domenica 16 agosto 2020

"Cecità", José Saramago

In un giorno non precisato di un anno non precisato in una città non precisata di una nazione non precisata, un uomo – di cui non ci verrà mai detto il nome – è fermo al semaforo rosso a bordo della sua auto. Quando scatta il verde le macchine ai lati della sua si muovono, quelle incolonnate dietro di lui no: l’uomo ha perso la vista, non può ripartire.
Sarà lui il paziente zero di quell’epidemia che verrà definita “mal bianco”, una cecità che non fa “vedere” tutto nero, ma che cala un sipario biancastro davanti agli occhi. Una cecità inspiegabile e inspiegabilmente contagiosa. Il paziente zero la trasmetterà all’uomo che lo aiuterà riaccompagnandolo a casa, a sua moglie, all’oculista da cui lei lo porterà, alla segretaria di quest’ultimo, a tutti i pazienti in sala d’attesa e tutti quanti contageranno le persone con cui avranno contatti. Il Governo spaventato rinchiuderà i primi nuovi ciechi in un ex manicomio mettendo a guardia l’esercito. E mentre all’interno la situazione diventerà via via sempre più destabilizzante, all’esterno il mal bianco finirà per colpire tutti. Eccetto la moglie dell’oculista.

Da anni mi riprometto di leggere “Il racconto dell’ancella” senza poi farlo perché il distopico mi disturba, sia nei libri che sullo schermo. Cedere a “Cecità” proprio nell’anno del Covid non è stata una scelta particolarmente felice. Per fortuna - nonostante la tragedia dei lutti, le difficoltà economiche di molti e il disagio generale - il mondo reale non si è fermato come quello immaginato da Saramago, ma l’idea del rischio di contagio con relative conseguenze è sufficiente a far nascere il pensiero che forse sarebbe stato meglio leggere frivolezze.

Nel caso di “Cecità” non si abusa del termine parlando di capolavoro letterario, non c’è da stupirsi se tre anni dopo averlo pubblicato è stato assegnato il Nobel all’autore.

Uno stile unico, a cominciare dalla scelta di non collocare la storia né in un luogo né in un tempo definiti. Ancora più particolare quella di non dare un nome a nessuno dei protagonisti, che impariamo a conoscere e a distinguere solo per un fattore che li contraddistingue, che sia l’occupazione (come “il dottore”), lo stato civile (“la moglie del dottore”), qualcosa di fisico (“il ragazzo strabico”) o un semplice oggetto (“la ragazza dagli occhiali scuri”). A volte mi capita di fare confusione con i personaggi minori, specialmente se hanno nomi stranieri, e di dover quindi tornare indietro per ricordare chi sono John o Jack. Con “Cecità” non mi è mai successo: Saramago delinea ogni suo innominato in modo nitido e preciso, personalizzando ognuno di loro senza avere neppure il bisogno di ricorrere a grandi descrizioni.

Un livello altissimo che in ogni frase riesce a trasmettere il dramma vissuto da queste persone, in particolare quello dell’unica che ha mantenuto la vista, quella a cui in principio si pensa come all’unica fortunata, per poi rendersi conto che forse è lei la più sfortunata di tutti. Perchè se senti urlare un disperato, se mangi del cibo marcio, se tocchi degli escrementi o se senti l’odore di un corpo in putrefazione senza vedere nulla di tutto ciò è terrificante, ma se queste cose le senti, le assapori, le tocchi e le fiuti guardandole è senz’altro ancora peggio.

E la vista - senza voler sminuire l’importanza degli altri quattro sensi – è quello più importante perché ci dà l‘indipendenza: un mondo popolato di sordi troverebbe senz’altro il modo per funzionare lo stesso, ma un mondo di ciechi si ferma, marcisce e muore.

E ovviamente una situazione così estrema tira fuori il meglio, ma soprattutto il peggio dalle persone: in un mondo dove non c’è modo di ritrovare le persone care – perché perderle di vista qui ha un significato letterale – si formano nuovi nuclei, persone in partenza accomunate dal caso che li porta ad essere fisicamente vicine in un dato momento, ma che poi restano accanto a quelle con cui sentono di avere un’affinità d’animo. E ai piccoli gruppi formati dagli altruisti mischiati ai bisognosi, si contrappongono i gruppi, ben più numerosi, di quelli che anche in una situazione tanto disperata mirano subito al potere, che ottengono col sopruso e la violenza.

Un libro che inquieta e che fa riflettere. E la mia conclusione è netta: non serve uno scenario apocalittico per conoscere le miserie dell’animo umano. Basta un semplice “ma”: “Non sono razzista, ma...”...

Eh già, ma...

Crediamo davvero di poterci considerare civili e civilizzati solo perché ci laviamo (e perché abbiamo la fortuna di poterlo fare)?

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di agosto "un libro con un disegno in copertina"