Tokyo, giorni nostri. Tazaki
Tsukuru ha 36 anni e, grazie alla laurea in ingegneria civile, fa il lavoro che ha sempre sognato: progetta stazioni ferroviarie, onorando anche il significato del suo cognome, Tsukuru, costruire.
Un uomo banale, controllato, triste. Una tristezza che si porta avanti da 16 anni, da quando cioè durante le vacanze del secondo anno di università tornando a Nagoya, sua città natale, si era trovato davanti a un muro eretto fra lui e i suoi quattro migliori amici (due ragazze e due ragazzi) con i quali aveva vissuto quasi in simbiosi nei quattro anni precedenti. Non sapeva perchè, per lui non era successo nulla, invece uno degli amici parlando a nome di tutti gli altri lo aveva liquidato al telefono dicendogli soltanto di non cercarli mai più.
Ed è quello che lui aveva fatto, cadendo per i sei mesi successivi in una profonda depressione, finendo poi col riprendersi fisicamente, ma non riuscendo mai a superare quell'inspiegabile rifiuto.
Sarà Sara, la donna che frequenta da poco nel presente, a spingerlo a cercare i vecchi amici per avere finalmente delle risposte da loro.
Leggere Murakami per me significa sempre uscire dalla mia comfort zone e anche questa volta, come con "Norwegian wood . Tokyo blues", è stata un'esperienza piacevole (non come con "Sonno"). Ho trovato alcune similitudini fra i due romanzi: due protagonisti prossimi ai 40, ma ancorati ai ricordi di ciò che avvenne quando erano giovani studenti, prima del trasferimento a Tokyo di entrambi.
Tazaki ha una scarsa opinione di sé stesso, si considera una persona insignificante, priva di attrattive... incolore. E secondo me ha perfettamente ragione. I personaggi di Murakami, che scrive così bene da rendere piacevole ogni cosa che racconta, mi confondono perchè, avendo una conoscenza superficiale del Giappone, probabilmente basata su molti luoghi comuni, non riesco a capire se siano loro (i suoi personaggi) ad avere un temperamento debole oppure se tutta questa calma, questa mancanza di slanci, ecc, siano tipici dell'indole nipponica.
Tazaki ha una scarsa opinione di sé stesso, si considera una persona insignificante, priva di attrattive... incolore. E secondo me ha perfettamente ragione. I personaggi di Murakami, che scrive così bene da rendere piacevole ogni cosa che racconta, mi confondono perchè, avendo una conoscenza superficiale del Giappone, probabilmente basata su molti luoghi comuni, non riesco a capire se siano loro (i suoi personaggi) ad avere un temperamento debole oppure se tutta questa calma, questa mancanza di slanci, ecc, siano tipici dell'indole nipponica.
Propendo
per la seconda spiegazione, soprattutto dopo aver letto che il modo in
cui Tazaki si fa da parte senza pretendere una lecita spiegazione dagli
amici sia un atteggiamento del tutto logico per un giapponese,
preferibile al rischio di apparire scortese nell'insistere. Logico per
loro, del tutto illogico, se non demenziale, per me (oso dire per noi).
Una
narrazione lenta come il suo protagonista, una trama scarna, ma
comunque una storia che cattura e qui torna in ballo la bravura
dell'autore. Molto bella anche la metafora dei colori.