mercoledì 15 gennaio 2020

"La figlia femmina", Anna Giurickovic Dato


Rabat, qualche anno fa. Giorgio è un diplomatico assegnato all’Ambasciata italiana in Marocco dove si è trasferito con la giovane moglie Silvia e la loro bambina, Maria. La vita scorre piacevole e tranquilla per tutti i membri di questa famiglia serena, quanto meno all’apparenza.
Roma, alcuni anni dopo. Silvia e Maria sono rientrate in Italia da quattro anni. Adesso Maria ne ha 13, ha perso la serenità di quando era piccola e anche il rapporto madre e figlia sopporta tensioni che vanno oltre al rapporto difficile che spesso si crea fra genitori e figli adolescenti, situazioni così comuni da essere normali. Ma non c’è nulla di normale in ciò che avviene durante il pranzo domenicale in cui Silvia presenta alla figlia Antonio, il suo nuovo compagno.

Opera prima (e non si direbbe da quanto è ben scritto) e per ora unica (peccato) di questa giovane (non giovanissima) scrittrice catanese che ai tempi dell’uscita del libro aveva spaccato la critica e, dopo averlo letto, ne capisco il motivo.

Il tema trattato è delicato quanto orribile, una bambina abusata dal padre: non sto facendo spoiler, la storia è nota, la sinossi stessa del libro lo dice (e dice troppo, consiglio di leggerla alla fine, come ormai faccio quasi sempre), ma soprattutto il lettore lo scopre nelle primissime pagine. E questo è un bene perché il passato di Maria fornisce l’indispensabile chiave di lettura per i suoi atteggiamenti durante il pranzo domenicale del presente.

La voce narrante è quella di Silvia, una donna così impegnata nel ruolo di moglie e di madre perfetta, da essere così ottusamente e odiosamente cieca da non riuscire a riconoscere i segnali malati del marito né quelli del dramma vissuto dalla sua bambina.

La Giurickovic Dato dovrebbe dare lezioni a Ruth Newman (e non solo, cito lei in particolare solo perché fresca di lettura) su come raccontare una storia usando piani temporali diversi. Ne “La figlia femmina” - scritto così bene da farlo risultare scorrevole nonostante la pesantezza della vicenda – si passa con eleganza da Roma a Rabat, dal prima al dopo, con il dopo che a sua volta abbraccia alcuni anni e circostanze diverse, Maria a cinque anni, Maria a nove anni, ma anche la vita di Silvia e di Giorgio prima dell’arrivo di Maria.

A disturbarmi moltissimo a fine lettura sono state alcune cose scritte nella sinossi: “Maria è davvero innocente, è veramente la vittima del rapporto con suo padre?”. E ancora: “La figlia femmina mette in discussione ogni nostra certezza: le vittime sono al contempo carnefici, gli innocenti sono pure colpevoli”. Non ho trovato una Maria colpevole nel libro, neppure alla luce di ciò che ha fatto in passato e che fa nel presente. Ma soprattutto è la prima domanda che mi indigna: una bambina che a cinque anni viene violentata dal proprio padre cosa può essere se non una vittima??? L’editore ha reso un pessimo servizio all’autrice e questo libro avrebbe meritato di andare oltre alla sola candidatura al Premio Strega 2017: a mio giudizio supera di molte spanne il vittorioso “Le otto montagne” di Cognetti che ha solo una cosa in più rispetto a “La figlia femmina”: l’essere molto commerciale.

Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia artista di gennaio