martedì 3 ottobre 2023

"La ragazza del Kyushu", Seicho Matsumoto



Tokyo, un giorno di maggio all'inizio degli anni Sessanta. Kiriko Yanagida ha vent'anni e ha investito i suoi pochi risparmi per arrivare dal Kyūshū allo studio di Ōtsuka. Lo ha fatto per suo fratello, in carcere con l'accusa di aver rapinato e ucciso un'anziana usuraia della loro città. Kiriko sa di non potersi permettere la parcella del più famoso avvocato della capitale, ma spera di riuscire a interessarlo al caso tanto da spingerlo ad accettare di difendere Masao pro bono.
Invece tutto quello che riesce a ottenere da Ōtsuka è un netto rifiuto: l'avvocato ha fretta, vuole raggiungere la sua giovane amante sui campi da golf e presta poca attenzione al racconto di Kiriko. Non cambia idea neppure quando lei gli ricorda che per quel reato è prevista la pena di morte. E non ci penserà più fino a quando, sei mesi dopo, riceverà la cartolina con cui la ragazza lo informa che il fratello è stato condannato e che non c'era stato tempo per ricorrere in appello perché nel frattempo era morto in carcere.
A quel punto Ōtsuka si fa mandare i fascicoli dell'istruttoria e del processo dall'avvocato d'ufficio: brutta cosa i sensi di colpa...

Pubblicato nel 1961, ricalca fedelmente lo stile e le atmosfere dei tre precedenti titoli di Matsumoto che ho già letto e apprezzato ("Tokyo Express", "Come sabbia tra le dita" e "Un posto tranquillo"): gialli/noir che basano la risoluzione dei casi sulle elucubrazioni del personaggio protagonista e caratterizzati da una buona dose di lentezza e di ripetitività, fattori che hanno su di me un effetto piacevolmente rilassante.

"La ragazza del Kyushu" - il più ripetitivo fra i quattro romanzi (penso che molti, a cominciare da mia sorella, lo troverebbero esasperante) - è un qualcosa di diverso: non ci sono investigatori professionisti, il lavoro svolto da quelli che si sono occupati dell'omicidio dell'usuraia lo scopriamo mentre Ōtsuka legge gli atti e fa le sue considerazioni, ma la storia centrale è un'altra, quella che Adelphi nella sinossi definisce una "vendetta esemplare" e che rappresenta il motivo per cui questo libro non mi è piaciuto per niente: per quelli che sono i miei principi, non c'è nulla da ammirare nell'epilogo della vicenda.
Datazione del libro e diversità di cultura non bastano per considerare accettabile una conclusione simile.

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