Oceano Pacifico, anni Venti. Un gruppo di giovani donne giapponesi sta navigando verso l'ignoto. La povertà e la speranza di un futuro migliori hanno spinto le loro famiglie a farle sposare per procura con connazionali che hanno conosciuto soltanto attraverso una fotografia e qualche dolce lettera. Uomini che da tempo hanno lasciato il loro Paese stabilendosi sulla costa Occidentale degli Stati Uniti. Sono commercianti di sete pregiate, banchieri, dirigenti.
Le ragazze hanno paura, ma sono convinte che sia stato meglio sposare uno sconosciuto anziché un contadino del villaggio, almeno non si spaccheranno la schiena sui campi.
"Questa è l'America, ci saremmo dette, non c'è nulla di cui preoccuparsi. E ci saremmo sbagliate."
Ho scoperto Julie Otsuka due anni fa quando, leggendo "L'amante giapponese", avevo cercato approfondimenti sulle restrizioni, le confische, i trasferimenti forzati e l'isolamento patiti dai giapponesi residenti negli Stati Uniti dopo l'attacco di Pearl Harbor. Nata in California nel 1962, ma di origini giapponesi, è principalmente una pittrice, ma ha anche scritto tre romanzi brevi: questo, del 2011, è il secondo, preceduto da "Quando l'imperatore era un dio" (del 2002). Cerco sempre di seguire l'ordine cronologico, ma questa volta ho scelto di invertire i due titoli per una questione di storicità: il primo libro parla dei discendenti delle famiglie combinate protagoniste del secondo. "Venivamo tutte per mare", (titolo originale "The Buddha in the Attic") è un volumetto molto particolare a partire dall'uso della prima persona plurale. Dopo aver seguito queste donne durante la traversata oceanica, le vediamo sbarcare a San Francisco dove scoprono che le fotografie che avevano ricevuto non corrispondevano agli uomini a cui erano state sposate. Nessuno era giovane e piacevole come in foto, ma soprattutto nessuno era riuscito a fare fortuna in America. Erano andate via dal Giappone per evitare di passare la vita piegate nelle risaie come le loro madri, ma davanti a loro avevano comunque un'esistenza da passare ad ammazzarsi nei campi, cambiava solo il tipo di raccolto.
Erano state importate dal Giappone come manodopera gratuita. Capitolo dopo capitolo passano gli anni. Ci viene raccontata la prima notte di nozze, i primi contatti con i bianchi americani, le gravidanze e la crescita dei bambini fino allo scoppio della guerra quando i giapponesi divennero i nemici. E se i soldati americani combattevano quelli nipponici in mare e nei cieli, gli americani civili avevano dei giapponesi, civili come loro, a portata di mano - quelli che lavoravano come domestici nelle loro case, che raccoglievano la loro frutta nei loro campi, che si occupavano dei loro bambini e dei loro anziani e che facevano tutte quelle cose che loro non volevano fare - con cui prendersela e di cui avere paura. Meglio allora privarli di tutto, cacciarli dalle coste e isolarli in quei campi di concentramento dove finisce anche la famiglia Fakuda di Isabel Allende. La Otsuka è molto brava, non sembra una che ha scritto solo poco più di quattrocento pagine nell'arco di vent'anni e, almeno in questo libro, ha uno stile molto particolare, difficile da descrivere, ricorre spesso a elenchi di situazioni e di stati d'animo per raccontare il vissuto di queste donne, prima come figlie, poi come mogli, dopo come madri, quindi come giapponesi e straniere, infine come nemiche del popolo americano.
Un metodo non così scontato da apprezzare, almeno a giudicare dalle recensioni negative (poche) lette su Amazon. In particolare mi stupisce l'uso dell'aggettivo noioso, il cui contrario è divertente: mi domando cosa si aspettassero queste persone comprando un libro che parla di un argomento del genere.
Quegli elenchi sono intelligenti, ogni parola - nessuna banale - serve a dare una misura di quello che queste donne hanno subito e patito. La Osuka non voleva far divertire il lettore, anche volendo non avrebbe potuto. Sono storie vere ispirate alle biografie di chi veramente ha lasciato il Giappone e si è stabilito in America all'inizio del secolo scorso.
Ognuno ha la propria sensibilità, ma umanamente sarebbe più dignitoso annoiarsi solo quando si legge un'opera di fantasia.
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