Holt
(Colorado), aprile 1977. E’ un sabato quando Dick Harrington,
giovane e inesperto giornalista di Denver, si presenta alla fattoria
di Sanders Roscoe con la pretesa che gli spieghi cos’è successo a
casa dei Goodnough, i suoi vicini, la notte del 31 dicembre appena
trascorso, con il solo risultato di ritrovarsi in mezzo al letame.
Ma
Sanders è burbero solo con chi disprezza e disprezza chi ha
l’arroganza di sapere tutto solo perché è più giovane e vive in
città. Perchè di sicuro Dick
Harrington non sa nulla di quello che ha fatto Edith Goodnough, non
gli interessa neppure saperlo, deve solo raccogliere qualche
dettaglio per imbastire uno stupido articolo e non li avrà certo da
Roscoe.
Però
Sandy ha voglia di raccontare i fatti di quella notte, lui lo sa. Così otto giorni dopo, una domenica pomeriggio, racconterà
tutto… al lettore. Partendo da quando Roy Goodnough e Ada Twamley
lasciarono l’Iowa nel 1895 per trasferirsi in Colorado per
costruire la loro casa sui terreni sabbiosi ricevuti dallo Stato
grazie al Homestead Act del presidente Lincoln…
Sono
passati quasi due anni da quando ho letto “Le nostre anime di notte”, libro che ho adorato e che ha conservato un posto speciale nel mio cuore. E che ora dovrà stringersi un pochino per
fare spazio a “Vincoli”, altrettanto meraviglioso.
Scritto
nel 1984, ha anche un sottotitolo: “Alle origini di Holt”.
Precede infatti di 15 anni “Canto della pianura”, il primo
romanzo della trilogia di Holt, la cittadina immaginaria che Kent
Haruf ha posizionato a circa 240 km da Denver e dove successivamente
ha ambientato anche “Le nostre anime di notte”.
E’
stato quindi un piacere non solo ritrovarla, ma “vederla” nascere,
dai tempi della colonizzazione del West, e crescere (pur rimanendo
una cittadina) fino all’aprile del ‘77. Ma Holt è solo lo
scenario appena abbozzato che fa da contorno alla storia dei due
protagonisti, Edith e Sanders, e delle loro famiglie di origine, i
Goodnough e i Roscoe.
Non
sono una coppia, fra i due ci sono 31 anni di differenza, e il libro
non narra una storia d’amore. Racconta intere esistenze fatte di
povertà e miseria, di fatica, di doveri.
E di
vincoli.
Kent
Haruf aveva un modo di scrivere poetico, delicato, leggero, tenero,
così soave da portarmi a usare tutti questi aggettivi lontani dal
mio modo di essere e di esprimermi, ma leggere un suo romanzo,
nonostante la sua drammaticità - che induce a rubare le parole della
sua voce narrante quando gli fa dire: “non è giusto, la vita è
ingiusta” - fa un gran bene al cuore e al cervello.
Bella
e interessante, seppure breve, anche la nota del traduttore, Fabio
Cremonesi: se non ricordo male è solo la seconda volta che la trovo
in un libro, invece questa “postilla” è un valore aggiunto che
andrebbe sempre inserita, per lo meno in libri di un certo livello.
Invece è la prima volta che trovo un libro dedicato (anche) alle
mucche: se fossi un bovino il Colorado e gli Stati Uniti in generale
sono uno degli ultimi posti al mondo dove vorrei nascere, adesso come
a cavallo fra Ottocento e Novecento, ma per l’amore che provo per
questi animali ho apprezzato quel grazie di Haruf.
Reading
Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia a cascata di
gennaio, lo collego a "Cattive compagnie" per gli autori
sono entrambi anglofoni