Genova – Sestri Ponente,
giugno 1961. Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, al termine di una
funzione, riconosce fra i fedeli Vittoria Barabino, la maestra che
nel ‘43 - a poco più di vent’anni – era riuscita a sventare un
attentato nazista salvando la vita a un centinaio di persone. L’uomo,
non rendendosi conto del disagio della donna, elogiandola per la
medaglia al valore militare ricevuta per meriti della Resistenza,
racconta altri dettagli della storia suscitando l’ammirazione dei
presenti. Di tutti tranne uno, qualcuno che all’epoca ha tradito e
che fino ad allora non sapeva nulla del coinvolgimento della maestra
e che ora ha paura…
Bistolfi
non ha all’attivo moltissimi libri e, dopo aver letto i primi due
nell’autunno 2018, mi ero ripromessa di recuperarli tutti
abbastanza in fretta e invece sono già passati due anni prima di
leggere il terzo. Un altro libro garbato: aggettivo ispirato dal
secondo romanzo e che continuo ad usare per descrivere lo stile di
scrittura dell’autore perché lo trovo azzeccatissimo.
Questa
storia ha un prologo, un epilogo e cinque parti centrali in cui i
capitoli si alternano su due piani temporali: le vicende degli ultimi
anni della guerra e quelle dell’estate del ‘61, dove ritroviamo
le tre anziane sorelle de “I garbati maneggi delle signorine Devoto” invecchiate di tre anni, ma sempre ugualmente acute.
Un
libro di 281 pagine che ho impiegato un’eternità a finire, la
bellezza di 13 giorni, perché riuscivo a leggerlo solo alla sera e poco per volta.
Troppi pianti per
leggerlo di giorno prima di essermi struccata gli occhi. Troppa rabbia per leggerne tante pagine di sera e poi poter dormire tranquilla.
Perchè
il titolo completo dell’opera è questo: “storia partigiana di
ordinario eroismo”. Per me non una storia partigiana qualunque, ma
la storia del ramo materno della mia famiglia. Gli stessi episodi che
mi raccontava mio nonno da bambina, le vicende partigiane da lui
vissute in prima persona, proprio le stesse, avvenute al confine fra
Liguria e Piemonte, fra Genova e Alessandria. E quello che ha patito
la mia città dopo l’8 settembre del 1943, in particolare Sestri
Ponente (quartiere dell’autore) e Sampierdarena (il mio), ma anche
Voltri, Cornigliano, Rivarolo…
L’area
industriale di Genova, insomma, quella che i tedeschi per via del
porto e delle industrie minacciavano di far saltare se i partigiani
avessero ostacolato la loro ritirata (e alla fine, come Bistolfi ben
racconta, ci tengo anch’io a sottolineare come Genova fu l’unico
caso in Italia in cui i tedeschi si arresero ai partigiani!).
Mentre
leggevo mi era chiaro che Bistolfi non si era documentato sui testi di storia per raccontare questi fatti e la conferma l’ho avuta leggendo le
note dell’autore: uno dei punti più toccanti del libro riguarda il
rastrellamento di 1488 lavoratori delle fabbriche sestresi realmente
avvenuto il 16 giugno del 1944. I tedeschi imbarcarono quegli uomini
su un treno diretto a Mauthausen: il fratello di mio nonno era su
quel treno e morì nel campo di concentramento austriaco, invece il
padre di Bistolfi fu uno dei tre che riuscì a scappare prima di
varcare il confine.
Un
altro dei tre, spiega l’autore, era il marito di una maestra
partigiana, come nel libro.
La
parte del ‘61, quella ”gialla”, non regge il confronto con
quella degli anni della guerra, ma credo che Bisolfi l’abbia
inventata per raccontare quello che gli stava più a cuore, storie
che non vanno dimenticate, soprattutto a distanza di tanti anni,
quando – per ignoranza o per interesse – c’è chi cerca di
mettere tutti sullo stesso piano, non facendo distinzioni fra chi il
fucile lo ha imbracciato per ferire e conquistare e chi per
difendersi.
"La
differenza fra aggressori e aggrediti, tra vittime e carnefici,
quella deve restare”
Bravo
Bistolfi, hai perfettamente ragione, i morti non sono tutti uguali!
Reading
Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di settembre "un libro con protagonista un maestro o un professore"