Milano, 5 aprile 2014. Julia ha 36 anni ed è finalmente riuscita a coronare il suo sogno: il mondo della moda ha riconosciuto il suo talento di stilista e per lei e il suo piccolo marchio di abbigliamento tutto sta per cambiare. Ma sarà, invece, un uomo a stravolgere la sua vita: Vincent, che l'ha seguita in Italia proprio per poterle parlare. Per Julia un estraneo, un anziano signore con cui non ha mai avuto a che fare, ma che dice di essere suo nonno, di essere il padre di suo padre Vincenzo, quel padre che Julia ha visto solo una volta nella vita, quando aveva 8 anni, un padre italiano, mentre Vincent è tedesco, come lei... E le sta anche dicendo che Vincenzo non è morto come le aveva detto sua madre, ma che è vivo e abita in Italia. Julia d'istinto vorrebbe credere a sua madre, non all'estraneo che ha davanti, ma lui ha una foto scattata sessant'anni prima che ritrae una giovane donna che assomiglia troppo a Julia per non essere una parente.
Ormai ho preso l'abitudine di scrivere quando e perchè un titolo è entrato nella mia wish list, ma di questo proprio non lo ricordo, come non ricordavo nulla della trama quando a fine gennaio l'ho iniziato (come scrivo ogni volta in cui serve spiegarlo, non rileggo le sinossi prima di iniziare un libro perchè mi è capitato di trovarci odiosi spoiler). Ricordavo che riguardava la Germania e l'Italia ed ero convinta che fosse ambientato durante la seconda guerra mondiale, invece no.
Il libro è diviso in tre parti e 77 capitoli, per un totale di 543 pagine che abbracciano sessant'anni anni e tre generazioni. Inizia nel 2014 e, con incessanti flashback (gestiti abbastanza bene) torna indietro fino al 1954, quindi alla guerra si accenna solo di sfuggita.
Una saga familiare in piena regola, una lettura piacevole, ma non memorabile, che senza dubbio ai miei occhi viene penalizzata dal confronto che non posso impedirmi di fare con la tetralogia de "L'amica geniale".
Una partita che la Ferrante vince a mani basse: Speck non è altrettanto bravo a gestire i salti temporali, non riesce ad essere profondo come lei, filosofeggia, ricorre a metafore banali ("La vita è un circo e noi siamo gli artisti che camminano sulla fune. Senza rete"), ma soprattutto non sa rendere parte integrante della storia i personaggi e gli eventi storici reali a cui spesso fa riferimento. Con lui sono solo marginali, li usa per scandire il tempo che passa e - anche quando un fatto realmente accaduto diventa determinante nella vita di un suo personaggio - non riesce ad andare in profondità, a dare una visione incisiva dei fatti. I contesti sono importanti, soprattutto quando toccano politica e tematiche sociali, ma Speck li gestisce in maniera troppo superficiale.
Nel suo libro l'emigrazione degli italiani dal sud al nord (sia verso il nostro settentrione che in Germania) ha un ruolo fondamentale e - se a tratti presenta interessanti accuse contro il divario sociale ("Giovanni non potè fare a meno di chiedersi perchè in questa società le cose migliori fossero sempre destinate a pochi, e non era sempre detto che quei pochi fossero anche i migliori") - il più delle volte cade negli stereotipi, sull'Italia e sugli italiani, presentando milanesi e siciliani con una disparità che solo l'Umberto Bossi dei tempi "La Lega Nord ce l'ha duro" e i fenomeni come lui potrebbero condividere, ma ponendo sempre i tedeschi uber alles:
"Ancora una volta, Giovanni era sbalordito da quel popolo, che si era risollevato dalla devastazione della guerra armato solo di disciplina e abilità tecniche, giungendo a un livello quasi inimmaginabile"
Caro Speck, "solo" neanche per sogno, ti sei dimenticato di tutto quello che ONU, USA ecc, hanno fatto nel dopoguerra per risollevare la tua Germania. Senza di loro non vi sarebbero bastate tutta la disciplina e l'abilità dell'universo per togliervi le pezze dal culo, diciamolo, eh...
Avrei gradito una maggiore onestà intellettuale, ma - come dicevo - il libro è carino, piacevole, voglio senz'altro recuperare la miniserie omonima disponibile su Rai Play e forse anche leggere l'altro romanzo dell'autore tradotto in italiano ("Piccola Sicilia"), ma resta il fatto che se è Elena Ferrante a evidenziare aspetti negativi della sua Napoli me ne dispiaccio, ma lo accetto, mentre la mia tolleranza si riduce quando un autore tedesco fa subire uno scippo alla sua protagonista appena esce da Napoli Centrale.
E mi offendo letteralmente di fronte ad affermazioni come:
"In assenza degli interessati, anche gli italiani sapevano essere diretti"
Tutto sommato non so quanto mi convenga leggere anche l'altro suo romanzo.