Prospect
Heights, Brooklyn (New York), gennaio 2016. L’anno nuovo è cominciato da
tre settimane quando una tempesta di neve si abbatte sul Paese. Ed è
a causa della neve e di un attimo di distrazione che Richard
Bowmaster tampona con il suo Suburu la Lexus che lo precede. Una
botta lieve, grazie alla velocità rallentata dalle interperie, e
Richard, serio e corretto professore universitario, non si scompone:
ci penserà l’assicurazione. Ma l’unica cosa che può fare, dopo
aver constatato che la ragazza al volante dell’altra macchina non
parla e sembra non capire quello che lui le sta dicendo, è lasciarle
il suo biglietto da visita. Sarà grande la sua sorpresa quando di lì
a poco la troverà a bussare alla sua porta, ma non enorme come
quella che proverà davanti al contenuto del bagagliaio della Lexus!
E
con la città bloccata in quello stato di ibernazione generale c’è
solo una persona a cui Richard può rivolgersi per avere aiuto,
l’unica a essergli vicina fisicamente: Lucia Maraz, la collega
cilena a cui ha affittato il seminterrato del suo palazzo per i sei
mesi di dottorato presso la sua stessa università.
Era
da prima del ‘96 che non leggevo Isabel Allende e riprendere con
questo suo recente romanzo (del 2017) mi ha fatto pentire per averla messa, non volontariamente, nel dimenticatoio: è bello,
bellissimo.
La
vicenda gialla, un po’ banale e prevedibile, serve solo come
stratagemma per creare l’incontro fra questi tre personaggi così diversi fra loro: Lucia, Richard ed
Evelyn, la ragazza sulla Lexus. Diversi non solo per l’età – i
primi due hanno raggiunto i 60 anni, Evelyn ne ha meno di trenta –
ma anche per temperamento e per vissuto. Tre storie diverse, ma tutte
drammatiche.
Amo
i romanzi dove chi scrive sfrutta la finzione per raccontare la
storia e la realtà. La Allende, con il suo stile scorrevole, riesce
a raccontare il passato non solo dei tre: fa diventare personaggi
anche i loro familiari (discendenti compresi), gli amici e i datori di lavoro. E non si limita ad
abbozzarne la figura, ma va nel dettaglio costruendo
figure marginali nel ruolo, ma non nella descrizione, dando loro uno
spessore che molti autori non riescono a dare neppure ai
protagonisti dei loro libri.
Ma
sono la provenienza e i trascorsi delle due donne a dare al romanzo
la profondità che ha. Attraverso Lucia, nata nel 1954 (e quindi
diciannovenne nel ‘73), la Allende racconta il golpe militare
cileno e i successivi 17 anni della dittatura di Pinochet, mentre
attraverso Evelyn descrive la mattanza guatemalteca degli anni ‘80
e la Mara Salvatrucha, puntando il dito (ma avrebbe dovuto e potuto
infierire di più) sugli Stati Uniti e i loro continui interventi nei Paesi dell’America Latina, portando attraverso la CIA al
rovesciamento delle democrazie rimpiazzandole con “governi
totalitari che nessuno statunitense avrebbe tollerato” (cit.
dal libro).
Azioni
che non fanno parte del passato: un tempo c’era Reagan, adesso c’è
Trump…
E’
un libro che dovrebbero leggere quelli del “non sono razzista,
ma...”: l’accurata descrizione del viaggio di Evelyn, in fuga
dalla morte certa che l’avrebbe colpita se fosse rimasta in
Guatemala, è così tragica, terribile e vera che se dopo averla
letta non si riesce ancora a capire lo strazio di queste persone e si
resta insensibili di fronte a certe miserie e a tali orrori, l’essere
inequivocabilmente razzisti diventa un difetto minore rispetto
all’ignoranza.
Nessuno
dovrebbe mai dimenticare che il luogo di nascita è casuale: se vi è andata bene, come a me, non fatene un vanto, né tanto meno un merito.
Reading
Challenge 2019: collegamento a cascata con la traccia di dicembre. Lo
collego a "Il miniaturista" perchè entrambe le autrici
sono nate ad agosto