domenica 21 giugno 2020

"Famiglia: femminile plurale", Emilia Marasco


Genova, 2008. Per Nina non è un anno qualunque perché alla fine, il 28 dicembre, compirà quei 50 anni che per lei rappresentano “l’inizio della discesa”. Con tre amiche è proprietaria di una galleria d’arte nel centro storico della città. Ha alle spalle due divorzi: da Bernard, il primo marito, ha avuto Marco quando aveva appena vent’anni; da Fabio, il secondo, una coppia di gemelli, Viola e Simone. E infine è arrivato Giacomo, il terzo e attuale marito, che a 42 anni le ha regalato Lorenzo, il piccolo della famiglia. Una grande famiglia. Una famiglia allargata di cui Nina rappresenta il centro.

Un breve romanzo con una struttura particolare: i capitoli sono dodici, a partire da gennaio uno per ogni mese del 2008 fino ad arrivare al fatidico giorno del compleanno di Nina che è la voce narrante della storia e che racconta il suo presente e il suo passato, ma sempre in relazione agli altri personaggi, che sono tanti, non solo quelli che ha sposato e che ha generato: si aggiungono i genitori, la sorella, le colleghe, le relazioni precedenti o successive a lei dei suoi mariti e gli altri figli di questi.

All’inizio del libro c’è uno schemino, Nina al centro e varie frecce a formare una sorta di albero genealogico. Mi sono preoccupata un po’ vedendolo, ma il libro è semplice, non certo di quelli che necessitano appunti e la Marasco scrive bene, non crea confusione.

Una lettura leggera e piacevole in cui non mi sono ritrovata come avrei potuto avendo compiuto i 50 sette mesi fa, ma era prevedibile, la mia è una famiglia ridotta all’osso e la certezza di non avere davanti un numero di anni pari a quelli vissuti la ho da un pezzo.

A deludermi è stato piuttosto il ruolo marginale e sottotono in cui viene relegata la mia città. Per come inizia la sinossi (“Genova. Le creuze che dal porto s'inerpicano sulla collina, una casa luminosa da cui si vede il mare e una grande famiglia…”) me l’aspettavo protagonista o quanto meno incisiva, come è sempre stata in tutti i libri ambientati qui che ho letto. Invece c’è un’unica parola dialettale, vengono citate solo un paio di piazze, un bar, una drogheria, le saponette Valobra, qualche spiaggia, il Secolo e le trenette al pesto: tolto questo la storia potrebbe essere ambientata ovunque.

Ma soprattutto mi è mancato non trovare quella mentalità e quell’atteggiamento che noi genovesi riconosciamo immediatamente l’un l’altro, quell’attaccamento e quel senso di appartenenza alla città che mi aveva fatto sentire un vivo legame con Bistolfi, Cutrona, la Morbelli, ecc, ma che qui proprio non c’è stato.

Forse è stato intenzionale da parte dell’autrice perché la sua Nina a Genova c’è solo nata, da madre pugliese e padre piemontese, e le fa dire: “non so dove sia la mia radice, sono figlia di emigranti che non hanno posato il cuore dove hanno trovato lavoro, che hanno vissuto in un luogo pensando che quello era il destino che si accetta, ma non si sceglie”. O forse anche lei qui c’è solo nata e la pensa davvero così. Mi piacerebbe saperlo e forse lo scoprirò leggendo a ruota un altro suo romanzo, sperando di non infastidirmi di nuovo per lo sputo nel piatto dove si mangia.
 
Reading Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di giugno "un libro con meno di 400 pagine"