
Maurizio
ha anche sposato la figlia di Giorgio, che per i miei primi ventotto anni
di vita ha abitato nell’appartamento sotto al mio. Anche Leyla ha
scritto un libro, che ho: aspettavo il momento giusto per leggerli a
ruota e inserirli nella traccia cascata collegandoli, appunto, come
moglie e marito, ma poi questo mese è arrivata la traccia puzzle e
non ho resistito alla tentazione di inserire la copertina del libro
in una delle decine di maglie della Samp che ho in casa:
Della foto sono davvero soddisfatta, del libro un po’ meno. Lo stile è davvero semplice, Maurizio scrive (e parla) molto meglio di così, ma questo è uno di quei libri destinati a essere comprati e letti anche da chi normalmente non lo fa e, soprattutto, si rivolge a bambini, ragazzi, adulti e anziani. Insomma, sapendo come scrive credo che qui sia stato costretto ad abbassare il livello.
Il libro racconta qualcosa di venti fra giocatori, allenatori, presidenti e addetti ai lavori, che hanno avuto a che fare con la Sampdoria grosso modo negli ultimi 35-40 anni. Essendo breve, va da sé che a ognuno vengono dedicate poche pagine. Una scelta che non condivido: scrivere sette pagine su César Luis Menotti, che allenò (malamente) la squadra solo per pochi mesi nel 1997, e tre su Roberto Mancini, che ha fatto la nostra storia e con cui il legame è indissolubile, è un’assurdità.
Ha dato troppo poco spazio anche a Paolo Mantovani e a Vujadin Boskov, e poi è inconcepibile che manchi del tutto un nome, quello di Gianluca Vialli!! Io avrei fatto un libro solo su loro quattro, gli anni della Samp d’oro hanno coinciso con gli anni della mia giovinezza, quando abbiamo vinto lo scudetto avevo 21 anni: vinto, visto, vissuto. E goduto al massimo, sono stata fra quelli più fortunati.
Pur non avendo trovato nel libro aneddoti che già non conoscessi, è stato bello leggere riferimenti a nomi noti a cui non pensavo più da anni, dalla Pinuccia – la storica segretaria personale di Paolo Mantovani – al mitico ingegner Sinesi, solo “ing” per noi del tifo organizzato.
Tolti i protagonisti di quegli anni fantastici, c’è solo una persona che ricordo volentieri e con affetto: Walter Novellino. Di tutti gli altri, da Ventura a Spalletti, da Mazzarri a Giampaolo, non ho né bei ricordi né buone opinioni, spesso condivise anche da Michieli, solo che se lui – per educazione e professione – ci tiene sempre a specificare che i giudizi negativi si riferiscono alle capacità professionali e non alle persone, io – che non sono altrettanto educata e che non mangio grazie al calcio – non mi faccio problemi a dire che alcuni di loro per presunzione e arroganza erano/sono delle autentiche rumente.
Meglio, invece, che non metta nero su bianco il mio pensiero sull’attuale presidente e su chi lo ha preceduto regalando la mia squadra a un simile figuro.
Preferisco chiudere riportando l’aneddoto che dà il titolo al libro.
La Samp ha vinto il suo scudetto nella stagione 1990-91. La vittoria matematica arrivò il 19 maggio, con una giornata di anticipo, ma capimmo che era fatta due domeniche prima, quando il 5 maggio battemmo 2-0 a Milano l’Inter, la diretta concorrente.
Boskov quella sera era ospite alla Domenica sportiva, avrebbe potuto fermarsi a Milano, chiunque lo avrebbe fatto. Lui no, tornò a Genova col pullman della squadra per tornare subito a Milano a bordo di una macchina della Rai. Perchè "l'allenatore torna sempre con la sua squadra"
Questo era Vujadin Boskov, questa era la Sampdoria. Un qualcosa di unico e irripetibile, che solo noi abbiamo vissuto e che tutti gli altri possono solo provare a immaginare.
E invidiare.
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di ottobre "creare un incastro fra la copertina e una foto"
Budapest, 31 luglio 1919.
E’ un
grande giorno per Kornél Vizy: con la caduta della Repubblica dei
consigli d’Ungheria, nel Paese viene
proclamata la monarchia e lui potrà tornare a rivestire il ruolo di
spicco che gli compete nel panorama politico nazionale
Invece
per Angéla, la moglie,
i tormenti sembrano non finire mai: come tutte le signore della buona
borghesia non riesce
a trovare una domestica solerte, silenziosa, degna
della sua fiducia…
In vent’anni di matrimonio se ne sono avvicendate tantissime, una
ha voluto andarsene dopo appena un paio d’ore e mai nessuna è
rimasta per più di sei mesi. Questo
fino
all’arrivo di Anna, una ragazza campagnola di diciannove anni,
capace nel suo lavoro e consapevole di quale sia il suo ruolo. Ma un
giorno…
Era
stato un azzardo non da poco quello di inserire nella mia wish list
un classico ungherese: non
amo i classici e politicamente non amo l’Ungheria.
Lo avevo fatto
perché – uscendo dalla mia comfort zone sia per genere che per
nazionalità – sapevo che prima o poi mi sarebbe tornato utile per
la Reading Challenge, come in effetti è successo, ma soprattutto
perché ne avevo letto una splendida recensione in cui veniva
definito un thriller. Cosa che, invece, non è: viene compiuto un
crimine ed è anche piuttosto sorprendente, ma
di certo l’autore non lo ha partorito né come thriller né come
giallo, tanto che non si prende neppure il disturbo di dare una
spiegazione per l’accaduto.
Se prima di leggere il libro al posto di quella recensione avessi letto la postfazione di Antonella Cilento, dove Kosztolanyi viene – come dice lei - “apparentato” a Dostoevskij, Maupassant e Bulgakov, avrei capito subito che non era il caso di inserire “Anna Edes” fra i libri da leggere e lo avrei capito anche leggendo la breve descrizione su Wikipedia, dove si dice che “il suo stile fu principalmente parnassiano e crepuscolare, comprendente elementi allusivi e sfumati, angoscia esistenziale e focalizzazione dell’individuo": autori e caratteristiche troppo distanti da ciò che apprezzo e al di fuori della mia preparazione, anche se non ho riscontrato difficoltà nella lettura grazie alla scrittura fluida e abbastanza attuale.
E di sicuro ho capito la denuncia sociale, il problema delle disuguaglianze lo colgo anche quando non vengono trattate intenzionalmente dall’autore, figuriamoci quando sono la base della storia, come in questo caso.
Perchè la Edes e i Vizy rappresentano i due opposti: la serva e i padroni. Entrambi incapaci di riuscire anche solo a immaginare una realtà diversa da quella stabilita dal proprio ruolo. Una denuncia datata 1926 e per questo ben più importante (purtroppo affatto anacronistica perché in edicola mi capita spesso di sentire le “signore bene” darsi/chiedere consigli sulle badanti valutando ucraine, venezuelane, romene, ecc, parlando di loro come di oggetti e cadendo su generalizzazioni dettate da quel tipo di ignoranza che l’agio economico regala a piene mani), ma il nobile fine non rende meno innegabile il fatto che un libro dove l’argomento principale sono i pregi e i difetti delle cameriere non è uno di quelli che non vedo l’ora di riprendere in mano.
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di annuale "sei libri ambientati in sei capitali diverse"
Londra, luglio 1945. La guerra che aveva fatto riunire la grande famiglia dei Cazalet a Home Place, nel Sussex, finendo li porta inevitabilmente ad allontanarsi. Ognuno torna, a volte forzatamente, alla vita di prima rendendo presto evidente che troppe cose sono cambiate. I singoli gruppi familiari non sono più quelli dell’estate del ‘37: ai naturali cambiamenti dovuti a nascite e morti, crescite e invecchiamenti, si aggiungono trasferimenti e ritorni in patria, matrimoni e divorzi. Tanti legami sono cambiati, soprattutto all’interno delle coppie.
669 pagine che fanno del quarto volume il più lungo della serie abbracciando due anni, dal luglio ‘45 al luglio ‘47. Anni fondamentali per il mondo intero, in particolare quel 1947 che a scuola non viene mai studiato come si dovrebbe, un’assurdità perché è l’anno in cui è iniziato il nostro presente. Anche la Howard gli dedica poca attenzione mettendo velatamente a confronto i difficili anni post bellici vissuti dall’Europa (e come sempre non mancano interessanti riflessioni sulle disuguaglianze sociali) con la ricchezza e l’abbondanza degli Stati Uniti e limitando i cenni storici alla caduta dell’impero anglo-indiano e ai cambiamenti politici della sua nazione.
Anni importanti anche per i Cazalet, delle quattro è probabilmente la puntata in cui accadono più cose e nei capitoli intitolati “Gli altri” si succedono tanti nomi e tante storie. L’autrice continua a costruire dettagliatamente la vita di ogni personaggio, importante o meno che sia, andando dove occorre a ritroso e raccontando gli eventi delle vite di ognuno.
Questa volta, poi, prima con Christopher - che rivede la famiglia dopo tre anni - e poi con Diane – che incontra tutti per la prima volta dopo averli a lungo conosciuti solo di nome – la Howard rivede i vari personaggi e fornisce due bellissime panoramiche che portano chi legge ad avere la sensazione di vederli dal di fuori, cosa che fa capire quanto con il suo stile descrittivo sia riuscita a far entrare il lettore dentro alla famiglia.
Per questo motivo inizio l’ultimo libro della saga consapevole di quanto i Cazalet mi mancheranno dopo.
"Non so perchè Genova fosse finita nel programma di viaggio. Erano gli anni Novanta, mia madre aveva i soldi per il suo primo viaggio in Europa e mi invitò ad andare con lei. Le imposi alcune destinazioni, ma Genova nella mia lista non c'era"
Inizia così questo libro indubbiamente particolare: una specie di guida dei luoghi di sepoltura che la giornalista argentina ha visitato in giro per il mondo. Comincia proprio dalla mia città e il motivo è semplice: "Il mio amore per i cimiteri nacque a Staglieno".
Non mi stupisco. Il Cimitero Monumentale di Staglieno è un vero e proprio museo a cielo aperto, in uso dal 1851, famoso in tutto il mondo.
"A quei tempi non ero ancora un'esperta di cimiteri, ma conoscevo Staglieno: perchè citato da Mark Twain, perchè una tomba è sulla copertina di un disco, perchè c'è sepolta la vedova di Oscar Wilde..."
Con il massimo rispetto per Constance Lloyd, ci sono sepolte persone a me più care: nonno e bisnonno paterni, alcuni amici tutti morti troppo presto, e poi Fabrizio De Andrè, Fernanda Pivano, Gilberto Govi...
Ma le vere protagoniste di Staglieno sono le tombe con le loro sculture e la Ernanez ne cita alcune.
L'angelo di Monteverde:
Ma quello che mi è mancato nel libro sono state le fotografie: ci sarebbero state proprio bene, e per questo ho voluto aggiungerle nel mio blog.
Dopo Genova, ci porta in Argentina, a Teevelin, e ci racconta della colonia gallese che si insediò in Patagonia, a Chubut, nel 1865 e del cavallo Malacara, morto a 31 anni nel 1909.
In Messico, dove il giorno dei morti è una festa gioiosa, con infinite rappresentazioni della morte, tutte allegre, c'è il piccolissimo panteon (cimitero) de Belén (adesso solo museo), ricco di antiche tombe e altrettante storie raccontate dalle guide, fra cui quella del piccolo Ignacio Altamirano, morto ad appena due anni nel 1892.
Io, in omaggio alla città, avrei inserito anche una foto dell'enorme murale di Diego Rivera degli anni '40 "Sogno di una domenica pomeriggio nell'Alameda Central"...
...dove accanto alla tipica Catrina messicana è stata ritratta anche Frida Kahlo:
Il piccolo cimitero nell'isola Martin Garcia, un'enclave argentina in acque uruguaiane, ha una caratteristica misteriosa unica al mondo: le croci hanno l'asse orizzontale inclinato.
Quello di Cincinnati, lo Spring Grove, vanta un progetto paesaggistico favoloso con dodicimila specie di alberi, colline, quindici laghi, un enorme roseto, oltre ventimila tulipani e altre meraviglie che lo rendono il cimitero più bello del mondo (vale davvero la pena di fare una ricerca su Google immagini!).
Il cimitero presbiteriano Maestro, che si trova in uno dei quartieri più pericolosi di Lima, a detta dell'autrice è il più bello di tutta l'America Latina, aggiungendo: "il più grigio che abbia mai visto, il più triste e il più bello".
Il capitolo dedicato a Rottnest Island è quello che mi ha colpita maggiormente. L'isola misura diciannove chilometri quadrati e si trova lungo la costa occidentale australiana, di fronte a Perth. Il nome deriva da Rat Nest, nido di topi: l'esploratore olandese che la scoprì nel 1689 scambiò i quokka che la abitano per topi giganti! L'isola per quasi un secolo a cavallo fra 1800 e 1900 venne usata come carcere per gli aborigeni e un semplice cartello indica la fossa comune in cui si ritiene ne siano stati sepolti circa 400, morti per impiccagione o a causa delle brutali condizioni di detenzione. Solo negli anni '90 il Governo australiano, che fino ad allora continuava a negarne l'esistenza, ha ceduto alle pressioni dei capi aborigeni riconoscendolo.
Ma l'autrice parla anche di un piccolissimo cimitero che raccoglie appena una ventina di tombe, quasi tutte di bambini morti nella seconda metà del 1800, i figli dei primi coloni.
Il cimitero principale di Francoforte, Hauptfriedhof, dove è sepolto Schopenhauer, è un bosco ordinato del verde cupo tipico dei cimiteri tedeschi (confermo, alcuni li ho visitati). "Tutto è intenso ed eterno: i tedeschi sanno come si fa un cimitero".
A New Orleans ci sono 42 cimiteri (tanti), composti da loculi, cappelle e mausolei: essendo costruita su una palude, non è consigliabile tumulare i morti. Nel cimitero St Louis no. 1, il più antico della città, c'è la seconda tomba più visitata degli Stati Uniti (la prima è quella di Elvis Presley), quella di Marie Laveau, regina del vudù del 1800.
C'è anche quella (orribile) che Nicolas Cage si è già fatto costruire.
E quella della Società Italiana della Mutua Benevolenza, che compare in una scena di Easy Rider.
Villa Epecuén è stata una rinomata meta turistica grazie alle presunte proprietà curative delle acque incredibilmente salate del lago omonimo su cui si affacciava. Tutto finì negli anni '80, quando quelle stesse acque la invasero gradualmente, sommergendola completamente per poi ritirarsi facendo riaffiorare le rovine a distanza di trent'anni. Le immagini sono surreali, in particolare per ciò che resta degli alberi corrosi dal sale, e dice bene l'autrice: "Più che una città bombardata sembra una città divorata, mangiata fino all'osso". Cimitero compreso.
Un breve capitolo è interamente dedicato alla tomba di Elvis Presley, che si trova nel minuscolo cimitero chiamato Meditation Garden all'interno del giardino di Graceland (Memphis), la dimora di famiglia, accanto a quelle dei genitori e della nonna paterna. Come già detto, è la tomba più visitata degli Stati Uniti, mentre la casa è la seconda dopo la Casa Bianca.
Il cimitero Colon de L'Avana è un monumento nazionale: "Ai cubani piace credere che sia spettacolare come Staglieno".
Ha indubbiamente tombe belle, come quella di Jeannette Ryder, fondatrice della Società Protettrice degli Animali. Nella scultura compare anche la sua cagnetta con la scritta: "Fedele anche dopo la morte, Rinti".
O tombe particolari, come quella del Doppio Tre, dove riposa una donna morta durante una partita di domino.
Ma se quella della Milagrosa viene considerata una delle statue più belle del Colon, mi dispiace per i cubani, ma noi genovesi li asfaltaimo!
A questo punto c'è un breve capitolo dedicato ai cimiteri ebraici di Basavilbaso e Villa Dominguez, due piccolissimi paesini della provincia argentina di Entre Rìos collegati tra loro da un trenino che effettura un'unica corsa al giorno, ma non ho capito perchè lo abbia inserito visto che del primo l'unica cosa degna di nota sembra essere l'ingresso, simile alla facciata di una casa (brutta)...
Al cimitero e alle catacombre di Montparnasse dedica, invece, il capitolo più lungo, risvegliando il mio dispiacere per non averli visitati quando sono stata a Parigi, Montparnasse compresa, nel 2001.
Inizia fornendo interessanti dettagli sul Cimitero degli Innocenti che si trovava vicino all'atturale centro Pompidou, in piazza Joachim du Bellay, citato ne "Il profumo" di Patrick Suskind (che ho letto e amato) e in "Scelti dalle tenebre" di Anne Rice (che non ho letto). Venne chiuso nel 1780, comprendeva un'ottantina di mausolei di famiglia e molte fosse comuni per i poveri, dove in ognuna erano stati ammassati fra i 1200 e i 1500 cadaveri. Alla dismissione le ossa, insieme a quelle degli altri cimiteri parigini che man mano venivano chiusi per allontanarli dal centro, vennero trasferite in alcune vecchie cave a Montparnasse, in seguito rinominate ossario municipale o catacombe.
Montparnasse è un cimitero di morti celebri e di tombe magnifiche.
L'autrice lo ha visitato in un'ora scarsa perchè stava per chiudere (inconcepibile per il mio modo di essere turista, piuttosto rimando, come ho fatto, prima o poi ritornerò a Parigi) e descrive le tombe di Serge Gainsbourg, Julio Cortàzar, César Vallejo, Guy de Maupassant, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (sepolti insieme), Jean Seberg. E quella di Ricardo (senza cognome), morto a 37 anni e ricordato con una scultura modernista, non in linea con la sobrietà di questo cimitero, opera di Niki de Saint Phalle (quella del Giardino dei Tarocchi, vicino a Capalbio), di cui era l'assistente.
Poi si passa a Francisco Salamone, architetto italo-argentino della prima metà del 1900, che l'autrice aveva già citato in precedenza per il suo mattatoio sommerso a Villa Epecuén. L'uomo costruiva anche cimiteri, tre nella provincia di Buenos Aires, riuscendo anche a farsi pagare profumatamente!
Quello di Azul ha un'imponente facciata di ventidue metri