americano perfetto - borghese, perbenista, impeccabile, capace di eccellere in ogni ambito, marito di una reginetta di bellezza e padre di una bambina, poi ragazza, poi giovane donna, non troppo perfetta - che viene travolto... da una bomba.
E lì si accorge che qualche errore lo ha fatto anche lui, un po' come l'America.
Nathan lo aveva rivisto poco tempo prima a New York, quando lo Svedese durante una cena gli aveva proposto di scrivere un libro su suo padre, morto l'anno prima. Ma quando Jerry gli dice che anche suo fratello è morto da pochi giorni e che lui è presente al raduno proprio perchè si trovava in zona dopo essere stato al suo funerale, Nathan decide di scrivere un libro non sul padre dello Svedese, ma sullo Svedese: ed ecco "Pastorale americana".
Scritto nel 1997, è il primo romanzo della cosiddetta "trilogia americana" di cui ho già letto "La macchia umana": sciaguratamente, per come amo rispettare la cronologia degli autori, a maggior ragione quando c'è un legame fra le storie raccontate che in questo caso è Nathan Zuckerman. Qui Philip Roth dà al suo alter ego un ruolo che - partendo da protagonista - diventa via via sempre più quello che è, la voce narrante della storia di un altro uomo.
Probabilmente se un autore di minor livello avesse sfruttato lo stesso espediente narrativo (far diventare un libro il raccontare di volerne scrivere uno) in due romanzi scritti a quattro anni di distanza lo avrei criticato, ma quando si scrive come Roth cosa gli si può criticare?
Su una trama semplice, nel senso che può essere riassunta in poche frasi, costruisce non solo la storia di un uomo, soprattutto di un padre, e di tutta la sua famiglia, ma quella di un'intera nazione, i grandi Stati Uniti d'America, capaci però di raggiungere livelli molto più bassi dei tanti (tutti) Paesi a cui si sentono superiori.
Con le sue infinite digressioni (che adoro, al pari del suo disfattismo) Roth ci racconta quello che furono gli anni '70 in America, con la guerra in Vietnam, il Watergate, le lotte per i diritti civili (e gli immigrati, le religioni, purtroppo anche - e dettagliatamente - di come vanno fatti i guanti di capretto!) e grazie al suo genio lo ha fatto attraverso lo Svedese, l'esempio dell'americano perfetto - borghese, perbenista, impeccabile, capace di eccellere in ogni ambito, marito di una reginetta di bellezza e padre di una bambina, poi ragazza, poi giovane donna, non troppo perfetta - che viene travolto... da una bomba.
E lì si accorge che qualche errore lo ha fatto anche lui, un po' come l'America.
"L'uomo smania sempre più di far qualcosa proprio quando non gli resta più niente da fare"
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Challenge 2021: questo testo risponde alla settima traccia annuale,
"sei libri di sei categorie diverse" (libro di un autore deceduto)