Oakland (Stati Uniti), 2008. Caitlin Doughty ha 23 anni e una laurea in Storia medievale quando riesce a ottenere il posto dei suoi sogni: addetta alla cremazione nell'impresa di pompe funebri a conduzione familiare Westwind Cremation & Burial. Vi lavorerà per quattro anni, trasferendosi poi a Los Angeles per frequentare una prestigiosa scuola di tanatoprassi. In questo particolare memoir racconta come il pensiero della morte l'abbia incuriosita fin da bambina, concentrandosi poi sugli anni del crematorio che l'hanno portata nel 2011 a fondare The Order of the Good Death, un'organizzazione che cerca di aiutare le persone ad accettare la morte e che sostiene la sepoltura naturale.
Un libro senza censure ("Chi non desidera leggere una descrizione realistica della morte e dei cadaveri, è incappato nel libro sbagliato") decisamente da leggere se si è interessati all'argomento.
Pochi giorni dopo aver preso il diploma, avevo inviato il mio curriculum a tutte le imprese funebri di Genova: come l'autrice, ero attratta dalla raffigurazione della morte in epoca Medievale (fra ossari, scheletri danzanti, tombe con soggetti macabri e corpi putrefatti accumulati dentro ai muri delle chiese) ed ero affascinata dalle scuole americane di tanatoprassi di cui avevo scoperto l'esistenza grazie ai medical thriller che all'epoca divoravo, ma mi sarei accontentata di essere assunta anche solo come segretaria. Anzi, a distanza di tanti anni dubito che mi sarebbe davvero piaciuto occuparmi del trattamento estetico delle salme, ma è un mondo che non ha mai smesso di affascinarmi.
L'autrice racconta l'episodio che da bambina le aveva fatto capire che siamo tutti destinati a morire, scatenando in lei un mix di terrore e di curiosità morbosa. Il mio ricordo risale ai miei sette anni, quando era morta la mamma di una mia compagna di classe e a mio nonno era capitata l'immancabile domanda che fanno i bambini in questi casi: "Dove vanno le persone quando muoiono?" e lui - da meraviglioso ateo qual era - mi aveva semplicemente portata al cimitero, dandomi una spiegazione logica, inconfutabile e probabilmente risparmiandomi quell'ossessione per morte e malattie che, invece, ha tormentato la Doughty.
La sinossi del libro è parzialmente fuorviante: "Seguiamo le tragicomiche avventure della giovane apprendista e dei suoi esperti colleghi alle prese con strani rituali funebri, assurde richieste dei parenti e i tanti segreti dell'industria funeraria". Messa così sembra una lettura unicamente divertente, invece - se è vero che l'autrice è dotata di un bell'umorismo macabro e che anche in questo ambito non mancano le assurdità - "Fumo negli occhi" è un libro serio, non solo racconta come funziona l'impresa funebre americana (che sfocia nella loro tipica esagerazione anche in questo settore), ma descrive i rituali funebri nelle varie epoche e culture, dalle pire di legno degli antichi romani al kotswage (la raccolta delle ossa) praticato ancora oggi in Giappone; confronta le tecniche di imbalsamazione degli antichi egizi con quella usata attualmente dagli americani (l'imbalsamazione è il trattamento più venduto nel settore funerario del Nord America ed è solo business, non ha nulla a che vedere con sacri rituali); parla di tradizioni che per noi sono barbarie, come il cannibalismo funebre del popolo Wari; di come ancora oggi alcuni monaci tibetani, non potendo seppellire i morti a causa della conformità del terreno, seguano un trattamento e una vera e propria ricetta per trasformare la carne in cibo per gli avvoltoi ("un metodo altruistico per disfarsi di un cadavere, perchè la sua carne andrà a nutrire altri animali": non sarebbe male farlo con tutti gli onnivori del mondo, un piccolo risarcimento per tutti gli animali di cui si sono cibati quando erano in vita...).
E se con l'eau de décomposition riesce a strappare un sorriso descrivendo le note olfattive della decomposizione, la Doughty per lo più spinge a serie riflessioni su come la morte sia la grande livellatrice, su come smettiamo di essere qualcuno (una persona) e diventiamo qualcosa (un corpo) appena moriamo, su come siamo tutti dei futuri cadaveri, su come iniziamo a morire dal momento in cui nasciamo o semplicemente confrontando un bambino vissuto per tre ore e sei minuti con una donna morta a 102 anni.
Però alla fine il tema portante diventa quello dell'accettazione della morte e non mi sono trovata d'accordo con le considerazioni dell'autrice, è una questione non solo strettamente individuale, ma in continuo mutamento anche riguardo a ogni singola persona.
Ma soprattutto mi hanno lasciata a dir poco perplessa i suoi ragionamenti da angelo della morte per la risoluzione del problema della sovrappopolazione, perchè se è sicuramente vero che la scienza non ha allungato la vita, ma ha prolungato al vecchiaia, credo che magari sarebbe meglio puntare su un serio e universale controllo delle nascite anzichè convincere gli anziani di quanto sia bello morire.