Firenze,
giorni nostri. Pietro Gerber ha 33 anni e ha seguito le orme del
padre diventando psicologo infantile specializzato nell’ipnosi. Il
suo contributo è fondamentale per gli inquirenti quando le piccole
vittime di abusi e maltrattamenti hanno seppellito i ricordi di
quanto avvenuto.
E’
quello che è successo anche a Hanna Hall, una bambina cresciuta
nell’isolamento assoluto nella casa delle voci, sottostando alle
cinque regole ferree imposte dai suoi genitori.
Però
Hanna non è più una bambina, ha trent’anni. Ma Pietro accetta
ugualmente di occuparsi di lei per aiutarla a far luce sul passato,
in particolare su un episodio: è stata lei a uccidere Ado quando era
piccola?
La
lettura parte col botto, un prologo datato 23 febbraio di pura
suspense, con un’ambientazione estremamente suggestiva capace di
fare accapponare la pelle, soprattutto se letto a tarda sera come è
successo a me.
E
così quel giorno, da amante del genere, mi ero addormentata felice,
pensando di aver approcciato uno di quei (rari) thriller da leggere
tutto d’uno fiato e col fiato sospeso.
E
invece mi ci sono voluti otto giorni per finirlo. Perchè, dopo il
prologo, nel primo capitolo compare Pietro e da lì comincia la
discesa, a tratti morbida, a tratti in picchiata.
Pietro
non è un protagonista credibile e le sue debolezze, professionali e
personali, non sono giustificabili da “esigenze di copione”, ma
questo è un dettaglio, immagino che molti (questo è un libro che
sta piacendo quasi a tutti) non abbiano dato nemmeno peso a certi
particolari non in linea con il ruolo professionale di quest’uomo.
Così
come molti non saranno stati disturbati (io sì) da temi come le
presunte capacità paranormali che tutti noi avremmo da bambini.
Il
difetto di questo libro è che la storia non sta in piedi.
Come
ho sempre detto, amo quelle in cui alla fine ogni tassello va a posto completando un puzzle con incastri perfetti,
soprattutto nel caso di gialli e thriller dove è fondamentale che
ogni episodio creato dall’autore sia sensato nel quadro generale.
E’ importante riprendere tutti i fili che si è deciso di lanciare
nel corso della narrazione, dando a ciascun fatto la giusta
collocazione temporale, ad esempio, chiarendo il vero ruolo dei vari
personaggi, far emergere il vero motivo per cui uno di loro ha deciso
di fare una determinata cosa oppure com’è arrivato a capirne
un’altra, ecc…
Sono
tutti ingranaggi. Se qualcuno alla fine non combacia io, da odiosa
precisina, storco il naso. Ma se sono tanti a non avere senso crolla
l’intero meccanismo.
Carrisi
si è limitato a sviluppare una traccia, l’ha ingarbugliata a
dovere, ci ha buttato dentro un tot di situazioni tachicardiche
sfruttando le più banali strategie dei film horror anni ‘80 (anche
male, a partire dal titolo del libro, che sembra evocare chissà cosa
per poi deludere quasi subito con una spiegazione che incute
tenerezza, non certo spavento).
In
questo modo ha scritto un libro che in fase di lettura crea quel tipo
di ansia che tanto piace a noi amanti del genere. Ottimo per chi si
accontenta, ma non si può ignorare come troppi aspetti non abbiano
alcuna spiegazione facendo perdere senso a tutto il libro. E non si
tratta di piccoli particolari trascurabili, ma proprio degli ingranaggi
principali su cui Carrisi fa ruotare la vicenda (già molto
inverosimile in generale, ma questo nella narrativa è, più o meno,
accettabile e sopportabile).
Impossibile
entrare nello specifico senza fare clamorosi spoiler, dico solo che
Carrisi ha le qualità per scrivere un thriller coerente e la
mancanza di sforzo in questo senso sa tanto di presa in giro.
Reading
Challenge 2020: traccia gold del mese di febbraio