Genova,
2008. Per Nina non è un anno qualunque perché alla fine, il 28
dicembre, compirà quei 50 anni che per lei rappresentano “l’inizio
della discesa”. Con tre amiche è proprietaria di una galleria
d’arte nel centro storico della città. Ha alle spalle due divorzi:
da Bernard, il primo marito, ha avuto Marco quando aveva appena
vent’anni; da Fabio, il secondo, una coppia di gemelli, Viola e
Simone. E infine è arrivato Giacomo, il terzo e attuale marito, che
a 42 anni le ha regalato Lorenzo, il piccolo della famiglia. Una
grande famiglia. Una famiglia allargata di cui Nina rappresenta il
centro.
Un
breve romanzo con una struttura particolare: i capitoli sono dodici,
a partire da gennaio uno per ogni mese del 2008 fino ad arrivare al
fatidico giorno del compleanno di Nina che è la voce narrante della
storia e che racconta il suo presente e il suo passato, ma sempre in
relazione agli altri personaggi, che sono tanti, non solo quelli che
ha sposato e che ha generato: si aggiungono i genitori, la sorella,
le colleghe, le relazioni precedenti o successive a lei dei suoi
mariti e gli altri figli di questi.
All’inizio
del libro c’è uno schemino, Nina al centro e varie frecce a
formare una sorta di albero genealogico. Mi sono preoccupata un po’
vedendolo, ma il libro è semplice, non certo di quelli che
necessitano appunti e la Marasco scrive bene, non crea confusione.
Una
lettura leggera e piacevole in
cui non mi sono ritrovata come avrei potuto avendo compiuto i 50 sette mesi fa, ma era prevedibile, la mia è una
famiglia ridotta all’osso e la certezza di non avere davanti un
numero di anni pari a quelli vissuti la ho da un pezzo.
A
deludermi
è stato piuttosto
il ruolo marginale e sottotono in cui viene relegata la mia città. Per
come inizia la sinossi (“Genova.
Le creuze che dal porto s'inerpicano sulla collina, una casa luminosa
da cui si vede il mare e una grande famiglia…”)
me l’aspettavo protagonista o quanto meno incisiva, come è sempre
stata in tutti i libri ambientati qui che ho letto. Invece c’è
un’unica parola dialettale, vengono citate solo un paio di piazze,
un bar, una drogheria, le
saponette Valobra,
qualche spiaggia, il Secolo e le trenette al pesto: tolto questo la
storia potrebbe essere ambientata ovunque.
Ma
soprattutto mi è mancato non trovare quella mentalità e
quell’atteggiamento che noi genovesi riconosciamo immediatamente
l’un l’altro, quell’attaccamento
e quel senso di appartenenza alla città che mi aveva fatto sentire
un vivo legame con Bistolfi, Cutrona, la Morbelli, ecc, ma che qui
proprio non c’è stato.
Forse
è stato intenzionale da parte dell’autrice perché la sua Nina a
Genova c’è solo nata, da madre pugliese e padre piemontese, e le
fa dire: “non
so dove sia la mia radice, sono figlia di emigranti che non hanno
posato il cuore dove hanno trovato lavoro, che hanno vissuto in un
luogo pensando che quello era il destino che si accetta, ma non si
sceglie”.
O forse anche lei qui c’è solo nata e la pensa davvero così. Mi
piacerebbe saperlo e forse lo scoprirò leggendo a ruota un altro suo
romanzo, sperando di non infastidirmi di nuovo per lo sputo nel
piatto dove si mangia.
Reading
Challenge 2020: questo testo risponde alla traccia normale di giugno "un libro con meno di 400 pagine"