domenica 9 febbraio 2020

"La casa delle voci", Donato Carrisi


Firenze, giorni nostri. Pietro Gerber ha 33 anni e ha seguito le orme del padre diventando psicologo infantile specializzato nell’ipnosi. Il suo contributo è fondamentale per gli inquirenti quando le piccole vittime di abusi e maltrattamenti hanno seppellito i ricordi di quanto avvenuto.
E’ quello che è successo anche a Hanna Hall, una bambina cresciuta nell’isolamento assoluto nella casa delle voci, sottostando alle cinque regole ferree imposte dai suoi genitori.
Però Hanna non è più una bambina, ha trent’anni. Ma Pietro accetta ugualmente di occuparsi di lei per aiutarla a far luce sul passato, in particolare su un episodio: è stata lei a uccidere Ado quando era piccola?

La lettura parte col botto, un prologo datato 23 febbraio di pura suspense, con un’ambientazione estremamente suggestiva capace di fare accapponare la pelle, soprattutto se letto a tarda sera come è successo a me.
E così quel giorno, da amante del genere, mi ero addormentata felice, pensando di aver approcciato uno di quei (rari) thriller da leggere tutto d’uno fiato e col fiato sospeso.
E invece mi ci sono voluti otto giorni per finirlo. Perchè, dopo il prologo, nel primo capitolo compare Pietro e da lì comincia la discesa, a tratti morbida, a tratti in picchiata.

Pietro non è un protagonista credibile e le sue debolezze, professionali e personali, non sono giustificabili da “esigenze di copione”, ma questo è un dettaglio, immagino che molti (questo è un libro che sta piacendo quasi a tutti) non abbiano dato nemmeno peso a certi particolari non in linea con il ruolo professionale di quest’uomo.
Così come molti non saranno stati disturbati (io sì) da temi come le presunte capacità paranormali che tutti noi avremmo da bambini.

Il difetto di questo libro è che la storia non sta in piedi.

Come ho sempre detto, amo quelle in cui alla fine ogni tassello va a posto completando un puzzle con incastri perfetti, soprattutto nel caso di gialli e thriller dove è fondamentale che ogni episodio creato dall’autore sia sensato nel quadro generale. E’ importante riprendere tutti i fili che si è deciso di lanciare nel corso della narrazione, dando a ciascun fatto la giusta collocazione temporale, ad esempio, chiarendo il vero ruolo dei vari personaggi, far emergere il vero motivo per cui uno di loro ha deciso di fare una determinata cosa oppure com’è arrivato a capirne un’altra, ecc…
Sono tutti ingranaggi. Se qualcuno alla fine non combacia io, da odiosa precisina, storco il naso. Ma se sono tanti a non avere senso crolla l’intero meccanismo.

Carrisi si è limitato a sviluppare una traccia, l’ha ingarbugliata a dovere, ci ha buttato dentro un tot di situazioni tachicardiche sfruttando le più banali strategie dei film horror anni ‘80 (anche male, a partire dal titolo del libro, che sembra evocare chissà cosa per poi deludere quasi subito con una spiegazione che incute tenerezza, non certo spavento).
In questo modo ha scritto un libro che in fase di lettura crea quel tipo di ansia che tanto piace a noi amanti del genere. Ottimo per chi si accontenta, ma non si può ignorare come troppi aspetti non abbiano alcuna spiegazione facendo perdere senso a tutto il libro. E non si tratta di piccoli particolari trascurabili, ma proprio degli ingranaggi principali su cui Carrisi fa ruotare la vicenda (già molto inverosimile in generale, ma questo nella narrativa è, più o meno, accettabile e sopportabile).

Impossibile entrare nello specifico senza fare clamorosi spoiler, dico solo che Carrisi ha le qualità per scrivere un thriller coerente e la mancanza di sforzo in questo senso sa tanto di presa in giro.


Reading Challenge 2020: traccia gold del mese di febbraio