Cristina Brondoni, milanese classe 1971, è (cito dalla presentazione nel libro) "giornalista, criminologa, profiler. È consulente in casi di omicidio, suicidio e morte sospetta. Ha fondato Crime Magazine e scritto i saggi “Il soccorritore sulla scena del crimine” con Luciano Garofano e “Sembrava un incidente - Staging sulla scena del crimine”, e il romanzo “Voglio vederti soffrire”." Più, ovviamente, questo saggio e un altro romanzo, "L'appartamento dell'ultimo piano", uscito alla fine del 2020 e che è il seguito di "Voglio vederti soffrire" (stesso ispettore protagonista).
Li ho tutti in wish list, ma li eliminerò. Mi pregustavo questa lettura attirata dal titolo, dalla trama e dall'argomento, ma è stata una grossa delusione principalmente a causa dello stile narrativo scelto dall'autrice, forse un maldestro tentativo di fare dello humor macabro senza mai riuscirci (niente di paragonabile a Caitlin Doughty, per capirci).
Il saggio mette in evidenza come non sia facile rappresentare la morte in modo convincente, soprattutto sullo schermo, ed evidenzia come nella realtà il lavoro degli addetti sia molto diverso e molto più difficile rispetto a quello che ci propinano nella fiction, ma (particolare non dichiarato nella sinossi) è rivolto ad aspiranti autori e sceneggiatori, cosa che io non sono e non ho gradito la sorpresa.
E' a loro che la Brondoni spiega cosa devono fare (documentarsi il più possibile) per creare situazioni verosimili. E fa degli esempi citando romanzi (compreso un classico che mai mi sarei aspettata di trovare in queste pagine), serie TV e qualche film (fa anche alcuni evitabili spoiler, non è detto - ad esempio - che tutti i lettori di questo libro abbiano già letto e/o visto "Il nome della rosa" e la Brondoni spiattella senza ritegno il mistero e la soluzione del caso!).
Ma tratta troppo superficialmente gli argomenti portanti del saggio, usando inoltre un tono che indubbiamente avvalora il suo definirsi sociopatica e menefreghista, ma che lo impoverisce moltissimo dando l'impressione di leggere un qualcosa di poco serio e derisorio.
Sinceramente non ho capito questa scelta poco felice di esprimersi come un'adolescente che ha appena sdoganato l'uso delle parolacce. Peccato perché scrive anche cose interessanti, ad esempio racconta il primo caso risolto grazie al profiling negli anni '50, spiega cos'è lo staging, cosa si intende per overkiller e la differenza fra il sistema italiano che si basa su leggi scritte (Civil Law) e quello anglofono (Common Law) basato sui precedenti, cioè su casi e sentenze già emesse, oltre a criticare il modo in cui vengono verbalizzati gli interrogatori in Italia (ovviamente senza neppure arrivare a sfiorare la capacità con cui lo fa Carofiglio), ma è tutto sbrigativo e privo di approfondimenti e senza la serietà dovuta all'argomento il testo non sembra un saggio, ma una caricatura.
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