giovedì 13 agosto 2020

"Le signore in nero", Madeleine St John



Sidney, dicembre 1959. Patty Williams ha 31 anni e da dieci ha anche un marito, Frank; quello che non ha – e che tanto vorrebbe – è un figlio. Fay Baines ha 28 anni e vorrebbe sia un marito che dei figli, ma non ha né l’uno né gli altri. Magda Szombathelyi è sulla quarantina, ha un marito e una vita glamour che non necessita di figli. Tre donne molto diverse tra loro che hanno in comune il luogo di lavoro: i grandi magazzini Goode’s. Reparto abiti da cocktail le prime due, modelli esclusivi per la terza.
E poi, in previsione del Natale e dei successivi saldi, viene assunta come assistente commessa (temporanea) anche Lesley Miles. Fresca di diploma e ancora giovane per pensare a marito e figli, sa bene cosa vuole: innanzi tutto un nome diverso da quello ambiguo che ha, ad esempio Lisa, così inequivocabilmente femminile. E poi poter proseguire gli studi andando all’università. Serviranno voti eccellenti per poter accedere alla borsa di studio e, soprattutto, per convincere il padre a darle il permesso di continuare a studiare anche se è una femmina…

Il libro è preceduto da un’approfondita prefazione di Helena Janeczek che sarebbe meglio leggere alla fine perché - riportando interi passaggi del libro - per i miei gusti spoilera un po’ troppo, ma contemporaneamente fornisce un’interessante biografia dell’autrice che aiuta nella comprensione del testo. Trattandosi, come dice la Janeczek, di una commedia brillante (e io aggiungo: molto, molto carina, davvero una lettura piacevole e rilassante) teoricamente non dovrebbe esserci molto da interpretare: abbiamo queste quattro figure femminili di cui seguiamo il presente per circa sei settimane scoprendone anche il passato e i sogni per il futuro. Quattro personaggi molto diversi tra loro e molto ben delineati dall’autrice.

Il bisogno di interpretazione in me nasce dal non aver ritrovato nel libro quel femminismo che, stando a quanto scritto nella sinossi, sarebbe il fil-rouge comune a tutti quelli scritti dalla St John. Vale a dire questo romanzo più quelli della trilogia Notting Hill, di cui per ora è stato tradotto in italiano soltanto il primo e che leggerò senz’altro.

"Le signore in nero” descrive gli anni ‘50 australiani del tutto simili a quelli europei: gli studi per la maggior parte delle donne si interrompevano precocemente. e l’esperienza lavorativa successiva era vista come una parentesi in attesa di trovare marito, parentesi che si sarebbe chiusa con l’inizio della prima gravidanza. Non erano scelte, non erano nemmeno imposizioni, era così per tutte, è stato così anche per mia madre. Se poi a qualcuna il destino negava il matrimonio e l’arrivo dei figli, bè, si trattava di situazioni innaturali da compatire.

E’ così per Patty, è così per Fay. Se Magda rappresenta la donna emancipata che non sente il bisogno di avere figli, allora non lo è per me: niente del suo personaggio esprime questo, anzi, la vediamo molto concentrata nel ruolo di “accoppiatrice” di amici per far sì che quelli involontariamente single possano accasarsi e solerte nel migliorare l’aspetto della dimessa Lesley-Lisa, in modo che anch’essa possa conquistare il cuore di un ragazzo.
E lei, Lesley-Lisa, che ha ben chiaro il suo obiettivo, quello di continuare a studiare – cosa che potrebbe essere un esempio di emancipazione femminile – in realtà non manifesta mai un desiderio di indipendenza né rivendica la parità di diritti.

E se è corretto non trovare un femminismo conclamato in una storia ambientata sul finire degli anni ‘50, quando la lotta delle donne non aveva ancora raggiunto i livelli del decennio successivo, mi sarei aspettata di trovare ben altro in un libro che comunque è stato scritto nel 1993. Forse quel fil-rouge riguarda soprattutto la trilogia?

Quello che, invece, secondo me emerge dal libro è l’ostilità dell’autrice nei confronti della sua natia Australia (che poi finì col ripudiare) e degli australiani. Leggendo i punti salienti della sua biografia, ben riportati nella prefazione, non c’è da stupirsi che andasse fiera delle sue origini europee (la madre era francese), ma dal modo in cui descrive le differenze fra gli immigrati dall’Europa dopo la seconda guerra mondiale e gli australiani (cioè quelli che lo avevano fatto prima) forse ha dimenticato che il nuovissimo continente già alla fine del settecento era stato usato dall’Inghilterra per liberarsi degli ergastolani più pericolosi e anche in seguito, per un lunghissimo periodo, dall’Europa non era certo sbarcato il fior fiore della società, Italia compresa, a cominciare da mio cugino Michele.


Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia vagabonda di agosto "un libro ambientato in Australia"