Tarquinia (Viterbo), novembre 2010. Un lavoro fuori sede attende Alice Allevi, studentessa al secondo anno di specializzazione in Medicina Legale: deve accompagnare il dottor Anceschi nella Maremma laziale per un caso di interdizione. E' quello che chiedono i figli di Konrad Andras Azais, anziano scrittore ungherese di fama internazionale, spaventati dalla prospettiva di perdere la cospicua eredità paterna. E non ci vorrà molto prima che il caso si trasferisca all'obitorio...
Secondo romanzo della serie "L'allieva". Una lettura che ho portato avanti con maggiore serenità rispetto a quella precedente, probabilmente perchè sapevo cosa aspettarmi, ma anche perchè Alice Allevi qui viene presentata in versione leggermente più matura rispetto all'esordio (anche se ancora geograficamente e politicamente ignorante).
Sono passati solo pochi mesi dal caso Giulia Valenti e, di nuovo, Alice si ritrova ad avere a che fare con una vittima che aveva incontrato proprio poco tempo prima che morisse. Questo non va bene e ci sono altri meccanismi che si ripetono nelle due storie: di nuovo una vicenda familiare, di nuovo protagonisti dei consanguinei, di nuovo rapporti non proprio consoni fra fratellastri...
La Gazzola fin qui non ha dato prova di grande fantasia, non solo nella trama, ma anche nella scrittura vera e propria. Verso la fine usa la frase "Le cose sono andate così" e da lì racconta l'evolversi dei fatti: questo lo posso fare io quando racconto un libro a mio marito, ma un autore dovrebbe sforzarsi di costruire una narrazione, non buttare giù una lista di episodi (tizio ha scoperto questo e quindi ha fatto quello, allora caio ha pensato e ha fatto... ecc, ecc...).
E, volendo sfruttare sfacciatamente certe coincidenze (come incontrare per caso uno dei personaggi al supermercato) per far proseguire la storia, avrebbe dovuto ambientare la serie in un piccolo centro e non nell'immensa Roma.
Devo anche sottolineare che aver letto il suo libro contemporaneamente a Philip Roth - se da un lato mi è stato molto utile per allentare l'inquietudine che mi trasmetteva "Nemesi" - dall'altro l'accostamento è stato impietoso ed eccessivo per la "povera" Gazzola (lo sarebbe stato pressochè per chiunque), che però dovrebbe imparare da Roth (tra le tante cose) che solo se nell'azione è coinvolto un bambino si può usare (e torno a dover dire: di nuovo) il termine "manina" (da "Nemesi", giustappunto: "Lei lo aveva stupito porgengogli la piccola mano da stringere").
E sono solo parzialmente d'accordo con lei quando scrive:
"Ogni libro ha diritto a una chance. E non esistono libri belli o brutti, perchè non esiste un parametro vero per giudicare un libro. Esiste solo la soggettività"
Io, invece, sono dell'idea che i libri oggettivamente belli esistano (ma che possano non piacere) e che esistano anche quelli oggettivamente brutti (ma che possano piacere).
I libri della Gazzola non sono oggettivamente belli, ma neppure brutti: si lasciano leggere e va bene così.