lunedì 14 settembre 2020

"Il mio nome era Dora Suarez", Derek Raymond

Londra, febbraio 1990. Un triplice omicidio sconvolge la notte della capitale: in un appartamento a South Kensington, due donne vengono barbaramente uccise. Betty Carstairs, l’anziana proprietaria, viene trovata con il cranio fracassato dentro alla vecchia pendola, ma la sorte peggiore è toccata alla giovane affittuaria, Dora Suarez, massacrata a colpi di ascia! A distanza di appena un’ora viene ucciso anche Felix Roatta, consigliere municipale corrotto e proprietario del Parallel Club, squallido locale noto per spaccio e prostituzione. La Factory – perennemente a corto di organico – decide di reintegrare nella sezione Delitti Irrisolti un sergente che un anno prima era stato sospeso dal servizio per avere picchiato un ispettore mettendolo a investigare sul “killer della mannaia”. Sarà lui a collegare i due casi grazie a una foto che ritrae Dora Suarez all’interno del locale Parallel Club. 

Avevo inserito questo titolo in wish list l’anno scorso dopo averne letto una bellissima recensione e gli entusiastici commenti alla stessa in quello che fra me e me definisco “il gruppo colto” fra quelli di FB dedicati ai libri a cui sono iscritta. Un gruppo dove la maggior parte delle letture è di livello alto (e poco commerciale) e da cui prendo spunti con timore consapevole di non avere il bagaglio culturale di quei lettori. Il più delle volte, per fortuna, anch’io sono riuscita ad apprezzare i libri consigliati, invece questo è uno di quei casi in cui non sono stata in grado di coglierne i pregi.

Dopo averlo finito ho riletto quella recensione e quello che è stato scritto da altri utenti nei commenti. Che non si tratti di un thriller, come Fanucci ha indicato in copertina, ma di un noir lo avevo capito anch’io, così come anch’io penso che la mancanza di caratterizzazione di alcuni personaggi, e soprattutto del protagonista, sia imputabile al fatto che si tratta del quarto volume di una pentalogia. Una mancanza che mi ha fatto quasi sentire in colpa per tutte le volte in cui ho criticato Linda Castillo per come in ogni romanzo della serie con protagonista Kate Burkholder ripete le vicende passate della stessa: e dico "quasi" perché deve pur esistere una buona via di mezzo, saper spiegare un personaggio anche a chi non ha letto i titoli precedenti senza che chi lo ha fatto debba sentirsi ripetere ogni volta tutto quanto. Alcuni ce la fanno (Gianrico Carofiglio, per esempio).

Qui Raymond dice pochissimo del suo protagonista, a cui non dà neppure un nome: sappiamo solo che ha 45 anni e che in passato è stato colpito da un lutto gravissimo, il peggiore in assoluto, ma l’autore vi accenna in maniera così superficiale da non dar modo all’evento di diventare un lasciapassare per il modo di porsi di questo sergente che attorno al 40% della storia da uomo triste - senza che niente spieghi la metamorfosi - si trasforma in un personaggio spocchioso e arrogante che sembra essere uscito da uno di quei film degli anni ‘70 con Maurizio Merli che piacevano tanto a mia madre.

E non è solo per questo che ho trovato la storia antiquata, anche rispetto all’anno in cui è stata scritta (1990): lo è in generale, nei metodi di indagine (pedinamenti, interrogatori violenti, falsi annunci sui quotidiani, ecc…), nei dialoghi (“Siamo poliziotti, per cui togliti dalle palle e vai a chiamare il tuo capo, se non vuoi un biglietto di seconda classe, solo andata, per dove dico io”) e nella narrazione. 

Non solo antiquata, ma anche sessista, con noi donne relegate ai ruoli di cadaveri, prostitute, segretarie da sbattere o semplici passacarte.

Ma ciò che più di tutto mi trova in disaccordo con chi lo ha tanto apprezzato nel “gruppo colto” sono la crudezza e lo stile senza filtri del romanzo, per loro vere chicche, per me puro e disturbante splatter. E con un assassino necrofago e coprofago mi tengo caro il mio giudizio!

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di annuale "sei libri ambientati in sei capitali diverse"